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Cultura e scienza / Opinioni

Venezia non c’è più

Turiste in piazza San Marco, Venezia © Guido Andolfato via Flickr

Oggi abbiamo sotto gli occhi la sorte della città al tempo della religione del mercato. Una metafora del mondo, della nostra vita sottoposta alla dittatura del profitto. La rubrica di Tomaso Montanari

Tratto da Altreconomia 214 — Aprile 2019

L’intuizione fondamentale del capolavoro letterario e storiografico di John Ruskin (Stones of Venice, ripubblicato in più versioni dopo il 1853) riguarda il nesso strettissimo che unisce le pietre di Venezia al suo popolo: nulla si può capire dell’urbs, della città materiale, se non la si mette in connessione con le vicende morali e spirituali della civitas, la città degli uomini, cioè la società. Un messaggio drammaticamente attuale sul piano sociale e politico: non salveremo la Venezia di pietre se non salveremo prima la Venezia di popolo.

Le metafore di Ruskin oggi possiamo prenderle alla lettera: la città ridotta a fantasma di se stessa, e le onde della Laguna come colpi mortali. Una lunga sequela di drammatici fallimenti (quello della città-museo, quello della città-resort-di-lusso o quello della città-degli-eventi) lascia ora apparire la verità: Venezia non c’è più. Non c’è innanzitutto in termini demografici: Ruskin conobbe una città popolata da circa 130.000 veneziani, oggi lo celebriamo in una città storica abitata da meno di 54.000 residenti.

La “comunità civile” di cui egli parla in Stones of Venice semplicemente ha cessato di esistere, e con essa scompare l’unico soggetto collettivo capace di comprendere davvero profondamente, e dunque capace di tutelare, la città di pietra. Nell’impegno pubblico del conte Alvise Pietro Zorzi per la conservazione dei monumenti, Ruskin vide un “revival of the spirit of the Past”: lo spirito dei grandi veneziani di un tempo, uno spirito di amore per i luoghi che essi vissero, e di cura per le cose di cui essi si presero cura. E forse è proprio questo il Ruskin che, oggi può parlare con maggior forza a ciò che resta della coscienza di Venezia, e dell’Italia: un Ruskin che pensa il patrimonio in senso sociale e comunitario.

Non è sorprendente che a una simile conclusione giungesse uno studioso innanzitutto dell’architettura, ben consapevole che la storia di Venezia sul lungo periodo è una storia di progettazione pubblica, collettiva. Perché, più che in qualunque altro posto del mondo, a Venezia non c’è confine tra architettura e urbanistica. A Venezia, in altre parole, non c’è sfasatura tra forma e funzione, tra natura e politica. E questa è una prima lezione per la modernità: la responsabilità della progettazione architettonica, la sua obbligatoria coincidenza con una visione urbanistica. Ruskin parla anche delle responsabilità di noi tutti come turisti, come “compratori” di Venezia.

Qui a farsi sentire è la voce del John Ruskin autore sociale e politico, quello altissimo di Unto this Last, il libro la cui cui lettura provocò la laica “conversione” di Gandhi: “Quando compriamo qualcosa, la prima cosa da considerare è quale condizione esistenziale contribuiamo a creare per i produttori di ciò che acquistiamo”. In St. Mark’s Rest, l’ultimo suo grande tributo a Venezia, Ruskin si lascia andare ad un fulminante gioco di parole che spiega come la decadenza della città delle pietre sia una conseguenza di una perdita di fede: quando si inizia a credere al “reign of St. Petroleum instead of St. Peter. Out of which, God only knows what is to come next”. Ormai a saperlo non è più solo Dio: oggi siamo noi a avere sotto gli occhi la sorte di Venezia al tempo della religione del mercato. Ma Venezia è una metafora del mondo, di tutta la nostra vita sottoposta alla dittatura del profitto. Potrà servire la voce di Ruskin a favorire il nostro ritorno ad una religione dell’umanità? Dobbiamo sperarlo: con tutta la nostra forza.

Tomaso Montanari è professore ordinario presso l’Università per stranieri di Siena. Da marzo 2017 è presidente di Libertà e Giustizia.

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