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Diritti / Opinioni

Una sentenza-bandiera dell’autoritarismo

Un’inchiesta forzata nata per "compensare" quelle su Diaz e Bolzaneto. Sono state inflitte pene abnormi che colpiscono dieci persone individuate casualmente con foto e filmati e indicate come responsabili di un disegno criminoso sproporzionato: la sovversione dell’ordine pubblico. Si consolida un "nuovo ordine": pugno duro, repressione e intimidazione per chi dissente. Occorre rispondere con prudenza, maturità e facendo tesoro della lezione nonviolenta

Il “processo ai 25” – poi diventati dieci in Cassazione – è sempre parso una forzata compensazione delle inchieste avviate contro le forze dell’ordine per i fatti della Diaz e di Bolzaneto; ora che le sentenze sono definitive quella sensazione è una certezza.

Condannati e sospesi numerosi funzionari e dirigenti di polizia, ecco pene abnormi che cadono sul capo di pochi malcapitati, raggiunti dalla scure di un reato – devastazione e saccheggio – che prevede pene assurde e insensate in un regime democratico (risalgono infatti a un’altra epoca storica), ma che svolge benissimo la funzione di sentenza-bandiera da sventolare di fronte a un’opinione pubblica tanto inebetita quanto stimolata a covare sentimenti di vendetta da una vulgata populista secondo la quale “colpiscono i poliziotti e non fanno nulla a chi ha devastato Genova”.

E’ una vulgata pericolosa e autoritaria, ma è stata alimentata dal silenzio della politica e da molti irresponsabili commentatori, che hanno gettato ombre sulla procura genovese che ha condotto le inchieste e legittimato le geremiadi di chi lamentava la perdita per lo stato di “grandi investigatori”, dimenticando sia la gravità dei reati contestati, sia la loro inaccettabile condotta processuale, sia – soprattutto – la preminenza delle garanzie costituzionali rispetto alla carriere dei singoli (a questa vulgata – diciamolo – hanno contribuito anche gli impropri messaggi di solidarietà inviati ai condannati dai dirigenti che li hanno sostituiti).

L’inchiesta Diaz, in particolare, ha disturbato non poco il gruppo di potere insediato al vertice della polizia di stato, il quale si è dato molto da fare per proteggere gli imputati e ostacolare il lavoro dei magistrati. Di riflesso, quell’inchiesta è apparsa destabilizzante anche nei palazzi del potere politico, sommandosi oltretutto a quella sulla tortura di Stato, come si è immediatamente rivelata l’indagine sui soprusi nella caserma di Bolzaneto.

Si poteva indagare per reati così gravi e su personaggi così potenti, senza mettere qualcosa sull’altro piatto della bilancia? Non si poteva, per ovvie esigenze di ragion di Stato. Ma c’era un problema: nessuno, durante le giornate del G8, era stato arrestato in flagranza di reato, come di solito avviene a fronte di azioni di teppismo o danneggiamento. Per rimediare, si sono investite ingenti risorse finanziarie e umane per esaminare video e filmati e cogliere qualche fotogramma chiaro, utilizzabile ai fini dei riconoscimenti.

Sono saltati fuori 25 nomi e cognomi, che non corrispondono – ovviamente – agli autori dei reati più gravi, ma semplicemente alle fotografie e ai filmati meglio riusciti. Sono 25 nomi e cognomi, quindi, presi nel mucchio. L’inchiesta ha collegato fra loro queste 25 persone, accomunandole – anche con l’incredibile ricorso alla nozione di “compartecipazione pischica” – in unico disegno criminoso di sovversione dell’ordine pubblico e quindi additandole come responsabili del dimenticato reato di devastazione e saccheggio (scartando l’ipotesi del danneggiamento, che prevede pene ben più miti). Ecco perché si parla di capri espiatori.  Perché sono 25 (poi 10) persone prese a casaccio e gravate di una responsabilità – mettere a repentaglio l’ordine pubblico nella città di Genova – che era palesemente al di fuori delle loro possibilità, oltre che delle loro intenzioni, trattandosi di persone non collegate fra loro, se non per microgruppi, e prive di un progetto comune.

