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Il vero terremoto? È l’abbandono delle aree interne

La retorica delle opportunità e del progresso “metropolitani” cancella dalla carta geografica pezzi di Paese: un errore strutturale. “Piano terra”, la rubrica di Paolo Pileri

Tratto da Altreconomia 188 — Dicembre 2016
Amatrice vista dall'alto dopo il terremoto del 30 ottobre - Vigili del fuoco

Torna il terremoto, e ora si porta dietro la retorica dei bei borghi d’Italia. La politica ne fa subito il suo manifesto. Altri scoprono la pasta di Amatrice, le lenticchie di Castelluccio, la salsiccia di Norcia (bene!). Ma prima del terremoto questi posti c’erano? E i loro prodotti? La politica ne parlava? Di Arquata del Tronto si sapeva? A me non sembra. E neppure a Monica, dottoranda in Bioingegneria, incontrata da Renzi al Politecnico di Milano per ‘Casa Italia’. È lei, con voce spezzata a dirgli che Arquata è un “borgo dimenticato e [solo] ora ritrovato”. Monica ha toccato un nervo scoperto: la schizofrenia di oggi fatta di inni alla bellezza, ma un attimo dopo che si è rotta, dove nulla si fa per le aree interne se non dire, dopo, che sono il cuore del Paese. Invece loro esistono da sempre, solo che da tempo, sistematicamente, sono fuori dal campo degli interessi della politica. E allora fuori tutti, come in Umbria: -18.634 giovani tra 20 e 44 anni (tra 2011 e 2016, ISTAT) e -15.452 aziende agricole (tra 2000 e 2010, ISTAT): i due simboli della tenuta di un territorio.

-4,2; -1; -9. Più di quattro aziende agricole al giorno (specie piccole) hanno chiuso tra il 2000 e il 2010: 4 volte di più del decennio precedente. Un giovane al giorno -tra i 20 e i 24 anni- e nove al giorno -tra i 25 e i 44- sono andati via tra il 2011 e il 2016. L’Umbria vive un terremoto, quello demografico

Una fuga che sembra pianificata: figlia della mancata narrazione sull’abitabilità di queste aree e frutto di una campagna mediatica che ha convinto i più giovani a cercare il favoloso mondo di Amelie nelle città metropolitane dove c’è tutto, mentre lì non c’è niente. Sorge il sospetto che il mito metropolitano sia un’invenzione ad hoc per risucchiare tutto e portarlo dove la rendita deve essere pompata. Un mito di carta che usa il linguaggio seduttivo ma insensibile del marketing, come quando, ai tempi della TAV, ci si inventò un falso metropolitano, la città “FirenzeBologna”: ceni là, dormi qui. Queste narrazioni ossessive finiscono per trasformare in un niente cosmico quel che sta in mezzo. Un’opera demolitrice che cancella dalla carta geografica interi pezzi di Paese e ne invecchia di colpo l’immaginario che invece è vitale per la vita delle aree interne.

Perché un giovane di Norcia dovrebbe stare là, quando tutto e tutti gli dicono che il meglio è altrove? Perché dovrebbe sognare di lavorare al pastificio di Amatrice se tutti i suoi miti si mandano selfie da sotto i super grattacieli di Milano? Questi messaggi a senso unico rigano la vita delle giovani generazioni per sempre e le educano a pensare che prendersi cura dei loro territori sia tempo perso. Allora la questione, intuita da Monica, sta altrove. Sta nell’accendere la responsabilità delle istituzioni prima e non dopo, nell’impegnarle in un grande progetto culturale con il quale ci si prende davvero cura delle aree interne, cogliendone il carattere, sentendo il battito e il respiro, che non è un rantolio sotto il fango o le macerie. Bisogna smettere di elevare a mito tutto ciò che è volubilità al cubo ma etichettato “metropolitano”.

Questo non vuol dire fermare il progresso, ma solo riflettere sulle declinazioni appropriate e diverse dall’unica ricetta dell’economia della rendita. L’Italia è fatta di aree interne dove la bellezza la fa da regina, dove il genius loci lo vengono a studiare da lontano, dove la terra di Siena bruciata è un colore ispirato a un paesaggio del suolo, dove il cibo buono c’è sempre, dove l’artigianato fa meraviglie, dove le poesie di Leopardi sono incise sui muri, dove nei bei borghi ci si vive e lavora e non sono una location per prendersi un mojito. Vogliamo tutti tornare a essere fieri cittadini dell’Italia interna. Se le classi dirigenti si sentiranno svincolate dalla sua bellezza e dal suo carattere, si sbriciolerà uno degli argini che tiene insieme questo Paese.

Paolo Pileri è professore associato di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano. Il suo ultimo libro è “Che cosa c’è sotto” (Altreconomia, 2016)

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