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Vita e morte di uno dei vicoli – Ae 20

Numero 20, settembre 2001Io, cronista parte in causaIn questo lavoro sui ragazzi dei vicoli non ho rispettato molte delle regole del giornalismo. Spesso (vorrei dire: sempre) mi sono sentito “parte in causa”.Forse perché quel venerdì 20 luglio ero lì, in…

Tratto da Altreconomia 20 — Luglio/Agosto 2001

Numero 20, settembre 2001

Io, cronista parte in causa
In questo lavoro sui ragazzi dei vicoli non ho rispettato molte delle regole del giornalismo. Spesso (vorrei dire: sempre) mi sono sentito “parte in causa”.

Forse perché quel venerdì 20 luglio ero lì, in via Tolemaide, con altri giornalisti in testa al corteo delle Tute bianche. Davanti alla barriera degli scudi di plexiglass, per intenderci. E, quindi, ho bisogno di dire chiaramente una sola cosa: per me, per me che ero lì, la morte di Carlo, nonostante l'estintore, nonostante l'assalto alla camionetta dei carabinieri, pesa su chi ha ordinato quella carica insensata, cattiva, ingiustificata, brutale contro il corteo delle tute bianche che scendeva con le sue armature di plastica e i suoi irridenti (e ridicoli) scudi lungo quella maledetta via Tolemaide.

Chi ha dato l'ordine sciagurato di fermare quella manifestazione, disarmata, sbruffona e spavalda fino alla sottovalutazione della minaccia, contrapposta e speculare, dei carabinieri e dei black bloc, ha voluto la battaglia. Sembrava un gioco. Non lo era. Non lo sarà mai più. E le colpe, perdonatemi, non stanno dalla parte dei ragazzi, ma degli adulti, di quegli adulti irresponsabili che hanno voluto che un carabiniere di leva (anni 20) e un ragazzo con un passamontagna (anni 23) diventassero nemici irriducibili uno dell'altro.

Chi comandava quel drappello di carabinieri, chi ha ordinato a una specie di “carroarmato” di sfondare la testa del corteo (a Tienanmen, perlomeno, il blindato cercava di evitare quell'uomo solo, in mezzo alla strada) ha sulla coscienza la responsabilità di quello che è successo in piazza Alimonda.

Alle tute bianche rimprovero un' ingenuità grave: è colpa seria essersi infilati, quasi con allegria, nella trappola di via Tolemaide.

Le parole del padre di Carlo sono davvero pietre. Vanno lette, come lui dice “tutte assieme”:

“Non condivido il gesto di mio figlio… Provo pena per chi lo ha ucciso. Sì, ma non condivido il dovere di uccidere. Quale ordine potrà mai difendere chi spara in faccia a chi non ha armi? La vittima è Carlo”.
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Perché nessuno ha scritto una cosa semplice? Che Carlo Giuliani era bello. Bello, con i capelli lunghi, in quella foto di classe scattata ai tempi del liceo scientifico Leonardo Da Vinci. Bello, nella foto più diffusa dai giornali: era già più vecchio di una manciata di anni, con i capelli quasi rasati. Bello, piccolo, magrissimo, gentile, con occhi sorridenti. Davvero: il passamontagna non rendeva giustizia alla bellezza dei suoi 23 anni.

Anche Sara, “Saretta”, 21 anni, è bella, gioiosa, vera come un rosa. E ricorda: “Era così simpatico, amorevole. Non litigava mai con nessuno. Ti salutava sempre con un bacino. Una cosa che qui a Genova, nei vicoli, nessuno fa mai. Carlo ti voleva bene”. Ho cercato di riportare, parola dopo parola, il ricordo di Sara. Perché mi è sembrato il più sincero, il più immediato. È uscito così dal suo sorriso, dal velo di malinconia che ha attraversato il suo sguardo, dopo un lungo parlare all'ombra di un albero nel giardino della facoltà di architettura, università sorta nel cuore dei vicoli genovesi.

È lei, ci potrei giurare, ad avere scritto parole di tenerezza e dolore lasciate sull'altare laico nato, in queste settimane, in piazza Alimonda: “Mi ha sempre fatto piacere incontrarti nei vicoli. Sotto casa vedo ancora la tua sagoma, un cappellino in testa”. Quasi una lettera a Carlo, a Carletto, come era conosciuto dai suoi amici. Più in alto, altre parole lasciate, con il pennarello, su un drappo bianco da Roberto: “Solo chi ti ha conosciuto può capire ciò che il mondo ha perso”.

