Cultura e scienza / Intervista
William Atkins. Tre isole per raccontare l’esilio

Il re zulu Dinuzulu kaCetshwayo a Sant’Elena, la rivoluzionaria francese Louise Michel in Nuova Caledonia e l’etnografo ucraino Lev Šternberg sull’isola di Sachalin. Lo scrittore britannico ha seguito le tracce di tre esili “storici” indagando in un libro potente il dolore della separazione, la nostalgia che si incarna nel corpo e nella mente, e le inaspettate forme di solidarietà che potevano nascere tra esiliati e popolazioni indigene, accomunati dalla violenza dell’esclusione. Lo abbiamo intervistato
Che cos’è “casa”? È una domanda universale, che risuona con particolare forza in un’epoca segnata da spostamenti di massa e confini mobili. A partire da questo interrogativo prende forma “Tre isole”, il potente libro di William Atkins, appena pubblicato da Iperborea. L’idea nasce da immagini emblematiche dello sradicamento umano: zaini abbandonati nel deserto dell’Arizona dai migranti in cammino, migliaia di giubbotti di salvataggio accatastati sulle spiagge greche. Immagini di assenza e di passaggio, che aprono la strada a una riflessione sul significato dell’esilio.
Per dare sostanza a questa riflessione, Atkins ricostruisce le vicende di tre dissidenti politici della fine del XIX secolo, esiliati su isole ai margini del mondo: il re zulu Dinuzulu kaCetshwayo a Sant’Elena, la rivoluzionaria francese Louise Michel in Nuova Caledonia e l’etnografo ucraino Lev Šternberg sull’isola di Sachalin. Seguendo le tracce dei loro esili, l’autore britannico si reca personalmente in quei luoghi, scoprendo quanto il trauma dell’esilio sia intrecciato alla lunga ombra dell’impero coloniale, e come le isole che li accolsero siano ancora oggi segnate da quella memoria.
“Tre isole” è quindi più di un racconto storico: è un’esplorazione profonda del senso della parola “casa”, delle forme del potere imperiale e del conflitto, mai risolto, tra il partire e il restare. Attraverso le vite dei suoi protagonisti -e attraverso la propria esperienza di viaggio- Atkins indaga il dolore della separazione, la nostalgia che si incarna nel corpo e nella mente, e le inaspettate forme di solidarietà che potevano nascere tra esiliati e popolazioni indigene, accomunati dalla violenza dell’esclusione.
In un tempo in cui l’impulso a rimuovere gli “indesiderabili” persiste e milioni di persone vivono sulla soglia dell’esilio, queste storie ottocentesche risuonano con urgenza. Ricordano che l’esilio è raramente temporaneo, e che solo in rari casi -come per Šternberg, che durante la deportazione pose le basi della moderna etnologia russa- può diventare una forma di resistenza o di trasformazione.
Quello di Atkins un viaggio letterario attraverso la geografia dell’esilio, e del modo in cui le vite ai margini possono gettare luce sulla nostra idea di appartenenza, di perdita e, forse, di ritorno. Lo abbiamo intervistato.
Vorrei iniziare dalla genesi di “Tre isole”. Esordisce con l’immagine degli zaini abbandonati nel deserto dell’Arizona, e dei salvagenti nel Mediterraneo. In che modo questi eventi personali hanno influenzato la struttura narrativa e il tono del libro? E come si intrecciano con l’idea che ogni libro di viaggio sia, in fondo, un’allegoria?
WA Suppongo che rappresentino una sorta di numero infinito di vite segnate dallo sradicamento. I miei tre protagonisti principali sono, in un certo senso, esiliati privilegiati, mentre per la stragrande maggioranza delle persone, storicamente ma anche oggi, l’esilio è un’esperienza di straordinaria impotenza. Per quanto riguarda l’allegoria, questo libro, come anche il precedente sui deserti, è una sorta di ricerca per definire una parola: voglio capire cosa intendiamo davvero per “esilio”, e non credo di averlo compreso fino a quando non ho terminato di scrivere il libro. C’è la morte di mio padre, ci sono le storie di esilio che risuonano dentro tutti noi, perché tutti sperimentiamo qualche forma di perdita, queste fratture, queste interruzioni violente delle vite. Edward Said dice: “L’esilio è stranamente affascinante da pensare, ma terribile da vivere”. Spero, nel libro, di aver riconosciuto costantemente la realtà, il trauma e i danni provocati dallo sradicamento.
