Opinioni
Il processo per la Diaz e la democrazia “normale”
Il processo per i fatti della Diazsarà un concentrato di paradossi. Le premesse ci sono tutte.
Basta guardare la giornata di ieri, lunedì 13 dicembre.
Il giudice per le udienze preliminari, Daniela Faraggi, decide il
rinvio a giudizio di 28 funzionari e alti dirigenti di polizia,
accusati di concorso in lesioni, falso, calunnia per i fatti della
scuola Diaz. E’ “solo” un rinvio a giudizio, la sentenza è
ancora lontanissima, eppure c’è chi parla di “risultato
storico”. E il bello è che non ha torto. Non era affatto
scontato, vista la storia giudiziaria del nostro paese, che uomini
dello stato così importanti – quello di grado più alto
è il capo dell’antiterrorismo – fossero costretti a venire in
tribunale per rispondere di reati commessi durante un’operazione di
ordine pubblico decisa ai più alti livelli istituzionali. Il
commento di Lorenzo Guadagnucci.
In una democrazia “normale”, considerata
l’evidenza dei fatti accaduti il 21 luglio 2001, il rinvio a giudizio
sarebbe un fatto scontato; da noi diventa un piccolo evento
“storico”.
Nel corridoio del tribunale, subito dopo la
sentenza, gli avvocati degli imputati tradiscono una certa delusione
per la decisione del gip e solo davanti ai cronisti, per tenere la
parte, parlano di verdetto atteso e prevedibile. In questo teatrino
del paradosso, il sottoscritto osa dire alcune banalità, ossia
che il risultato ottenuto è certo importante ma non deve farci
dimenticare che il processo è monco, e per due ragioni:
mancano gli esecutori materiali dei pestaggi, sfuggiti alla giustizia
perché agirono a volto coperto come banditi, e mancano notizie
sui livelli più alti, all’incrocio fra polizia e politica,
dove la perquisizione alla scuola Diaz su decisa e poi protetta.
Queste banalità, nell’atmosfera irreale che ha sempre
circondato l’inchiesta genovese, sembrano divagazioni e fughe dalla
realtà. Sembra invece normale la condotta omertosa tenuta in
questi anni dall’apparato di polizia e dai vertici politici dello
Stato.
Sempre ieri, nel commentare la notizia, si
sprecano gli interventi di esponenti dei partiti di governo
(Gasparri, La Russa, Bonacin, Ascierto, Bobbio e altri ancora) per
esprimere solidarietà ai poliziotti imputati, e a nessuno
viene in mente di mandare un messaggio analogo alle 93 persone che
quella notte stavano dall’altra parte dei manganelli. E dire che
molti di loro hanno ancora sul corpo e nello spirito le tracce
indelebili della “perquisizione”.
Anche i politici d’opposizione, salvo alcune
eccezioni, sembrano spiazzati e scelgono il silenzio. Probabilmente
sono in imbarazzo, perché poco abituati a mettere in
discussione i poteri costituiti, nemmeno di fronte ad abusi e
irregolarità palesi. Eppure, per i fatti della Diaz, non
sembra difficile scegliere da che parte stare, specie per chi abbia
desiderio di giustizia, senso dello Stato e rispetto per le
istituzioni. Ma nel processo (e nel paese) dei paradossi, non
c’è niente di lineare.
E ancora ieri Arnaldo Cestaro, uno dei 93
della Diaz, all’uscita del tribunale si rivolge ai cronisti mostrando
il cartello che riproduce la sua cartella clinica (fra le altre cose,
ci sono le fratture di un braccio e di una gamba) e mette in evidenza
l’ennesimo paradosso: “Il governo li promuove, lo Stato li processa”.
E’ così: gli imputati di grado più alto dopo il G8
hanno fatto carriera, nonostante le inchieste e le clamorose prove
raccolte su un’operazione che non ha certo fatto onore alla nostra
polizia.
Il 6 aprile 2005 comincerà il
processo: oseremo anteporre i diritti della persona, le garanzie
costituzionali, lo stato di diritto, alle carriere di alcuni
dirigenti della polizia. Chiederemo allo Stato di stare dalla parte
dei cittadini che hanno subito violenze ingiuste e di aiutarci nella
ricerca della verità e della giustizia. Tutto questo
sembrerà inconsueto, anomalo, al limite della provocazione.
Sarà il processo dei paradossi.
Lorenzo Guadagnucci, 14 dicembre
2005