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Interni

Un’ipoteca sui beni confiscati

Il debito che grava sugli immobili sottratti alla criminalità organizzata è un problema che mina alla radice ogni possibile riutilizzo a fini sociali

Tratto da Altreconomia 134 — Gennaio 2012

A Dairago, cittadina di 5.900 abitanti posta sull’asse Milano-Busto Arsizio (va), è stato confiscato un immobile alla criminalità organizzata. Villetta con ampio giardino, piscina a forma di “elle” e garage. Il primo cittadino Pier Angelo Paganini, però, non ne sapeva nulla. “Quando mi avete inviato l’elenco attraverso il messaggio di posta elettronica -racconta il sindaco-, sono caduto dalle nuvole”. L’elenco a cui si riferisce Paganini è relativo a tutti i comuni lombardi interessati dalla presenza di uno o più beni confiscati. “Quando ho trovato Dairago (Mi) mi sono immediatamente messo in contatto con il Comandante dei Vigili. Ora ho le carte, me le hanno inviate da Roma”.

Già perché la villa risulta, ad oggi, nell’elenco dei beni “in gestione” all’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, soggetto costituito nel marzo del 2010 al fine di agevolare la gestione del patrimonio sottratto dallo Stato alle mafie. Prassi vorrebbe che il bene (spesso e volentieri un immobile), definitivamente confiscato, venga riconvertito a “nuova vita”, garantendo così il pieno utilizzo sociale nell’interesse della collettività. Nel 90% dei casi, infatti, l’Agenzia nazionale destina e successivamente consegna i beni nelle mani degli enti locali, soggetti deputati a progettarne il futuro. La Lombardia, alla luce dei dati pubblicati sul sito dell’Agenzia (www.benisequestraticonfiscati.it), è la quinta regione italiana per numero di beni confiscati presenti sul proprio territorio. Il che significa poter sfruttare un’occasione importante: tramutare il bene mafioso in bene comune. Dei 999 beni confiscati nella “locomotiva del Paese” al novembre 2011, 203 sono aziende mentre 796 sono immobili. Un quinto di questi non è però utilizzato in quanto “in gestione” all’Agenzia nazionale: una condizione di stand-by condita -a volte- dalla paradossale assenza di comunicazione tra ente centrale e Comune (vedasi il caso di Dairago).

A livello nazionale la quota di beni confiscati “congelati” è del 31,5%, per la precisione 3.203 immobili su un totale di 10.225. Dairago, ancora una volta, riassume il perché dell’immobilismo. “Anche se ora ne siamo a conoscenza, non ci possiamo fare nulla comunque -spiega Paganini-. Su quell’immobile grava un’ipoteca di 175mila euro (il creditore è Unicredit, ndr) e per noi, con il Patto di stabilità sulle spalle, ciò vorrebbe dire chiusura immediata delle attività dell’amministrazione”. Le ipoteche -conseguenze nella maggior parte dei casi di un prestito (garantito da un immobile) concesso dalle banche a un soggetto poi accertato come mafioso- sono infatti le principali ganasce al corso virtuoso della riconversione delle ricchezze malavitose a fini sociali, scolpito a suon di firme dalla legge 109 del 1996.
All’interno del Rapporto “2011, un anno di attività”, è la stessa Agenzia nazionale a scrivere che esistono “concrete difficoltà nell’amministrazione e nella destinazione”, “determinate da molteplici fattori”, che non vanno sottovalutati anche se “sono stati assegnati il 70% dei beni -e non può essere sottaciuto che alcuni di essi, comunque, non sono correttamente utilizzati-”. Questo “blocco”, secondo l’Agenzia nazionale, riguarda 200 (dei 796) beni confiscati alle mafie in Lombardia, mentre nel Paese la cifra “ad oggi è superiore alle 3.000 unità” (ciò significa che su 10.225 immobili più del 30% è gravato da ipoteche).
Secondo una fonte più datata, cioè l’Indagine del 2008 dell’allora Commissario straordinario del Governo per la gestione e la destinazione dei beni confiscati, “il dato accertato sul mancato utilizzo dei beni consegnati ai Comuni (ben 51%) rimanda spesso a questa causa”, cioè la presenza di ipoteche. Frase che darebbe ragione all’analisi di Don Luigi Ciotti, fondatore di Libera, che recentemente ha rilanciato l’allarme: “Il cinquanta per cento dei beni sequestrati ai mafiosi è bloccato dalle ipoteche bancarie”. Tutto ciò dimostra il nesso tra l’inutilizzabilità dei beni e la contemporanea insistenza delle ipoteche bancarie.

