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In Yemen si muore, con e senza le mine

In tre anni il conflitto ha provocato 10mila morti e due milioni di sfollati. Metà degli ospedali sono distrutti e le malattie hanno campo libero. La rubrica di Luigi Montagnini

Tratto da Altreconomia 212 — Febbraio 2019

La guerra tra i ribelli sciiti Houthi sostenuti dall’Iran e l’esercito della coalizione sunnita guidata dall’Arabia Saudita, ha provocato in tre anni 10.000 morti. Due milioni sono gli sfollati, 22 milioni le persone che hanno bisogno di assistenza sanitaria. All’inizio del 2018 i combattimenti si erano intensificati lungo la linea del fronte che divide le città di Taiz e Hodeidah. Le forze supportate dalla coalizione si erano spinte verso il porto di Hodeidah, sul Mar Rosso, per poi sferrare un attacco alla città la scorsa estate.

Attraverso quel porto strategico passano la maggior parte degli aiuti internazionali per la popolazione yemenita, affamata e stremata. Gli Houthi, per frenare l’avanzata delle truppe di terra della coalizione, hanno disseminato migliaia di mine per le strade e nei campi. Le principali vittime delle mine sono ancora i civili, uccisi o mutilati a vita dopo averle calpestate inconsapevolmente. Nell’ospedale da campo di Mocha, nella regione di Taiz, costruito da MSF per curare i feriti delle mine, un terzo dei 150 pazienti trattati tra agosto e dicembre 2018 erano bambini.

Nasser ha 14 anni. Alcuni anni fa, una ferita d’arma da fuoco gli aveva staccato il primo dito della mano sinistra. Lo scorso 7 dicembre, Nasser ha calpestato una mina mentre pascolava le pecore di famiglia in un campo vicino a Mocha. Il papà di Nasser sapeva che nei campi erano state nascoste delle mine, ma non ne poteva conoscere la posizione esatta. Come spesso capita quando si ha a che fare con le mine, la ferita alla gamba di destra era molto complessa e ha costretto il chirurgo ad amputare l’arto di Nasser sotto il ginocchio. Senza il pollice di una mano, Nasser farà molta fatica a usare le stampelle. Prima della guerra, il territorio tra Mocha e la linea del fronte erano campi coltivati. Molti dei contadini hanno dovuto abbandonare i loro possedimenti, maledetti due volte per colpa delle mine, perché uccidono i loro bambini e perché gli impediscono di lavorare la terra e sostenere le loro famiglie. Le mine possono rimanere nascoste nella terra per decine di anni. Secondo lo Yemen Executive Mine Action Centre, tra il 2016 e il 2018 l’esercito yemenita ha rimosso 300.000 mine.

16 milioni, sono le persone prive di accesso all’acqua potabile e a servizi igienici in Yemen (fonte: WHO)

Le operazioni di sminamento sono condotte quasi esclusivamente dai militari che si concentrano sulle strade e sulle aree strategiche, prestando poca attenzione alle aree rurali frequentate dai civili. In Yemen si muore, anche senza mine. Si continua a morire per mancanza di cure mediche. Muoiono le mamme incinta e i bimbi dentro di loro perché devono viaggiare a piedi per giorni per raggiungere un ospedale che le possa curare: non ci sono soldi per mangiare, figuriamoci per il carburante di un’auto. Perché la metà degli ospedali sono stati distrutti o non sono funzionanti. Perché il sistema sanitario in Yemen non esiste più e le malattie infettive come il colera, la difterite e il morbillo hanno campo libero. Il solo colera ha colpito più di un milione di persone e ne ha uccise 2.300, stabilendo il terribile record della più grande epidemia di colera della storia recente. 8 milioni di persone sono senza cibo e 400.000 bambini sotto i 5 anni soffrono di malnutrizione grave. Io non riesco a non piangere guardando il volto di Amal, la bimba yemenita morta di fame lo scorso mese di ottobre, la cui foto ha fatto il giro del mondo. Rivedo gli occhi spenti dei miei bimbi di Mosul. Ritrovo l’idiozia feroce di ogni guerra. Rivivo l’inutile susseguirsi di sdegno e di promesse. Amal, “speranza”.

Luigi Montagnini è un medico anestesista-rianimatore. Dopo aver vissuto a Varese, Londra e Genova, oggi vive e lavora ad Alessandria, presso l’ospedale pediatrico “Cesare Arrigo”. Da diversi anni collabora con Medici Senza Frontiere.

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