Questo è davvero quello che passa nella testa dei ragazzi di Genova. “Sono stati tramortiti da questa morte”, avverte don Andrea Gallo, 73 anni, prete dei vicoli e del porto. E ha ragione, una ragione insopportabile per quanto è dolorosa. Come quella di chi ha detto, piangendo, ai funerali: “Non me ne faccio nulla di un eroe dell'antiglobalizzazione, a me manca un amico vivo”.

Sbaglia, invece, chi ha scritto che Carlo non è un ragazzo che appartiene al “movimento”, quel “movimento” che ha portato 200 mila persone in piazza. Vi apparteneva, eccome. Spiega Alessandro Dal Lago, 54 anni, sociologo, preside di Scienza della Formazione a Genova: “Hanno ucciso un ragazzo. Un ragazzo, forse vagamente, ma certamente di sinistra. Un ragazzo che era venuto ai cortei e che aveva valori etici autentici. E nessuno ha il coraggio di dire che faceva parte di questo movimento? Che ne era davvero rappresentativo? Posso dire che questo silenzio è quantomeno sconcertante”.

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Nel ventre della città slabbrata

Com'è bella Genova. Come sono belli i suoi vicoli che l'arroganza e la paura degli Otto Grandi avevano ridotto a deserto, a solitudine, a prigione. Essere a Genova vuol dire essere a Dakar, a Barcellona, a Tangeri, a Marsiglia, a Napoli. “È una città che senti tua”, dice un'altra ragazza. Ci vorrebbero le parole di Jean-Claude Izzo, scrittore del porto di Marsiglia, per raccontarla. Città rovesciata, come quasi tutte le città di mare: i quartieri del degrado e della bellezza, della povertà e dell'antica ricchezza, degli immigrati e della genovesità, della prostituzione e delle suore di Teresa di Calcutta, della droga e delle osterie felici sono nel centro storico. I “senzastoria”, qui, attorno al porto, sono mischiati con l'avanzata di una borghesia “illuminata”, di ricercatori universitari, di famiglie di intellettuali che, lentamente, ma inesorabilmente, vengono a vivere fra i vicoli. Qui, “dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi”.

E qui vivono, spendono le loro giornate, passano nottate di birra e fumo, i ragazzi, i ragazzi di Genova. Quelli che nei vicoli ci abitano (pochissimi gli “indigeni” veri) e quelli che, ogni giorno, ci vengono da fuori. Inutile chiedere quanti sono. Ti rispondono: “Ha un senso se ti dico duecento e poi diecimila?”. Il paesone dei vicoli, luogo dove tutti si conoscono e si salutano, è una città viva e incasinata, slabbrata ed eccitata: qui ci stanno, fra genovesi e turbini di immigrati (in questi mesi è atterrata l'ondata dei latinoamericani) più di centomila persone.

Salita Pollaiuoli, davanti alle facciate, restaurate e gelide del Palazzo Ducale, è l'epicentro della nuova geografia “elegante” dei vicoli. Ma questi sono anche gli stradelli del fumo, delle canne, dei giovani e dei bar di piazza delle Erbe, del vicolo de “Il Canneto il Lungo” e della sua osteria degli Azenetti, gli Asinelli (è una bevanda “trucida” e mozzarespiro di vino, Martini e qualcos'altro di forte): questi erano i territori di Carlo Giuliani, questi sono i territori dei suoi amici, della sua cumpa dove, tra l'altro, si scrivono e si recitano poesie, della gente che, con lui, ha condiviso sogni e schifezze, nottate felici a suonare chitarre e canne su canne, allegrie sopra le righe e disperazioni, birra a fiumi e cazzate una dopo l'altra. E, soprattutto, amicizia, amicizia di quella vera, profonda, assoluta. “Sacra”, direbbe don Gallo. Autentica solidarietà. Vissuta come valore etico che niente può scalfire. Questo scopre chi prova a fermarsi fra questi vicoli a guardare questi ragazzi.

