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Uno Stato che arretra

Secondo Giancarlo Caselli, nella lotta alla criminalità “più importante delle norme, è il clima politico”. Ed è per questo che oggi le mafie prosperano Perché lo Stato italiano ha sconfitto il terrorismo ma non la mafia? Gian Carlo Caselli ha…

Tratto da Altreconomia 108 — Settembre 2009

Secondo Giancarlo Caselli, nella lotta alla criminalità “più importante delle norme, è il clima politico”. Ed è per questo che oggi le mafie prosperano

Perché lo Stato italiano ha sconfitto il terrorismo ma non la mafia? Gian Carlo Caselli ha combattuto, da magistrato, su entrambi i fronti. A questo interrogativo ha dedicato il suo ultimo libro, Le due guerre. La risposta si dipana tra pagine fitte di riferimenti autobiografici, fatti inediti, una lunga galleria di incontri con personaggi che hanno fatto la storia di questo Paese: Carlo Alberto Dalla Chiesa, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Alberto Franceschini, don Tano Badalamenti, Totò Riina… “Anche nella lotta al terrorismo ci fu un momento iniziale di incertezza e confusione”, ricorda Caselli. Per molti, nel clima degli anni 70, “i terroristi erano ‘compagni che sbagliano’, non ci si doveva schierare ‘né con lo Stato né con le Br’”. Questi atteggiamenti furono superati e si arrivò alla “consapevolezza collettiva che il terrorismo era altro rispetto a noi, nemico non solo delle sue vittime ma di tutti, dei diritti, delle libertà, delle regole di convivenza. Questa consapevolezza ha determinato l’isolamento politico dei terroristi, una slavina di pentimenti che ha condotto alla rapida fine delle Br storiche e di Prima linea”.
Una consapevolezza che, racconta nel libro, non è stata raggiunta sul fronte della lotta alla mafia. Come mai?
La mafia non è ancora considerata “altro” rispetto a noi. Pezzi della politica, delle istituzioni, dell’economia, della società rappresentano le “relazioni esterne” di Cosa nostra e delle altre organizzazioni mafiose. Offrono coperture, complicità, collusioni, scambi di favori e di affari.
È questo impasto a rendere il contrasto più difficile. La zona grigia rende più vischiosa l’azione antimafia, la rallenta e a volte riesce a interromperla. Questo impasto resta forte perché nel Sud c’è ancora troppa mafia e troppo poco Stato. I giovani siciliani sono di nuovo in fuga dalla loro terra, non con la valigia di cartone ma con formazione e competenze che non possono utilizzare lì, per la crisi culturale ed economica causata dalla mafia. Nel libro cito una risposta del boss Pietro Aglieri al mio collega Alfonso Sabella: “Quando voi venite nelle nostre scuole a parlare di legalità e giustizia i nostri ragazzi vi ascoltano e vi seguono. Ma quando questi ragazzi diventano maggiorenni e cercano un lavoro, una casa, assistenza economica e sanitaria, a chi trovano? A voi o a noi?”. Lo Stato continua a raggiungere importanti risultati nel contrasto all’ala militare della mafia, ma fa ancora troppo poco sulla cultura e sulle collusioni che ci stanno intorno.
Lei sostiene che la mafia poteva essere battuta, ma lo Stato ha rinunciato “a tirare il calcio di rigore”. A quali momenti storici si riferisce?
Finché indaghi su Totò Riina va tutto bene, ma se cominci a occuparti di imputati eccellenti finisci nei guai. Qualcuno ti mette i bastoni tra le ruote, a costo di perdere la guerra nel momento in cui potrebbe essere vinta. È quello che accadde alla fine degli anni Ottanta al pool antimafia di Falcone e Borsellino, smantellato dopo che aveva istruito il primo maxiprocesso a Cosa nostra, concluso con pesanti condanne ai boss della Cupola e ai loro soldati. Cominciò una forte campagna politica e mediatica contro i “pentiti”, strumento che lo stesso Falcone considerava indispensabile per conoscere davvero i segreti di Cosa nostra. Falcone chiedeva una legge sui collaboratori di giustizia e, vedendo che non arrivava, commentò: “Potrebbe sorgere il sospetto che in realtà non si voglia far luce sui troppi, inquietanti misteri di matrice politico-mafiosa per evitare di rimanervi coinvolti”. Ci sono momenti in cui la lotta all’illegalità diventa un impiccio. Dopo l’ondata emotiva delle stragi del 1992-1993, ricordo perfettamente il momento in cui lo slancio si raffreddò: nel 1995, quando la Procura di Palermo fece arrestare il presidente della Provincia, Francesco Musotto, inquisito insieme al fratello per aver ospitato nella casa di famiglia Leoluca Bagarella. Il fratello sarà condannato a 5 anni, mentre Francesco sarà assolto, sia pure con la formula tipica dell’insufficienza di prove. Nulla da dire, le sentenze si rispettano, al di là del comprensibile interrogativo sul perché un fratello tutto vede e tutto sa e l’altro no. Le polemiche contro di noi, però, montarono subito. Quelli che organizzarono il giorno stesso una manifestazione sotto il palazzo di Giustizia, con in testa l’onorevole Gianfranco Micciché di Forza Italia, non avevano neppure  letto le carte. È quello che chiamo l’“effetto biennio”: quando la mafia supera una certa soglia c’è una delega piena a magistratura e polizia, ma dopo due o tre anni la delega viene ritirata e arrivano il riflusso, il disimpegno, gli attacchi. 
Parliamo anche dei passi in avanti. Quali sono stati, secondo lei, i provvedimenti più efficaci nella lotta alla criminalità organizzata?
