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Cultura e scienza / Reportage

A Venezia in mostra le “notizie dal fronte” dell’architettura

I padiglioni della Biennale raccontano quattordici “battaglie”, dalla migrazione alle disuguaglianze. Il curatore, Alejandro Aravena, biasima “la frenesia del capitale”. E i libri sui grattacieli degli emiri sono esposti con discrezione. La germania racconta città accoglienti; l’italia piega il progetto al bene comune

Tratto da Altreconomia 186 — Ottobre 2016
All'interno del padiglione tedesco nei Giardini della Biennale 2016 di Venezia - www.makingheimat.de - acdn.architizer.com

L’architettura del futuro sono i quattro grossi buchi fatti nella facciata del padiglione tedesco, ai Giardini della 15esima Mostra internazionale di Venezia intitolata “Reporting from the front” (termina il 27 novembre, labiennale.org). La Soprintendenza cittadina ha approvato l’idea del “progetto aperto” di Something Fantastic. È una tra le più interessanti risposte -di contenitori e contenuti- alla domanda di “notizie dal fronte” avanzata dal curatore di questa Biennale, l’architetto cileno Alejandro Aravena, vincitore del Pritzker Architecture Prize 2016 (una sorta di Nobel). I buchi gettano l’osservatore verso la laguna, aprendo i confini e modificando le forme. Le quarantotto tonnellate di mattoni in meno sono la metafora che Peter Cachola Schmal, Oliver Elser e Anna Scheuermann (commissario, curatore e coordinatore del progetto) hanno scelto per raccontare il Paese che nel 2015 ha accolto oltre un milione di rifugiati.

Il contenuto è la declinazione di otto tesi chiamate ad illustrare “città accoglienti”, d’arrivo, in grado di “favorire il processo di integrazione dei migranti in Germania”, come spiegano i tre nella pubblicazione ad hoc e nella scheda contenuta nello splendido doppio catalogo della Biennale edito da Marsilio. Quello tedesco è un flusso aggiornato anche online, attraverso un database curato dal Deutsches Architekturmuseum (DAM, makingheimat.de/en/refugee-housing-projects). Ci sono gli appartamenti per rifugiati e homeless ad Ostfildern (dalla vita prevista di 40 anni) o le residenze prefabbricate in legno realizzate a Vorarlberg e poi portate ad Hannover, con due moduli combinati da cui si ricavano vani da tre stanze con cucina condivisa.

Non è un fuori programma, visto che proprio la “migrazione”, citando Aravena, è una delle quattordici “tematiche scelte per affrontare le battaglie alla Biennale Architettura 2016”. Le altre sono comunità, inquinamento, crimine, rifiuti, traffico, sostenibilità, disuguaglianze, qualità della vita, abitare, periferie, informalità, calamità naturali, segregazione. Secondo il curatore, l’architettura deve rispondere con “pertinenza” (contro l’abbondanza) e “inventiva” (contro la scarsità di mezzi). E deve salire sulle stesse scale di alluminio imitando l’archeologa tedesca Maria Reiche, che in America del Sud studiava così le linee di Nazca, evitando di noleggiare un aereo o arrampicarsi sul tetto di un furgone. Reiche è il simbolo del messaggio di Aravena, tanto che il suo ritratto è il cuore e la copertina della Mostra.

Alla chiamata dell’architetto cileno hanno risposto Paesi e professionisti disparati. Tra l’Arsenale e i Giardini si è condannati a confondersi, anche spazialmente; con il paradosso che a far da punti di riferimento, non senza qualche incoerenza, siano i pannelli che segnano l’orario messi a disposizione dal partner principale, Rolex (tra gli altri sponsor ci sono anche Japan Tobacco International, tra i donor la fondazione della multinazionale LafargeHolcim). Ma il messaggio è ambizioso e coraggioso. Come il lavoro di Forensic Architecture e dell’architetto Eyal Weizman nelle zone di guerra che punta a risalire a crimini attraverso l’architettura. La Mostra ospita anche l’analisi del materiale video che ritrae l’esplosione di un edificio in Afghanistan. L’esercito accusava i ribelli di aver manipolato materiale esplosivo. Weizman, studiando ombre, luci, altezze e fotografie satellitari, ha dimostrato invece che il responsabile era un drone.

Dall’altra parte del mondo, in Paraguay, Solano Benítez ha invece approfondito le proprietà del mattone -materiale “low-tech”-, rinunciando a prodotti architettonici industriali, ed è riuscito ad impiegare manodopera non qualificata “includendo nell’economia edilizia persone non formate per il settore”. Nei Giardini c’è il padiglione venezuelano (disegnato da Carlo Scarpa a metà degli anni Cinquanta) e il suo racconto in presa diretta delle trasformazioni urbane nei quartieri popolari di Caracas. Una palestra cresciuta in verticale per farsi largo tra la densità urbana e un campo da gioco irregolare che sembra un balcone affacciato sulla favela.


