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Vacche, maiali, pecore e capre: il destino non è solo il macello

Dalla Farm Serenity Cow, dove si allevano bovini per utilizzarne il letame, alla “Rete dei santuari per animali liberi”: si moltiplicano i casi in Italia, nonostante una normativa ancora inadeguata. L’esempio del Comune di Milano

Tratto da Altreconomia 193 — Maggio 2017
Tofu, il toro ospitato nel rifugio Porcikomodi a Magnago (VA). Dietro di lui il maiale Gustavo nella pozza. A destra: Celeste, Totò e le altre pecore e capre al pascolo ai piedi della collina - foto di Porcikomodi

Visti da fuori sembrano capannoni desolati. Eppure i numeri che danno una misura degli animali là dentro, allevati in Italia a scopo alimentare, sono piuttosto consistenti: 8.477.930 suini nel 2016 (fonte Istat), 6.314.888 i bovini e i bufalini oltre i due anni, 7.284.874 ovini, 1.026.263 caprini e 462.539 equini.
La normativa che regola gli allevamenti a scopo alimentare è la medesima anche per quelle realtà che hanno abbandonato questo tipo di attività o che sono diametralmente opposte. È il caso di Farm Serenity Cow (farmserenitycow.blogspot.com) a Cavour, in provincia di Torino. Fabrizio Bonetto era un allevatore come tanti altri: con la moglie Michela, proprietaria della fattoria ereditata dai genitori, allevava bovini di razza piemontese, da carne. La sua vita è proseguita cosi fino al 2011 quando, vedendo per l’ennesima volta il camion che portava via i vitelli diretto al macello, ha detto basta. Il primo passaggio è stato dare alle mucche un ruolo completamente nuovo: è nata, così, l’idea della cow-poop, ossia la “mucca da cacca”, un animale allevato unicamente per la produzione del letame, concime naturale utilizzato per la fertilizzazione dei terreni da coltivare.

“Siamo riusciti a convertire l’attività salvando al tempo stesso i nostri animali -spiega Fabrizio-. Con il tempo abbiamo sperimentato nuove coltivazioni tra cui la canapa, abbiamo avviato un piccolo frutteto utilizzando esclusivamente antiche varietà di frutta che essendo più rustiche ci permettono di fare a meno di trattamenti chimici”. L’attività agricola svolta all’interno di Farm Serenity Cow ha anche un obiettivo più ampio di eco-sostenibilità ambientale: “È in corso il reimpianto di siepi campestri e, attraverso interventi di miglioramento ambientale siamo riusciti ad aumentare la biodiversità sia animale sia vegetale negli appezzamenti che coltiviamo”. Michela e Fabrizio devono fare i conti con un percorso non facile: “Si tratta di una scelta che ripaga sul lungo periodo. Abbiamo puntato su una piccola produzione di nicchia, anziché sulla quantità. Dallo scorso anno siamo entrati a far parte delle azioni proposte dal Parco della Biosfera del Monviso per la Certificazione CETS ovvero la Carta Europea del Turismo Sostenibile”.

A Farm Serenity Cow ora vivono quattro delle mucche che sono rimaste dopo la riconversione dell’allevamento e, insieme a loro, anche una nutrita compagnia di altri animali tra cui tre cavalli, recuperati a fine carriera agonistica che, al pari delle mucche, forniscono il letame per il terreno.
Farm Serenity Cow è un’azienda agricola “sui generis” di cui in Italia non esistono esempi simili: negli Stati Uniti, c’è il Rowdy Girl Sanctuary (rowdygirlsanctuary.com) nato dalla riconversione di un classico Ranch texano in un Santuario. La differenza, però, è sostanziale: farm significa fattoria, sanctuary è il termine che a livello internazionale viene utilizzato per definire i “rifugi” per animali da reddito salvati da situazioni di maltrattamento o, semplicemente, dal destino del macello. Il nome probabilmente si deve a “Farm Sanctuary” (www.farmsanctuary.org), primo rifugio nato negli Stati Uniti nel 1986. “Includendo cavalli, uccelli e animali da fattoria, sono centinaia i santuari negli Stati Uniti Uniti”, spiega ad Altreconomia Vernon Weir dell’American Sanctuary Association (www.asasanctuaries.org), un’associazione che certifica quali sono le caratteristiche che deve detenere un Rifugio.

“Sono luoghi dove si sviluppa un’economia al contrario: gli animali da reddito, diventano da debito” (Sara d’Angelo)