È passato più di un mese dalla morte di Carlo Giuliani. In piazza Alimonda, piazza della morte di Carlo, il pellegrinaggio è senza soste. In meno di un'ora avrò visto cento persone fermarsi: un ragazzo con addosso gli spruzzi sbavati di vernice da muratore arriva con il motorino, scende e con la mano sfiora la foto di Carlo; un'ambulanza accosta al marciapiede: ne escono fuori due infermieri e mettono un fiore. Grandi fiori di carta portano anche due ragazzi che arrivano di corsa e se ne vanno subito dopo. Un uomo con la barba brizzolata parcheggia la sua macchina, si accende una sigaretta e si mette a leggere, con calma, i messaggi che ogni giorno qui si moltiplicano. Una donna porta acqua per i fiori. Un vecchio siede sui gradini della chiesa di Nostra Signora del Rimedio e guarda, con occhi di tristezza, la cancellata sulla quale è sorto questo monumento spontaneo in memoria di Carletto. È perfino arrivata una cartolina: viene dalla mia Toscana, raffigura un celebre paesaggio delle Crete Senesi. L'ha scritta Margherita: “La libertà è morta, tu no”. L'ha imbucata e un postino genovese l'ha portata fin qui: “Carlo Giuliani, piazza Alimonda, Genova”.

Due ragazzi giovanissimi e minuti (lui ha capelli lunghi, lei ha un anellino al naso) vengono da Pisa: sono qui da due giorni. Non sanno perché sono venuti: erano con il corteo delle tute bianche quel giorno di luglio e sono tornati ora che l'estate sta finendo. “Per capire cose che non capiremo”, dicono. Si stringono quasi in lacrime: sistemano i fiori, spazzano il marciapiede, poi restano lì, seduti sui gradini, mano nella mano. Senza parole. Ma con occhi che raccontano la loro forza e il loro smarrimento.

Al mattino, i ragazzi che si ostinano a dormire qui, in piazza Alimonda (“Lo faremo a lungo. Per sempre”), hanno la faccia stanca e seria, segnata da un dormire impossibile: stanno assolvendo un dovere, un dovere che avvertono come impegno morale, sociale nei confronti di Carlo. E questa sarebbe la generazione senza ideali e identità?

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“Non chiamarlo anarchico”
Carlo, in questa Genova dei ragazzi, era amico di tutti. “Questa è la prima cosa che devi capire -spiega Pino, responsabile dell'Anlaids genovese, un uomo di quarant'anni, piccolo e magro come Carlo-. Non puoi collocarlo o identificarlo. Veniva da piazza Manin, dai quartieri borghesi di Genova. E, allo stesso tempo, frequentava i vicoli. Ci viveva. Stava bene con gli amici ricchi e con i ragazzi con i cani del Campetto. Salutava tutti. Non chiamarlo comunista, anarchico, di sinistra: le parole non servono. Carlo voleva conoscere la vita. Voleva sbatterci le corna contro. Voleva provare. Non solo sentir raccontare”.

In piazza Alimonda qualcuno ha scritto: “Non siamo comunisti e non abbiamo ancora un nome. Siamo in tanti. Forse abbastanza”.

Più tardi, in piazza delle Erbe, Pier Ugo, un altro amico più anziano (36 anni) di Carletto, si farà scappare: “Noi potremmo essere le nuove ideologie che magari riusciranno a nascere”. E Mara, 21 anni, ragazza dai sorrisi splendenti e dall'impegno politico serio e quotidiano (è del centro sociale Zapata e ha partecipato, nonostante l'età, fin dall'inizio alla storia delle Tute bianche), mi avverte: “Non riesco a definirmi comunista. E lo spiego ai compagni più adulti per i quali questa parola ha ancora un senso. Carlo non era un militante, non era catalogabile, ma questa è la sua forza ed è la forza del movimento: questa è la vera moltitudine, la società civile. Se facessimo i cortei con i soli militanti, non riusciremmo a cambiare niente. È quando ragazzi come Carlo si sentono coinvolti in prima persona, è quando vi è mescolanza di persone che non fanno parte di niente che qualcosa può davvero cambiare”.

Carlo che, ai tempi del liceo, va al coordinamento studentesco e passa di classe in classe per avvertire che il preside ha concesso l'assemblea. Carletto che va ai centri sociali (allo Zapata, al Terra di Nessuno) a sentire concerti e musica. Carlo che va alla parrocchia di San Bernardino a giocare a calcetto. Carlo che va al circolo Mascherona, un “centro sociale” dell'Arci, in mezzo ai vicoli, e, alla sera, chiede le sue due “medie” e si addormenta sul tavolo. Lo svegliano: “Dai, dobbiamo chiudere”. Sorride assonnato: “Sì, sì, scusami”. E se ne va, di notte, per i vicoli.