Nel Rapporto 2011 dell’Agenzia nazionale, che fa riferimento al periodo gennaio-dicembre 2010, viene fornita una stima dei “gravami ipotecari” iscritti sui beni confiscati alla criminalità organizzata ovvero il potenziale debito nei confronti dei creditori. Il capitale totale “opponibile”, senza considerare i debiti verso lo Stato, ammonta a 228 milioni di euro a cui vanno sommati interessi pari a circa 122 milioni. “Tali valori -ammonisce l’Agenzia Nazionale- rappresentano la situazione reale per difetto. Si stima che il valore reale potrebbe essere circa il doppio di quello indicato” a causa della mancanza di informazioni su alcuni beni e la mancata “attualizzazione” degli interessi. La stessa Agenzia nazionale, nel dicembre 2011, non è però in grado di fornire un quadro preciso dei contenziosi aperti con le banche.

Sul punto si è mossa la senatrice Radicale Donatella Poretti, autrice, lo scorso settembre, di un’interrogazione parlamentare ai ministri dell’Economia e dell’Interno volta a conoscere “quali iniziative il governo ha adottato o intenda adottare al fine di sostenere e sollecitare l’Agenzia -anche attraverso la sottoscrizione di accordi con gli istituti bancari o meglio in sede Abi (Associazione bancaria italiana)- a superare in tempi rapidi le diverse criticità che bloccano con le ipoteche il riutilizzo dei beni”. L’iniziativa della Poretti, però, non ha avuto risposte. Rispetto al ruolo degli istituti di credito e delle iniziative necessarie per agevolare il corso della destinazione dei beni confiscati anche l’Abi ha preferito tacere. Tra cifre e silenzi spicca però una sentenza della Corte di Cassazione dell’aprile del 2010, un punto fermo nella dottrina che riguarda il rapporto tra l’istituto di credito e il mafioso. I giudici, chiamati a giudicare una controversia dove il creditore era Sicilcassa (in liquidazione), hanno stabilito che “non è sufficiente la dimostrazione dell’assenza di dolo” al momento dell’iscrizione dell’ipoteca sull’immobile per poter pretendere il rispetto della “garanzia”, quanto piuttosto poter dimostrare che non via siano mai stati comportamenti “negligenti” o “anomali” nei confronti del presunto mafioso beneficiario del mutuo. Principio fondamentale che ha stabilito che “il giudice penale, esclusa la buona fede del terzo che vanti diritto sull’immobile confiscato, può ordinare la cancellazione dell’ipoteca”.

