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Una stupefacente quotidianità

Una stupefacente quotidianità

Tratto da Altreconomia 143 — Novembre 2012

A Fondi si racconta che i segreti del Mof, il più grande mercato ortofrutticolo d’Europa, siano nascosti tra le foglie della lattuga. Tra i ceppi che arrivano dalla Spagna, e che sul mercato all’ingrosso costano 10 centesimi in meno del prodotto locale. Un “miracolo economico” merito esclusivo di una preziosa compagna di viaggio: la cocaina sudamericana sbarcata sulla Costa del Sol, oro bianco nascosto tra le foglie verdi del carico ufficiale dei camion diretti in Italia.
Feudo storico della ’ndrina dei Tripodo -ancora attiva sul territorio nonostante l’operazione Damasco del 2009, che portò all’arresto dei fratelli Venanzio e Carmelo- oggi Fondi, in provincia di Latina, è la roccaforte del clan dei Casalesi, e uno snodo cruciale per il traffico internazionale di droga.
Dal Mof passa anche la coca sbarcata nei porti italiani di Gioia Tauro (Rc), Livorno e Ancona. Nascosta tra le fragole e i pomodori prodotti nelle serre dell’Agro pontino, prende poi la strada dei mercati del Nord  Europa, soprattutto quello tedesco. I camion che s’incrociano lungo rotte opposte carichi della stessa merce non servono soltanto a confondere chi indaga sul narcotraffico, ma permettono anche di riciclare denaro sporco guadagnato con traffici illeciti.
Fondi è una città molto importante per la criminalità organizzata. Così importante da rendere vano ogni tentativo dello Stato di riappropriarsi del territorio. Nel 2008, il Prefetto di Latina Bruno Frattasi presentò una relazione di oltre 600 pagine, in cui documentava nel dettaglio “l’inosservanza sistematica delle normative antimafia, e l’agevolazione da parte del Comune degli interessi di elementi contigui o affiliati alla criminalità organizzata”. Caso unico nella storia d’Italia, il Consiglio dei ministri decise però di respingere al mittente la richiesta di commissariamento per infiltrazione mafiosa, fatta dal ministro dell’Interno Roberto Maroni. Il caso guadagnò i riflettori di stampa e televisione. Indignata, l’amministrazione fondana si dimise in blocco. Salvo poi ripresentarsi 3 mesi più tardi, con l’alfiere a fare la torre, il cavallo al posto della regina, e un pedone mascherato da re.
La cocaina tiene in piedi anche un altro importante hub italiano, il porto di Gioia Tauro. La storia della ’ndrangheta è legata a doppio filo a quella della Piana di Gioia Tauro. Tradizionalmente coltivata ad agrumeti e oliveti, negli anni 70 gli interventi della Cassa del Mezzogiorno (il “pacchetto Colombo”, dal cognome dell’allora primo ministro, Emilio, oggi senatore a vita) provarono a riconvertire la zona, prima in un importante polo siderurgico e poi in una centrale a carbone dell’Enel. Entrambi i progetti non videro mai la luce, ma l’area portuale interessata dai lavori venne infine trasformata in un grande hub commerciale, attivo dal 1994. La ‘ndrangheta intanto utilizzava i capitali accumulati con i sequestri di persona per lanciarsi nel traffico internazionale di droga. Gioia Nostra, come venne ribattezzata l’area della Piana, divenne feudo della ’ndrina Piromalli-Molé, grossisti del traffico di cocaina con connessioni familiari sia nei Paesi produttori del Sud America che in Germania, importante mercato di sbocco. Quando nella primavera dello scorso anno il gruppo danese Maersk, principale armatore globale nel trasporto marittimo di container, spostò la maggior parte dei propri servizi mediterranei di smistamento da Gioia Tauro agli hub di Malta, Tangeri e Port Said, fu il traffico di coca a tenere in piedi l’economia del porto. Per dare un’idea del narcovolume che passa attraverso Gioia Tauro, basta pensare ai sequestri operati dalla Guardia di finanza: quasi 2 tonnellate di droga dall’inizio di quest’anno. L’ultimo caso è del 12 ottobre: un quintale di cocaina trovato in un carico di ceci che veniva dal Messico.