I più significativi principali passi in avanti sono stati fatti dopo omicidi e stragi. Il più importate è il 416 bis, l’articolo che punisce l’associazione mafiosa. La storia della mafia è lunga 200 anni, ma il reato specifico è stato inserito nel codice penale soltanto nel 1982, dopo la morte del generale Dalla Chiesa e di Pio La Torre, autore della proposta di legge che conteneva anche il 416 bis. Nella sua ultima intervista, Dalla Chiesa disse che La Torre venne ucciso dalla mafia soprattutto per questo. Un assassinio che non bastò a sbloccare a legge in Parlamento: ci volle anche quello del generale per colmare quella lacuna immensa. Gli altri due provvedimenti fondamentali, la legislazione sui pentiti e il carcere duro per i mafiosi, con l’articolo 41 bis dell’Ordinamento penitenziario diventarono legge dopo le stragi di Falcone, Borsellino e delle loro scorte.
E oggi che cosa manca? Quale provvedimento potrebbe essere adottato, possibilmente senza aspettare il sacrificio di qualcuno?
La strumentazione è sufficiente. Si possono migliorare il funzionamento dei processi e l’aggressione ai patrimoni mafiosi, si deve costituire l’agenzia che snellisca la gestione dei beni confiscati. Si può rivedere la legge sui pentiti, ritoccare alcune norme antiriciclaggio, semplificare la normativa antimafia, ma il telaio è buono. Torniamo al tema di partenza: più importante delle norme è il clima, il contesto. Ma se un’alta istituzione dice che il mafioso Vittorio Mangano è un’eroe e i magistrati sono equiparati ai delinquenti, non ci siamo.
Però c’è il rischio di fare altri passi indietro. Lei, con molti suoi colleghi, ha espresso preccupazioni sulla nuova legge sulle intercettazioni, che dovrebbe essere discussa in autunno. 
Per come è stato presentato, il nuovo testo alzerà l’asticella oltre la quale i magistrati non possono chiedere di intercettare: da “gravi indizi di reato” si passa a “evidenti indizi di colpevolezza”, che vuol dire sapere già che uno è colpevole. Il principio varrà per tutti i reati tranne mafia e terrorismo, ma finirà per compromettere anche questi campi di indagine. Spesso si scoprono organizzazioni mafiose partendo da indagini su altri reati: bancarotte, truffe, appalti truccati, turbative d’asta. La nuova normativa rischia di dare più sicurezza alle imprese mafiose. 
È stato riaperto il caso Borsellino. Si parla di una trattativa politica per fermare le stragi dei primi anni 90. Riina ha rotto il silenzio, attraverso il suo avvocato Luca Cianferoni, per dire che il magistrato l’hanno ucciso “loro”, cioè uomini dello Stato.
Per prima cosa, Totò Riina è un mafioso stragista condannato a un’infinità di ergastoli. Le sue parole, tra l’altro filtrate, devono essere valutate tenendo contro della fonte. Secondo, correre dietro al significato di ogni sua parola è fuorviante e pericoloso: destinatari e scopi del messaggio li conosce solo lui. Non fermiamoci al tenore letterale delle parole di Riina, ma cerchiamo di capire, per quanto torbidi, gli obiettivi veri, come stanno facendo i magistrati di Palermo e Caltanissetta che indagano su quelle stragi, che hanno rappresentato per la nostra democrazia l’orlo della voragine. Quello dei rapporti tra mafia, politica e affari è un piatto sporco, e Riina ci mette le sue mani sporche per intorbidire ancora di più. Comunque non è la prima volta che “esterna”. Il 25 maggio 1994, durante il processo Scopelliti, in una memorabile apparizione televisiva a reti unificate si rivolse direttamente al governo: “Il governo deve guardarsi dai comunisti: ci sono i Caselli, i Violante; poi questo Arlacchi che scrive libri; la legge sui pentiti deve essere abolita, perché sono pagati per inventare cose”. Detto questo, credo che l’aspetto più interessante della vicenda stia in una frase dell’avvocato di Riina che solo Felice Cavallaro sul Corriere della Sera del 19 luglio ha riportato: “Riina parla di politica come ‘centri d’interesse’. A quell’epoca erano tutti in fibrillazione. Insomma, per capire che cosa c’è dietro la morte di Borsellino bisogna risalire a Milano, non fermarsi a Palermo. E guardare al nesso fra Tangentopoli e le bombe della Sicilia. Quando volevano cambiare tutto”.

In primi file nelle "due guerre"
Gian Carlo Caselli è il Procuratore capo di Torino, la sua città, dove da giudice istruttore ha cominciato a indagare sulle Brigate rosse fin dalle loro prime azioni, nel 1973. Dal 1986 al 1990 è stato componente del Consiglio superiore della magistratura, dove sostenne -senza successo- la candidatura di Giovanni Falcone a Capo dell’Ufficio istruzione di Palermo. Dopo la morte di Falcone e Borsellino, chiese e ottenne di dirigere la Procura di Palermo, dove restò fino al 1999. Il giorno del suo insediamento, il 15 gennaio 1993, venne arrestato Totò Riina, il capo dei capi di Cosa nostra.
La Procura diretta da Caselli istruì, tra gli altri, il processo contro Giulio Andreotti.
Il leader democristiano fu ritenuto colpevole del reato di associazione per delinquere con Cosa nostra “fino alla primavera del 1980”, dichiarato prescritto. L’ultimo libro di Giancarlo Caselli è Le due guerre. Perché l’Italia ha sconfitto il terrorismo e non la mafia (Melampo editore 2009), con una postfazione di Marco Travaglio. Il libro è curato dal figlio Stefano, giovane giornalista appassionato delle vicende degli anni di piombo.
 

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