Chi ha cercato di proporre una via d’uscita, cercando di anticipare la carta bollata della Cassazione, è stata la Fisac Cgil presso la direzione generale di Bnl. “Il nostro lavoro e le nostre banche non possono bloccare il messaggio di giustizia e legalità legato alla ridestinazione dei beni confiscati o perlomeno se lo fanno non si possono proclamare socialmente responsabili”, affermano nella pubblicazione Responsabilmente dell’agosto 2011. Motivo per il quale Fisac ha elaborato un semplice vademecum per una “banca socialmente responsabile”: individuare prontamente i beni, semplicemente attivando un canale di comunicazione con l’Agenzia nazionale sui beni confiscati, intraprendere internamente procedure eccezionali, ma pubbliche e standardizzate, per trattare i contratti di mutuo stipulati con soggetti condannati e per i beni confiscati, velocizzare la cancellazione dell’ipoteca, approntare una soluzione transattiva “standard”.
Per trovare buone pratiche non bisogna spingersi molto lontano. Secondo la Relazione del 2008 dell’allora Commissario straordinario del Governo per la gestione e la destinazione dei beni confiscati, sarebbe bastato che le fondazioni bancarie avessero erogato lo 0,5% delle risorse impiegate “per attività istituzionali” nel 2005 (1 miliardo e 300 milioni di Euro) per poter “coprire” il debito ipotecario.
Semplice, o no? “È bene precisare che quando parliamo di beni confiscati ipotecati abbiamo a che fare la maggior parte delle volte con ipoteche volontarie. Per intenderci, il contratto di mutuo che il padrone di casa o un suo prestanome stipula con l’istituto di credito” chiarisce l’avvocato Loris Veneri, che per conto dell’amministrazione comunale di Suzzara, in provincia di Mantova, sta portando avanti una battaglia legale per evitare all’ente di sborsare centinaia di migliaia di euro a fronte di una garanzia ipotecaria che grava su una villa bifamiliare confiscata alla mafia. “È probabile che la banca, al momento del prestito, fosse in buona fede, ignorando il curriculum vitae del padrone di casa. Capita sovente che lo stesso Tribunale penale che magari ha disposto la confisca di un bene, a distanza di decenni, ravvisi la buona fede del creditore, anche se spesso con analisi a dir poco superficiali. Da quel momento i tempi si allungano a dismisura e le spese aumentano. Quel che è certo è che l’ente che ne ha la responsabilità e la gestione deve farsene carico”. In che senso? “O i soggetti istituzionali destinatari hanno i soldi e pagano, e di questi tempi è dura. O raggiungono una mediazione, ed è possibile farlo a meno di incrociare creditori ingordi oltreché ‘distratti’ al momento del mutuo. Oppure sono costretti a riconsegnare le chiavi alla sede regionale dell’Agenzia del Demanio, con buona pace della destinazione a fini sociali di progetti, magari già preparati e poi congelati”.
92 dei 156 beni ad oggi “in gestione” all’Agenzia nazionale presenti in Lombardia sono gravati da ipoteche o pignoramenti. Dal momento che è più che probabile che buona parte dei beni “consegnati” (596) si trovi nelle medesime condizioni, quali strumenti ha messo a disposizione, se li ha messi, la Regione Lombardia? “Per quel che ne sono -riprende l’avvocato Veneri- dal 2009 al 2010 la Regione Lombardia ha messo a disposizione un bando a cui potevano attingere i Comuni, per un valore totale di quattro milioni di euro. Nel 2011, però, il fondo non è stato più riattivato”.

Quali sono le problematiche maggiori legate alle ipoteche presenti (in buona o cattiva fede) sui beni confiscati? “Mancano chiare disposizioni normative in materia di tutela dei creditori aventi diritto. Quel che bisogna stabilire e chiarire in maniera inequivocabile è che il bene, una volta confiscato, entra a far parte del patrimonio indisponibile dello Stato. Atteso questo, lo Stato non può pensare di agire con una mano a colpire i mafiosi, arrestare decine di criminali, confiscargli i patrimoni e con l’altra non occuparsi di quella che definisco la ‘vita successiva’ delle stesse ricchezze. Altrimenti siamo in testacoda. Abbiamo letto tutti dei successi contro le mafie. Quello però è il 50% del lavoro, dietro l’angolo c’è tutta una selva contorta che non si può ignorare. Non si possono abbandonare gli enti locali, specialmente i piccoli Comuni”.
Il Commissario straordinario del Governo designato alla gestione dei beni confiscati (predecessore dell’Agenzia nazionale) aveva proposto, nel 2009, l’istituzione di un fondo finanziato dalle fondazioni bancarie al quale accedere “previa valutazione della meritevolezza concordata con l’Avvocatura dello Stato”.
“Per me è una santa proposta -riprende Venerdi-. Gli enti locali hanno bisogno di un borsino a cui attingere, altrimenti è inutile destinare beni confiscati nella forma e nella sostanza non far nulla per restituirli a nuova vita”.
Anche perché, spesso, il mafioso ha ben chiaro il contesto in cui si muove. “Potreste spiegarmi perché il mafioso acquista in nero la pizzeria, il ristorante, le quote societarie di attività ed aziende floride intestandole magari ad insospettabili, e poi invece accende un mutuo rispetto alla casa dove vive? Forse perché sa che tanto, anche una volta confiscata, quella villa, quella palazzina, quelle mura resteranno a dir poco in frigorifero. E come il cibo mal conservato, se non fai qualcosa gli insetti a lungo andare se lo divorano…”.
 

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