Parliamo delle tre figure che ha scelto: in che modo le loro vicende le hanno permesso di esplorare aspetti complementari del concetto di esilio?
WA Credo sia proprio questo loro essere così lontani, geograficamente e politicamente. La natura disparata dei loro esili mi ha permesso di riflettere su questioni universali: la solitudine, l’impero e il colonialismo, e di cercare di comprendere l’effetto psichico dello sradicamento.
Le tre isole dove si trovano sono isole, e questo mi ha permesso di esplorare la differenza tra prigionia e prigionia geografica, i muri del carcere sono il mare stesso, e questo tipo di deportazione politica, in quel periodo storico, era strettamente legata al colonialismo.
Nel libro scrive che è anche un libro sugli imperi. Visto che esilio e impero sono strettamente connessi, come ha incontrato questa dinamica durante i suoi viaggi? Penso, ad esempio, alla Nuova Caledonia al tempo delle elezioni.
WA Queste tensioni sono molto vive ancora oggi, e speravo di poterle esplorare. Le fratture causate dall’esilio e dal colonialismo continuano a risuonare nel presente. In Nuova Caledonia l’ho percepito con particolare forza. Ero lì durante un referendum sull’indipendenza dalla Francia, e il malcontento, la tensione nell’aria, erano palpabili. Ho sentito quell’atmosfera come un’eco del tempo in cui Louise Michel si trovava lì. E ha ragione a parlare di solidarietà: in tutti e tre i casi, i protagonisti sono riusciti a costruire alleanze con le comunità locali. Per me, questa è una nota di speranza: solidarietà e resilienza, e l’idea che attraverso queste si possa generare un cambiamento politico.
E la devastazione psicologica dell’esilio? Cita il “languore” di Ovidio. Come cerca di restituire la sofferenza interiore dei suoi protagonisti? E in che modo pensa che abbiano usato la scrittura, lo studio, l’etnografia come strumenti di resistenza e sopravvivenza?
WA La nostalgia, nel suo senso originario, come forma di malattia del ritorno, è uno dei temi centrali: come la perdita di un luogo amato si manifesti nel corpo. Ovidio parla di essere fisicamente lacerato -questo senso di nostalgia come qualcosa che può ucciderti-. E il modo per esplorare questa idea è la mia immaginazione. Lev Šternberg ha letteralmente dato vita all’etnologia russa durante il suo esilio; Louise Michel studiava la botanica locale; Dinizulu scriveva lettere, imparava a suonare il pianoforte. Era un modo per riappropriarsi dell’esperienza, trovare in quella prigione una sorta di libertà, una libertà della mente. Tutto ciò che ti resta è guardare dentro di te -attingere alle tue risorse interiori- ma, ancora una volta, erano persone potenti in posizioni relativamente privilegiate, avevano il tempo e le risorse per arricchire le proprie vite anche dentro i vincoli dell’esilio.
Parlando di solidarietà, prima ha citato Louise Michel. Nel libro scrive del suo sogno di fondare una casa dei rifugiati a Londra, per accogliere tutti gi apolidi.
WA Sì, e non si è mai realizzato. Era un progetto politico, certo, ma non anarchico. L’idea che il mondo potesse riunirsi in un solo luogo, in pace e armonia. Forse, verso la fine della sua vita, ha cominciato a desiderare l’armonia, la riconciliazione. Forse è questo che l’esilio le ha insegnato. Lei lascia il luogo dell’esilio, torna a casa, ma scopre che la casa non esiste più.
Circa Sant’Elena, mi ha colpito molto l’idea dell’“isola ombra”, questo concetto di un luogo invisibile, accanto a quello visto dai turisti. Sant’Elena è un’isola molto depressiva, per ciò che racconta.