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Tra politica e notti d'osteria

Massimo ha diretto quel circolo, esperienza preziosa dei mesi invernali nel centro storico genovese: “Questi ragazzi non sono impolitici. Sbaglia parola chi te lo dice: sono pre-politici. La politica è la loro vita: rifiutano, consapevolmente, le dinamiche 'normali' della vita. E pretendono una vita diversa. Non hanno secondi fini. Hanno cultura. I ragazzi che si ritrovano agli Azenetti sono poeti. E sono bravi. E sono sopra le righe. Sono radicalmente pre-politici. Sono oltre la politica. Ti dicono: 'Meno menate, facciamo le cose'”.

Massimo non lo dice e me ne assumo io la responsabilità: sono anche nichilisti (questa parola ricorre spesso nei vicoli quando si parla dei ragazzi, di certi ragazzi), hanno addosso energie e bellezze incredibili. Ma non sanno incanalarle. E nessuno sa offrire opportunità vere per incanalarle.

Sbaglia di brutto chi li descrive come apatici. Possono apparire senza forze e senza scopi. Stanno sui gradini per ore e ore, per giornate intere e noi, passanti affrettati, crediamo che non abbiano niente in testa. E invece scattano all'improvviso e rivelano energie impreviste, immense, creative. E anche devastanti. Un'operatrice di strada di Roma, dopo Genova, mi ha detto della sua sorpresa: “I ragazzi della strada, quelli con i quali è più difficile avere rapporti, quelli che pensi che siano irrecuperabili, sono andati tutti a Genova. È stato un richiamo irresistibile. Si sono mossi e io non l'avrei mai immaginato”.

Nessuno ha il coraggio di vivere come loro, solo per ascoltarli e non per dettare regole o comportamenti. Per questo adorano don Andrea Gallo (fino a farne un mito): perché lui, nei vicoli c'è; i ragazzi lo vedono, sanno di poterci contare la notte che andrà proprio storta.

Racconta Pino: “Sai cosa avrebbe voluto fare Carlo? Montare e smontare i palchi, metter su le luci e le strutture dei rave in giro per l'Italia e l'Europa”. E invece, come molti (quasi tutti?), qui nei vicoli, si arrangiava. Lavori saltuari, precari.

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Ma qui il futuro non esiste

Mi spiegano: “Qui i ragazzi fanno i muratori, gli elettricisti, lavano i piatti in qualche ristorante, fanno i camerieri nei bar. Spesso le famiglie aiutano. I ragazzi, alla fine, si arrangiano”.

E per la casa è lo stesso: i ragazzi vogliono venire a vivere nei vicoli. Ma come pagare l'affitto? E allora ecco gli amici e le amiche che, qui, due, tre stanze ce l'hanno già: ti ospitano. Per giorni. Poi per mesi. La tua roba sta tutta in scatole di cartone, valigie che cambiano spesso armadio o sgabuzzino. Il futuro non esiste (o quasi) per questi ragazzi. La precarietà è assoluta. Mi svela Pier Ugo: “Il 'qui e ora' è fondamentale. I sogni non li realizziamo, ci resta il presente. Però, attento, i ragazzi hanno un ottimismo di fondo. Se scivolano nel pessimismo è l'apocalisse”.

Testimonia don Gallo: “Sono ragazzi vivi. Vogliono cambiare il mondo, sanno cos'è il bene comune. Hanno una fortissima 'singolarità': per questo vanno ai cortei. Perché è una sfida, perché hanno avvertito l'arroganza dei potenti sulla loro pelle. E vogliono essere in prima fila, vogliono smascherare la menzogna”. E ancora: “Non vogliono maestri, non vogliono il potere. Ma pretendono rispetto dal potere, pretendono, con forza, rispetto per le loro intelligenze, chiedono pari dignità”.

Non vogliono regole: Carlo attraversa per pochi mesi Rifondazione comunista. Ma ne esce in fretta.

Scrive un'amica, una ragazza che aveva lavorato (fatto volontariato) con lui ad Amnesty International (Carlo, in questa organizzazione, ha fatto tutti e dieci i mesi dell'obiezione di coscienza. Con qualche difficoltà, con qualche fatica, ma li ha fatti fino al dicembre del 2000): “Era un ragazzo molto generoso e idealista, spontaneo, ma anche fragile e ingenuo. Forse prigioniero del mito del padre: ne condivideva gli ideali, ma per differenziarsi da lui li esprimeva in modo molto diverso. Per questo si era allontanato dai giovani comunisti per spostarsi 'un po' più a sinistra', verso un comunismo vero e radicale”.