Il “Centro de rehabilitación infantil Teletón” realizzato ad Asunción, in Paraguay, su progetto di Solano Benítez
Il “Centro de rehabilitación infantil Teletón” realizzato ad Asunción, in Paraguay, su progetto di Solano Benítez

Lungo il percorso dell’Arsenale s’incontra anche il progetto di Tadao Ando -“archistar” giapponese- per la Punta della Dogana di Venezia. Il rapporto tra blasone e radicalità del messaggio di Aravena è problematico, tanto che proprio su un pannello dell’esperienza di Ando c’è un volantino A4 in italiano e inglese che qualcuno ha incollato con lo scotch: “Venezia NON è in vendita: no agli obelischi di Tadao Ando a Punta della Dogana”.

Lo strabismo è ricorrente, anche al bookshop. I volumi di Renzo Piano sulla “scheggia” di Londra, grattacielo alto 310 metri da 87 piani di proprietà del danaroso Stato del Qatar, ad esempio, sono esposti ma con una certa discrezione. L’opera del senatore a vita esibita alla Mostra è quella del suo gruppo di lavoro “G124” sulle periferie delle città.

“Non dovremmo chiamare in causa limiti, seppure duri, per giustificare l’incapacità di fare il nostro lavoro. Contro la scarsità di mezzi: l’inventiva” (Alejandro Aravena)

Ed è proprio alle periferie che ha rivolto il suo sguardo lo studio TAMassociati (Massimo Lepore, Raul Pantaleo, Simone Sfriso; per Altreconomia ha realizzato il volume “Vivere insieme” sul cohousing e le comunità solidali), team curatoriale del Padiglione Italia 2016 intitolato “TAKING CARE, Progettare per il bene comune/Designing for the common good”. Anche grazie a materiale di recupero del padiglione irlandese dell’Expo 2015, altrimenti destinato alla demolizione, l’installazione di TAMassociati si articola in tre sezioni; la prima racconta il titolo, la seconda ospita 20 progetti di “incontro” con il “bene comune”, non tutti e non per forza in Italia. Dal recupero del teatro sociale di Gualtieri (ne abbiamo scritto su Ae 185) al  centro culturale indipendente elNodo Estación Creativa in Messico. La terza (“Agire”), quella più propositiva, vuol essere il lascito della Mostra. Cinque “scatole”, cinque progetti originali per altrettanti dispositivi mobili riadattati e progettati per affacciarsi sulle periferie urbane portando voce, braccia e idee di cinque grandi associazioni italiane -che si sono impegnate a mantenerli per almeno due anni-. Libera (il progettista è Conceptual Devices), Legambiente (con ARCò), Emergency (Matilde Cassani), Uisp (Unione italiana sport per tutti con Nowa) e Aib (Associazione italiane biblioteche con Alterstudio Partners). Per dar vita a quelli che ora sono dei modelli occorrono 360mila euro, traguardo che le cinque associazioni e i curatori puntano a raccogliere attraverso un crowdfunding civico -“Periferie in azione”, www.periferieinazione.it- in collaborazione con Banca Etica. Sono a un terzo del percorso.

Il taglio della partecipazione italiana punta all’immediatezza, rinunciando all’approccio meramente estetico (il catalogo in versione comics è realizzato dalla casa editrice Becco Giallo). “La Biennale di Architettura -ci spiega infatti Simone Sfriso sullo spiazzo che si apre dinanzi al meraviglioso spazio delle Tese delle Vergini dell’Arsenale- sta diventando sempre di più un fenomeno di costume: non è solo un evento settoriale, ma si è aperto a un pubblico di non addetto ai lavori. Su questo abbiamo impostato tutto il linguaggio comunicativo del padiglione, per renderlo comprensibile, diretto, non iniziatico e aperto”.

Nei 20 progetti “di scuola” non ci sono grattacieli, quartieri luccicanti, centri commerciali. Aravena, nel suo manifesto “Chi, che, perché”, biasima “l’avidità e la frenesia del capitale”. Il messaggio di questa Biennale -più o meno riuscito a seconda dei casi- è in plastica contrapposizione con il rilancio “finanziario” delle città, quello che si può vedere a Milano. “Ogni committenza esprime una domanda direttamente rapportata alle proprie necessità -riflette Sfriso-. Che sia una grande banca o una comunità locale che esprime una domanda che trova difficoltà a tradursi in progetto. Noi abbiamo rivolto la nostra attenzione a quest’ultimo tipo di domanda, e abbiamo cercato di portare una serie di progetti concreti e realizzati che hanno dato risposte giuste a quelle che riteniamo delle domande giuste”.

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