“Da almeno 50 anni, nel deserto di diritti e opportunità della Calabria, la legalità è un’idea astratta -come scrive Francesco Forgione, ex-presidente della Commissione parlamentare antimafia, nel libro ‘Porto Franco’ (Dalai editore, 2012)-. Solo qui la commistione tra ‘ndrangheta, massoneria, servizi deviati, apparati dello stato e giudici, è tale da creare un potere parallelo, separato e allo stesso tempo interno allo Stato”. Il vero potere della ’ndrangheta sta da un lato nel silenzio in cui è inabissata e dall’altro nella sua dimensione globale.
Le relazioni della ’ndrangheta con produttori e intermediari in America latina sono consolidate. La “fratellanza” con i cartelli colombiani o con clan famigerati come i messicani Los Zetas garantisce prezzi bassi e alta qualità. Il legame tra i 2 gruppi criminali è emerso nel 2008, grazie un’indagine italo-americana nota come “Operazione solare”. Ma secondo Cynthia Rodriguez, inviata in Italia della rivista messicana “Proceso” e autrice del libro “Contacto en Italia” (uscito in Messico nel 2011 e presto tradotto in Italia), “il sodalizio risale almeno al 2006, quando lungo la frontiera tra Usa e Messico vennero schierati oltre 30mila militari. Da allora i narcos messicani si sono messi alla ricerca di mercati alternativi a quello statunitense, e la ’ndrangheta ha colto al volo l’occasione”.
Il 9 ottobre, la Marina messicana ha ucciso il leader de Los Zetas, Heriberto Lazcano, sulla cui testa pendeva una taglia di 5milioni di dollari offerta dagli Stati Uniti d’America. Il corpo di “El Lazca”, com’era soprannominato, è stato però sottratto da un gruppo di uomini armati, che ha fatto irruzione nella compagnia di pompe funebri dove giaceva il cadavere. Tra gli omicidi di cui era accusato, c’è quello di Francisco Ortiz Franco, direttore di un settimanale di Tijuana che si occupava di narcotraffico. “El Lazca” è noto per aver ingrossato le fila dei killer del suo gruppo reclutando ex-soldati messicani e guatemaltechi, noti come kaibiles, che si occupavano di formare le nuove leve di assassini. Alla guida de Los Zetas succede Miguel Angel Trevino Morales, criminale dalla reputazione più violenta del suo predecessore. I “fratelli” latini si occupano di tutto, dall’impacchettamento fino al monitoraggio del carico diretto ai porti europei. In Sud America, un chilo di coca viene pagato intorno ai 1.200 euro. Ma quando raggiunge l’Europa il costo per i clan è già 15 volte superiore, a causa delle mazzette pagate lungo il viaggio per corrompere le autorità di controllo. Sul mercato all’ingrosso, un chilo di cocaina pura viene venduto a una cifra che oscilla tra i 27mila e i 32mila euro. Gli affiliati che curano la fase d’acquisto attendono che gli ordini dei vari clan arrivino a una quota di almeno 2-3 quintali, meglio ancora di mezza o una tonnellata. Poi girano l’ordine e inviano il denaro.
“Per le ’ndrine il narcotraffico rimane fondamentale -racconta ad Ae Stefania Bizzarri di ‘Narcomafie’, tra le autrici di ‘Narconomics’ (Edizioni Lantana, 2010)-. Perché genera la liquidità necessaria agli altri investimenti. Di fatto il traffico di droga è il bancomat della ’ndrangheta. Il ‘lavaggio’ del denaro sporco avviene in migliaia di modi diversi: casinò, discoteche, locali, banche, palazzi, alberghi, aziende vere o fittizie, ristoranti, strutture turistiche e tanto altro ancora. Da quando è stato legalizzato, il gioco d’azzardo in Italia rappresenta una delle forme principali di riciclaggio. Le persone che vediamo passare giornate intere davanti alle slot-machine sono pagate per farlo. Stanno pulendo il denaro dei clan”. Secondo il Fondo monetario internazionale, il riciclaggio si attesterebbe intorno al 5% del Pil mondiale. Una percentuale analoga a quella stimata per l’Italia da Piero Grasso, procuratore nazionale antimafia. Da quando il sistema finanziario globale è entrato in una profonda crisi di liquidità, le banche svolgono un ruolo sempre più consistente nel “lavaggio” del denaro sporco. —

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