E ancora, quasi a non separare i lati “buoni” e i lati “cattivi” di ognuno di noi (ma cos'è questo buono e questo cattivo?), appaiono, anche nelle parole di questa ragazza, le “brutte abitudini” di Carlo: le sigarette, la birra a fiumi, le derapate in motorino a fari spenti, la droga. La ragazza colpisce con durezza: “Per il 90 per cento della gente Carlo è un delinquente, il 10 per cento lo considera un eroe o un martire. Ma nessuno, tantomeno i giornalisti, potranno capire mai chi era Carlo, con il suo entusiasmo, la sua repulsione per le ingiustizie e la sua voglia di cambiare il mondo, ma anche i suoi momenti-no e le sue tante contraddizioni”. “Perché come può un obiettore di coscienza lanciare sassi ed estintori con il volto coperto?”

Come sono vicini i fotogrammi della storia di Carlo a quelli di Massimiliano, un altro ragazzo (più vecchio: ha 30 anni) di piazza Alimonda. È conosciuto oramai come “l'uomo con la trave”: è lui che, nei terribili fotogrammi dell'assalto alla jeep dei carabinieri, in quel maledetto venerdì di luglio, sbatte quell'asse di legno contro i finestrini della camionetta. Mi raccontano: “È mitissimo, perfino timido, sempre sorridente. Impolitico. Ma presente, a modo suo, nelle cose. Fa parte del giro allargato dei 'barrini'”. E il suo locale, fra i vicoli, non è così “duro” come l'osteria degli Azenetti, anzi è vagamente di “tendenza”, con serate musicali a tema. E anche lui adora il calcio. E tifa Genoa. E fuma qualche spinello.

Ma sono sempre così simili le storie dei ragazzi dei vicoli? Se chiedo ad amici di Amnesty a Genova di descrivermi Carlo, le parole che usano sono “fragilissimo, gentile, sveglio. Con i suoi alti e bassi. E, soprattutto, mai violento”.

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Vite nel pallone

Carlo leggeva Dylan Dog e si perdeva, con passione, fra i rebus e le parole incrociate della Settimana enigmistica (“Ma faceva quelle cose difficili, il Bartezzaghi”). Aveva sempre con sé la Gazzetta o il Corriere dello sport, quasi giornali status-symbol. Già, il calcio. Il calcio è tutto per questi ragazzi. All'osteria degli Azenetti ci si accapiglia per il calcio, se ne parla per ore, ci si infuria con chi osa far trapelare simpatie per la Sampdoria: queste sono frontiere genoane. “Ma Carlo era onesto: tifava per la Roma, la squadra della città in cui era nato -dice Pino. Non mi va chi tifa per una squadra di una città diversa da quella di origine”.

La lealtà, il senso di una lealtà ai colori di una maglia, è un valore vero per i ragazzi del tifo. Il mondo degli ultras ha le sue fedeltà, i suoi patti, le sue leggi non scritte. Durissime, magari violente e scorticanti, forse incomprensibili e inaccettabili a chi è fuori dai gironi del mondo degli ultras. In piazza Alimonda i ragazzi hanno lasciato maglie e sciarpe della Roma. Ma anche adesivi del Genoa (e un biglietto della partita Genoa-Treviso) e degli ultras del Pisa (Ultras against racism). Spiega Matteo, del centro sociale Zapata: “Il tifo è un senso di appartenenza forte. Di trovarsi assieme in modo diverso”. Aggiunge Mara: “È un modo come un altro per stare assieme, è voglia di socializzazione”.

A Genova, città con due squadre divise da rivalità che sono nel sangue e nella testa, il tifo è storia. Anche tragica: anni fa, davanti a Marassi, morì Vincenzo Spagna, tifoso della Fossa dei Grifoni, ex-portuale, ultras del Genoa. Ancor oggi, la sua morte è ricordata dalla gente dei vicoli. E nel 1987, furono gli sharp, duri genoani, a darsi da fare, più di altri, a mettere su il primo centro sociale occupato a Genova, una chiesa sconsacrata persa fra i vicoli del centro storico.

“È un ambiente difficile -avverte una ragazza del Genoa Social Forum-. È gente che fa la voce grossa. Sono machi, sessisti. Si infiammano per un nonnulla. Credono nell'antifascismo tosto e militante”.