WA È un luogo legato all’esilio di Napoleone Bonaparte, 90 anni prima che Dinizulu venisse deportato lì. C’è questa visione turistica di Sant’Elena come isola remota, perfino bella. E lo è. Ma è anche legata a una parte molto nota della storia, la narrazione del “grande uomo”. Una delle cose che volevo fare, concentrandomi su un altro esiliato politico era esplorare un altro strato dell’isola, esporre quell’isola-ombra. Ma oltre a Dinizulu, c’è un’ombra ancora più profonda: le tombe di decine di migliaia di schiavi africani liberati. Ne furono portati lì 24.221, di cui tra i 7.000 e gli 8.000 morirono. Venivano raccolti dalle fregate britanniche dopo l’abolizione della tratta e condotti a Sant’Elena come punto di passaggio. Venivano sbarcati in condizioni terribili, molti morivano durante il viaggio o poco dopo l’arrivo. Quindi hai un luogo famoso per l’esilio di Napoleone, eppure è anche una fossa comune per migliaia di africani senza nome. A Jamestown, la capitale -che è più un villaggio, in realtà- c’è un capanno con un cartello che dice: “In questo capanno ci sono i resti di centinaia di africani liberati”. I loro nomi sono sconosciuti, le loro vite non documentate, non avranno mai un biografo. Ho voluto che questa presenza fosse avvertita in tutto il capitolo, e in tutta la storia di Dinizulu. È un promemoria: tutti conoscono Napoleone ma nessuno conosce queste persone.
Cita anche la definizione di casa secondo gli zulu, che ho trovato davvero potente, “il luogo dove riposano gli antenati”. In che modo questa idea ha modellato la sua comprensione dell’esilio? E come si riflette nelle storie di Dinizulu o, per esempio, della comunità coreana di Sakhalin?
WA Sì, penso che sia la definizione più bella che abbia mai incontrato di “casa degli antenati”: il luogo dove riposano i resti dei tuoi antenati. Dei tre personaggi del libro, Dinizulu è quello più devastato dall’esilio. O forse non è tanto l’esilio in sé a devastarlo, quanto il ritorno dall’esilio. Come tutti e tre, torna in una patria che non esiste più. Nel suo caso, il regno è stato deliberatamente smembrato, il suo popolo disperso. È sparito. E ne soffre profondamente, perché non può veramente tornare a casa. Questo, in sostanza, lo uccide. Le cronache del tempo dicono che è morto di crepacuore -e non ho mai letto una descrizione più esatta della morte di qualcuno-. È stato consumato dal dolore. Ma alla fine è stato sepolto con i suoi antenati, dove riposava suo padre. Quindi, in un certo senso, è tornato a casa, ma solo nel modo in cui tutti noi torniamo a casa: attraverso la morte.
Un’ultima domanda sulla natura. Nel libro, gli animali sembrano avere un ruolo simbolico ricorrente. Vediamo le oche e gli albatros con Louise Michel, gli uccelli “barbuti”, le falene di Sant’Elena. Che ruolo hanno per lei questi incontri? Riflettono non solo il paesaggio fisico ma anche quello emotivo dell’esilio?
WA Credo che rivelino un altro tipo di separazione: l’idea che gli animali siano esiliati da noi, ma anche che noi, forse fin dai tempi biblici, siamo esiliati dalla natura stessa. C’è una nostalgia per una comunità a cui non possiamo più accedere pienamente. Louise Michel, per esempio, fin da bambina era animata da un profondo amore per gli animali. Racconta degli uccelli durante il viaggio, albatros a cui veniva tagliata la gola e lasciati morire appesi. La sua compassione era universale. Non sopportava la crudeltà, che fosse verso le persone o verso gli animali, nemmeno verso i nemici. E poi c’è la falena a Sant’Elena. L’ho scoperta con il mio amico Tim. Non era mai stata vista o registrata prima. Leggo spesso quel passaggio durante le presentazioni. Per molto tempo non sapevo perché quella falena dovesse stare nel libro, ma sapevo che doveva starci. Alla fine, credo che abbia una funzione allegorica: parla di libertà, fuga, trasformazione, volare nel cielo notturno. Quindi sì, il mondo non umano deve far parte della narrazione, soprattutto oggi, in questo momento di crisi ecologica.
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