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Diritti / Opinioni

Voucher, le ragioni per cambiare, dati alla mano

Nati per contrastare il lavoro nero, i buoni sono diventati “strutturali”. Un modello retributivo che non garantisce diritti agli occupati. La rubrica a cura dell'”Osservatorio sulla coesione”

Tratto da Altreconomia 191 — Marzo 2017

I voucher, o buoni per regolare le prestazioni di lavoro accessorio, si sono imposti con forza nel dibattito pubblico. Basti pensare che tra il 2008 (primo anno di applicazione) e il 2015 i voucher riscossi, cioè quelli effettivamente utilizzati nell’anno, sono passati da 480mila a 88 milioni. Incremento simile riguarda i lavoratori coinvolti, da 24.775 a 1.380.000. I dati non lasciano indifferenti ma nemmeno sorprendono, visto il processo di totale liberalizzazione di questo strumento, sia in termini di settori produttivi -tutti, a parte qualche limitazione nell’agricoltura- sia in termini di soggetti -tutti gli individui indipendentemente dalla loro categoria professionale, lavoratore, pensionato, studente, disoccupato-. Rimane una duplice limitazione economica: ogni lavoratore non può percepire più di 7.000 euro l’anno tramite voucher, massimale aumentato dal Jobs Act rispetto ai precedenti 5.000 previsti dalla “riforma Fornero”; non si possono percepire voucher per un valore complessivo superiore a 2.000 euro annui da parte di uno stesso datore di lavoro.

Nati per fare emergere il lavoro nero, i voucher hanno ben presto mostrato la loro vera essenza: uno strumento di svalutazione del lavoro istituzionalizzato, che colpisce sempre più i giovani. Agli elevati tassi di disoccupazione, le aziende, soprattutto nei settori del turismo, della distribuzione al dettaglio e della ristorazione, contrappongono una costante rotazione di manodopera retribuita per mezzo dei buoni lavoro, come confermano i dati sulla distribuzione dei voucher riscossi per settori pubblicati nell’Osservatorio sul lavoro accessorio dell’INPS.

Queste modalità di utilizzo, fintanto che i lavoratori non sono effettivamente impiegati per un numero cospicuo di mesi e parte della retribuzione non viene erogata “in nero”, non corrispondono a degli abusi di legge. Leciti sono invece i casi in cui i voucher vengono utilizzati per remunerare i periodi di prova. Rimane però che i buoni lavoro non garantiscono diritti quali l’assegno di disoccupazione, e quindi oggi anche quello di ricollocazione, le ferie e il congedo di maternità retribuiti. Anche la contribuzione previdenziale, cioè la quota di salario che viene accantonato per il diritto alla pensione, è meno della metà di quella prevista per un contratto da dipendente: 13% contro 33%. I voucher garantiscono invece contro gli infortuni sul lavoro, dato che sono soggetti a contribuzione INAIL.

88.000.000: il numero di voucher riscossi nel 2015. Nel 2008 erano 480mila. Identica dinamica per i lavoratori interessati: 24mila nel 2008, 1,4 milioni circa nel 2015

Da queste evidenze dovrebbe muoversi il dibattito sull’abolizione dei voucher così come regolati dall’attuale diritto del lavoro. Non si tratta di abolire il lavoro occasionale, bensì di garantire a tutti i lavoratori i diritti minimi costituzionalmente previsti, come appunto una remunerazione degna e tutele di welfare per i periodi di non lavoro, come chiede la Cgil nella Carta dei Diritti Universali del Lavoro.

La proposta della CGIL è quella da un lato di abolire i voucher così come regolamentati oggi e di riammetterli con maggiori tutele con esclusione dei committenti datoriali e le amministrazioni pubbliche.
I settori esclusi dai voucher possono infatti disciplinare il lavoro occasionale con forme contrattuali a termine, di durata anche giornaliera o per poche ore (utilizzando il connubio tra contratto a termine e regime orario part-time), garantendo contestualmente non soltanto una remunerazione pari ai contratti collettivi nazionali dei vari settori, ma anche tutti le stesse tutele, anche ai fini previdenziali, riconosciute ai lavoratori dipendenti.

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