“Hai presente il film Il gladiatore? -chiede Pier Ugo-. È la stessa cosa: si va allo stadio come i romani andavano all'arena. A veder le squadre scannarsi. Per una passione, per la sfida, per l'adrenalina che ti regala”. E poi aggiunge senza riprendere fiato: “Io odio la violenza. E il calcio è bello. Mi piace la gioia dopo la vittoria. Mi piacciono i nervi dopo la sconfitta. Mi piace il prima e il dopo di una partita”.

Carlo, quando poteva, se ne andava in giro per l'Italia, a seguire la Roma. Passione vera, energia vera. “Il giorno dello scudetto giallorosso è stato il suo ultimo giorno felice”, ricorda Pino. Tornò contento dall'Olimpico, tornò con una bandiera presa in quello stadio di vittoria, in quell'invasione confusa e ribelle a fine partita. Quella bandiera è stata poi stesa sulla sua bara.

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Erano i giorni del metadone

C'è una fine a questo viaggio fra i vicoli di Genova? No, non può esserci. Ci sono ancora tante, troppe immagini, troppe contraddizioni che lacerano. Forse anche reticenze. Cose non dette, non scritte, non indagate o appena accennate: come i guai di Carlo con la cocaina di strada, i suoi viaggi all'ospedale San Martino a prendersi lo sciroppo, il metadone (ma anche qui, anzi soprattutto qui, fra compagni di sventura e di volontà di uscirne, nascono amicizie, solidarietà, storie). C'è anche questo nella vita di Carlo. Pino mi assicura: “Ne stava uscendo. Io lo so quando un ragazzo vuole uscirne: è la mia storia e quindi conosco ogni passaggio. Carlo voleva venire a lavorare qui all'Anlaids e doveva fare tutto il percorso per venire fuori dalla droga. Era pronto”.

Nei miei giorni di Genova ho scelto di non incontrare la famiglia, di non parlare con il padre. I colloqui frettolosi con i giornalisti hanno sempre qualcosa che non assomigliano alla realtà e, tantomeno, alla verità: si recita entrambi, io che faccio domande e l'intervistato che deve inventarsi una risposta. Ma ho visto i genitori di Carlo: seduti sui gradini della chiesa di piazza Alimonda. Parlavano, con serietà ed affetto, con i ragazzi che lì dormono. Mi sono apparsi stremati. Ho visto la madre (anche lei piccola, dall'aria fragile e minuta), l'ho vista sistemare per bene i fiori, raccomandare a una ragazza di non accendere i lumini perché c'era il rischio, che, con il vento, tutto andasse a fuoco. Ho visto i suoi occhi trattenere, senza riuscirci, le lacrime. Ho capito di un dolore irreparabile. E sono rimasto in silenzio.

“Ho imparato a non giudicare”
Mentre camminavo per i vicoli di Genova, correvano per la testa le parole del padre di Carlo. Dette al suo funerale: “Mi hai insegnato molte cose. A non giudicare un ragazzo dalla maglietta sdrucita, dai pantaloni bucati, dai piercing, dalle treccioline. Dietro questi pantaloni bucati ci sono cuori pieni e teste che pensano e un'impagabile sete di giustizia. Questi giovani vogliono un mondo meno schifoso. Anche noi lo vogliamo. Ma loro lo vogliono subito. Invece noi della vecchia scuola sappiamo che occorre pazienza. Il vostro passo è troppo veloce. Il nostro è troppo lento. Ma non si può aspettare cento anni. Noi dobbiamo accorciare i tempi”.

Già, abbreviare i tempi per un mondo “meno schifoso”.
A Genova, migliaia e migliaia di ragazzi, nei giorni di luglio, hanno perso verginità politiche, sociali, morali. Ne avevano già poca, ma hanno perso del tutto fiducia nello Stato: questa è la vera colpa, gravissima, delle forze dell'ordine e di chi le comandava in quei giorni. I ragazzi dovranno ritrovare questa fiducia. Faticheranno a ritrovarla nei rischi di quest'autunno. Alex Langer, il vero protagonista dei primi passi di questo movimento, un altro uomo caduto sulla frontiera del desiderio e dell'impossibilità di giustizia, suggerì nelle sue ultime parole: “Non siate tristi, continuate in ciò che era giusto”.