“Se gli animali vengono fatti riprodurre o venduti non è un santuario: è un business”. Come in Italia, anche negli Stati Uniti la legislazione per gli animali da reddito è complessa: “Dipende dalla specie detenute -continua Weir-: il Dipartimento dell’Agricoltura statunitense può richiedere una licenza se, ad esempio, il santuario è aperto al pubblico. In alcuni casi, sono i singoli Stati a prevedere una licenza o vengono applicate specifiche norme locali”. In Italia, l’idea del rifugio, è più recente ma alcune di queste strutture, a partire dalla fine del 2014, si sono già costituite come gruppo unico, condividendo ideali e obiettivi e dando origine alla “Rete dei Santuari per Animali Liberi” (www.animaliliberi.org). Il progetto è stato promosso da due realtà: Fattoria della Pace-Ippoasi (www.ippoasi.org) fondata nel 2010 e situata a San Pietro a Grado (PI) e VitadaCani Onlus (www.vitadacani.org), che oltre a un canile gestisce dal 2006 anche il Rifugio Porcikomodi, a Magnago (VA) e un altro, omonimo, che nel 2015 si è spostato nella sede attuale a Chiari (BS). Queste due strutture ospitano buona parte degli animali, circa 500 in tutto, che vivono nei rifugi della Rete: sono 150 di varie specie a Magnago in un’area di circa 15.000 metri quadrati, in parte a prato e in parte boschiva prevalentemente non recintata, e un centinaio soprattutto di grossa taglia (cavalli, asini, mucche) a Ippoasi nel cuore del Parco di San Rossore. Della Rete attualmente fanno parte anche altre sei Santuari: Rifugio Miletta (www.rifugiomiletta.org) ad Agrate Conturbia (NO) che ospita circa 80 animali, e che a partire da gennaio 2016 è diventato anche Centro di Recupero per Animali Selvatici riconosciuto dalla Regione Piemonte; Oasi la Belle Verte (www.lanonfattoria.org) a Carpeneto (AL) dove vivono tutti insieme, senza barriere di specie, una quarantina di animali. Ancora: Oasi Be Happy (www.oasibehappy.org) a Scansano (GR) in Maremma con circa 70 ospiti; Palle di Lana-Animal SOS Onlus (www.animal-sos.it) che ha iniziato nel 2010 salvando 5 pecore e che, ora, nel rifugio di Carmagnola (TO) ne ospita una decina. Infine, gli ultimi due arrivati, il Rifugio della Bubi (aperto a gennaio 2016 a Sassa in Val di Cecina) e il più recente, Fattoria Capra e Cavoli (fattoriacapraecavoli.blogspot.it) a Mesero (MI), nato nel marzo 2016, entrato a far parte della rete solo nel mese di marzo di quest’anno, dove vivono una cinquantina di animali in cinque ettari di terreno e un’aia. Tutti i Rifugi aderenti hanno sottoscritto la “Carta dei Valori”, un documento redatto in occasione della costituzione della Rete nel 2014 e che in nove articoli stabilisce quali sono i principi ineluttabili: garantire la più alta qualità della vita agli ospiti salvati (art. 2) possibilmente in grandi recinti con poche divisioni, bloccare le nascite attraverso la sterilizzazione, per evitare il sovrannumero e per lasciare spazio ad altri soggetti in difficoltà (art.4), evitare qualsiasi utilizzo degli animali (art. 5) e una loro commercializzazione, compreso un possibile riscatto dietro acquisto a pagamento (art. 3).

Celeste, Totò e le altre pecore e capre al pascolo ai piedi della collina - foto di Porcikomodi
Celeste, Totò e le altre pecore e capre al pascolo ai piedi della collina – foto di Porcikomodi

Gli animali che vivono nei Rifugi sono recuperati esclusivamente attraverso ritrovamenti, sequestri, chiusura di allevamenti. A Milano, dal 2012, l’associazione Vita da Cani, con i suoi rifugi di Porcikomodi, è diventata il referente per l’accoglienza e il ricovero proprio di animali (diversi da cani e gatti) sequestrati o rinvenuti sul territorio: il Servizio Tutela Animali del Comune ha, infatti, approvato una convenzione con la quale per ogni animale portato al rifugio, per i primi 12 mesi di permanenza, vengono detratti i costi di sostentamento quantificati per un importo massimo totale di 2.500 euro. Quella con il Comune di Milano è la prima e unica convenzione stabilita con un “Rifugio per Animali Liberi”: per il resto, le spese di mantenimento, trasporti e cure degli animali sono interamente a carico dei Santuari. “Sono luoghi dove si sviluppa un’economia al contrario: gli animali da reddito, diventano da debito”, spiega Sara d’Angelo, di VitadaCani-Porcikomodi. “Per ogni Rifugio -prosegue- il costo mensile solo di alimentazione è di 30 euro per una capra o pecora, 50 per un maiale, dai 100 ai 150 euro per un bovino o un equino”.

Nel 2015 la Rete ha promosso un’azione urgente rivolta ai ministeri della Salute e dell’Ambiente per la richiesta di un riconoscimento giuridico dei santuari chiedendo che, per gli animali ospitati, si possa giungere allo “status di rifugiato”. Un primo passo, in questa direzione, c’è già stato a luglio 2016 quando alcuni rappresentanti delle Rete sono riusciti a ottenere un incontro col ministero della Salute. La proposta dei santuari è stata quella di partire dall’esempio del cavallo, un animale che ha la possibilità di una doppia anagrafica al momento della registrazione: destinato alla produzione alimentare (ossia DPA) oppure non DPA. Una dicitura, quest’ultima, che lo escluderà dalla produzione alimentare a vita in modo irreversibile, senza poter essere mai macellato.

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