P.s. Dimenticavo: Carlo Giuliani riposa a Staglieno, nello stesso cimitero in cui ha trovato rifugio Fabrizio De Andrè. Che, almeno, si possano cantare l'un l'altro belle canzoni. Per dimenticare, senza dimenticare, le ore della follia.

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Piazza Alimonda: la processione infinita

L'asfalto nuovo ha cancellato il sangue di Carlo Giuliani dallo spigolo di piazza Alimonda. I ragazzi hanno spostato l'altare laico sulla cancellata della chiesa di Nostra Signora del Rimedio. Fiori, messaggi, poesie, magliette, bambole di pezza, cartoline, adesivi dei club ultras di molte squadre, sciarpe della Roma, protezioni di gommapiuma delle Tute Bianche, un biglietto della partita Genoa-Treviso e uno per l'ingresso a un concerto dei Clash. Michela ha composto un funeral blues: “Adesso abbiamo un motivo in più per combattere. Sorvegliaci”. C'è chi parla di “gloriosa morte” e chi sussurra: “Ti adoro. Non vedrò più il tuo sorriso timido”. E chi ha lasciato santini di Santa Chiara e Ernesto Che Guevara. Foto di Bob Marley e don Milani. Un joker e la carta di una donna di cuori. E poi le poesie e le canzoni: versi su versi, note su note. Ecco le parole di Dio è morto (ma dove hanno ascoltato i Nomadi e Guccini?). La locomotiva è appesa sui cancelli di piazza Alimonda. Assieme a frasi di John Fitzgeral Kennedy, Gandhi, Pasolini, Neruda, Emily Dickinson.

De Andrè è il cantore di Genova, dei carruggi e del sogno più emozionante dell'Anarchia: i ragazzi lo sanno e amano le sue canzoni. E qui le riscrivono. Ci sono i versi di Silvio Rodriguez (dove diavolo li hanno letti: non certo nelle antologie scolastiche). Ma siamo sicuri che questi ragazzi ascoltassero gli Assalti Frontali o i Public Enemy? Qui, a piazza Alimonda, non se ne vede traccia. E gli amici di Carlo vogliono un cippo, vogliono un monumento per il ricordo di Carlo. Vogliono un libro di pietra aperto. Vogliono che, in quelle pagine, ci siano scritte le date di nascita e di morte (14.3.1978-20.7.2001) di “Carlo Giuliani, ragazzo”. E, a fianco, una frase di Gandhi.

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La storia di quel passamontagna
Carlo Giuliani girava per Genova con un berrettino con la visiera e due borchiette. E aveva anche un passamontagna. Da motociclista. Era uno dei suoi cappelli preferiti. Si va a una manifestazione con un passamontagna? La mia anima pacifista e “liberale” si ribella: in questo Paese, in tutti i Paesi, deve esserci il diritto di manifestare anche duramente, ma a viso scoperto. Devo poter gridare in faccia a chiunque la mia protesta senza timore di rappresaglie o ritorsioni. “Bravo. Ecco un bel discorso -mi spiega, guardandomi dritto negli occhi, un ragazzo dei vicoli-. Facciamo una prova: io e te andiamo allo stadio. Scoppiano dei casini, e, sempre io e te, ci restiamo nel mezzo. Non facciamo niente, ma siamo lì. Scappiamo. È pieno di telecamere. Ci filmano. Io ho precedenti per insulti a pubblico ufficiale, vesto male, non sono un santo. E tu sei un giornalista. Ma entrambi, in quello stadio, almeno in quello stadio, siamo innocenti. Vuoi vedere che io vengo arrestato e te no?”.
Si potrà mai, in questa Italia, ricostruire un rapporto di fiducia fra lo Stato e questi ragazzi?
I poliziotti, i carabinieri, i finanzieri, a Genova, avevano il volto coperto dai fazzoletti rossi o dai caschi. Nemmeno loro volevano farsi riconoscere. Nemmeno dalla giustizia italiana. I magistrati non riescono a identificare i poliziotti e i carabinieri colpevoli di “eccessi”. E nessuno di loro si è presentato in una procura e ha detto: “Sono stato io a pestare quel ragazzo in quella via. E l'ho fatto per queste ragioni”.

Il sangue di Carlo l'ha raccolto il mare
Gli amici di Carlo sanno cos'è il ricordo e la memoria. Hanno dovuto togliere, dall'asfalto di piazza Alimonda, la segatura che aveva asciugato il sangue. Qualcuno voleva che venisse buttata via. Nella spazzatura. Dice Pino: “Non era giusto”. E così quella segatura è stata raccolta. E gli amici (tutti: “quelli di Manin, quelli dei vicoli, quelli del metadone”) sono andati fino al moletto di Quinto. Qui, in estate, questi ragazzi vengono a fare il bagno (“No, Carlo no. Il più delle volte lui si metteva all'ombra a leggere la Gazzetta”). La segatura, come ceneri, è stata dispersa in mare. “Così, ogni volta che ci tufferemo, sarà come nuotare assieme a lui”. Poi, quei ragazzi, come al funerale di Staglieno, hanno fatto musica, bevuto birra e fumato canne. Fino a tardi.

Le regole non scritte del centro storico
Noi, che di Genova non siamo, non abbiamo capito fino in fondo cosa abbia voluto dire vivere fra i vicoli attorno a Palazzo Ducale nei mesi prima del G8. Per settimane e settimane gli elicotteri hanno squassato gli equilibri, sociali e personali, fragilissimi, dei ragazzi del centro storico. Per settimane e settimane i vicoli sono stati battuti dalla polizia e dagli agenti dei vari servizi di sicurezza. E non erano i soliti questurini di Genova. Con il poliziotto di quartiere, con la “madama” del commissariato di piazza Matteotti (anche con gli uomini dei “pattuglioni” che battono il porto) impari a conviverci: ci sono regole che si rispettano senza dirsele. Io fumo la mia canna, non lo faccio davanti a te e te non vieni a cercarmi nel portone nel quale sto sdraiato. Il mio “casino” ha dei limiti e tu non mi “scocci” più di tanto. Ma un poliziotto che arriva da Roma, da Padova, dal Sud d'Italia (intuisci da dove vengono, perché ne afferri l'accento) non rispetta le leggi non scritte della strada di Genova. E tu sei un ragazzo strappato, con i pantaloni lacerati, i tuoi sguardi sono di sfida, hai “roba” in tasca e piercing al naso, hai tre orecchini per lobo, hai una bottiglia di birra in mano e riccioli “rasta” come capelli: sei un bersaglio perfetto. Agli appuntamenti di luglio, i ragazzi di Genova sono arrivati con addosso anche la tensione, la stanchezza, l'esasperazione, la paura di quelle settimane vissute come un'angheria, un'arroganza.

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Dalla curva anche il saluto dei “nemici”

Carlo, in una domenica di fine primavera, era tornato da Roma. “L'ultimo giorno felice della sua vita”, ricorda oggi Pino. Era stato all'Olimpico. La Roma di Totti e Montella aveva appena vinto lo scudetto. Giorno straordinario. Giorno magico. Carlo era tornato a Genova con una bandiera giallorossa della Roma. Afferrata nell'ultima invasione festosa ed eccitata dell'Olimpico. Quel drappo ha coperto la bara davanti ai cancelli del cimitero di Staglieno. Il tifo è davvero un cardine, un valore assoluto per molti dei ragazzi dei vicoli.

La famiglia di Carlo, come i suoi amici più stretti, non sopportano che qualcuno si appropri della sua memoria. Le parole del padre, della madre e della sorella sono state durissime e chiare contro chi rivendicava Carlo come un suo caduto. “Non si può rinchiudere Carlo in un'etichetta”, mi hanno detto tutti gli amici. Ma striscioni “per” Carlo sono apparsi negli stadi: lo hanno alzato, prima del campionato, i tifosi della Lazio, “Gli irriducibili”, quelli di “destra”, quelli con simpatie “naziskin”. Proprio loro: i “nemici” giurati della Roma inneggiano a Carlo Giuliani, tifoso della Roma e uomo di “sinistra”. “Non ho provato fastidio. È vero: non mi sono piaciute quelle parole: 'onore a' davanti al suo nome -mi spiega un amico-, ma Carlo era un ragazzo dello stadio. Era uno del gruppo. Non c'entra nulla se era della Roma, non c'entra nulla la 'destra' e la 'sinistra'. Fra tifosi vi è un senso di appartenenza: si conoscono, hanno una sorta di patto che li unisce. Anche tra avversari”.

Ma quella bandiera della Roma pesa sui ragazzi di Genova e sui G8. Ora è davvero un simbolo. Pino l'ha conservata. I ragazzi promettono: “Sarà a Napoli a fine settembre. Ma soprattutto la porteremo, fin quando avremo vita, davanti ai cancelli di ogni G8. Li facessero anche sulla luna”.

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