I processi – è bene ricordarlo – hanno escluso dal conto una decina di imputati chiamati in causa per le loro azioni durante il corteo delle "tute bianche": in quel caso l’inchiesta della procura genovese si è trasformata in un clamoroso boomerang. Il tribunale di Genova ha infatti definito “ingiustificata e illegittima” la carica dei carabinieri in via Tolemaide e quindi assolto per una sorta di legittima difesa chi ha lanciato pietre e altri oggetti contro gli agenti. Mai, in passato, un tribunale era arrivato a censurare così nettamente la condotta di piazza delle forze dell’ordine. Nessuno, tuttavia, ha pagato per ciò: la procura ha “dimenticato” di indagare sui responsabili di quell’azione, che è così caduta in prescrizione, e meno che mai è stata avviata un’azione interna a carabinieri e polizia per chiedere conto di una condotta così poco professionale e così contraria ai compiti istituzionali.

Le pene inflitte ai dieci condannati, anche all’indomani di eventuali nuovi sconti, sono una palese ingiustizia, tanto sono sproporzionate rispetto all’entità dei fatti (una camionetta incendiata, vetrine sfondate, qualche danneggiamento) e anche rispetto alle pene inflitte nelle inchieste Diaz e Bolzaneto.

Mette angoscia il pensiero che alcune persone debbano trascorrere anni della loro vita in prigione per azioni infinitamente meno gravi e pericolose di quelle compiute da decine di agenti e funzionari di pubblica sicurezza tuttora in servizio nei rispettivi corpi di appartenenza o sospesi temporaneamente (e con il palese disappunto dei vertici politici e di polizia).  Siamo di fronte a condanne “esemplari”,  dettate da una ragion di stato che prefigura, anzi consolida, un nuovo corso dell’ordine pubblico che prende il peggio dalla lezione di Genova G8.

La conclusione dei processi, in una seria democrazia, darebbe il via a una serie di riforme urgenti, più che legittimate dalle sentenze anche agli occhi dell’opinione pubblica più distratta: legge sulla tortura, riconoscibilità degli agenti in servizio d’ordine pubblico, istituzione indipendente di tutela dei diritti umani, cancellazione della via prefernziale riservata ai militari per le assunzioni in polizia.

Ma in Italia viviamo una stagione di paralisi politica, coi partiti progressisti ormai inermi e in profonda crisi d’identità, mentre montano le tecnocrazie che sfruttano la recessione per stringere la morsa e cancellare stato sociale, diritti dei lavoratori, ruolo dello stato nell’economia.

Perciò la lezione di Genova G8  che piace e che si tenterà di far fruttare è quella che scaturisce dalle condanne esemplari inflitte ai dieci cittadini giudicati il 13 luglio. E’ la logica del pugno duro, della massima repressione verso chi dissente, dell’autoritarismo, dell’accantonamento delle garanzie costituzionali con la scusa della crisi e quindi dell’emergenza.

E’ la logica che ha portato alla retata degli attivisti No Tav, alcuni dei quali accusati per episodi e comportamenti risibili, che molto ricordano una sorta di surreale “reato di presenza”; alle cariche di polizia contro qualsivoglia manifestazione, che sia il corteo del 15 ottobre 2011, la protesta romana dei terremotati dell’Aquila, la contestazione degli animalisti contro il canile-lager Green Hill di Montichiari.

C’è ancora spazio per impedire questa deriva, ma a fronte di un potere politico debole e delegittimato, serve una mobilitazione popolare più larga e più consapevole. E’ necessario, d’ora in avanti, non fornire mai pretesti per azioni violente delle forze di sicurezza e mantenere aperte tutte le porte alla partecipazione dei semplici cittadini, senza militarizzare le proteste.

La compartecipazione psichica, il fasullo “reato di presenza”, il ricorso all’arresto in “flagranza differita”, l’uso sistematico di foto e filmati per contestare reati anche minimi, sono potenti strumenti di repressione e intimidazione e vanno affrontati con intelligenza, a viso aperto, facendo tesoro del patrimonio di azione costruito in ambito nonviolento.

E’ tempo di riscoprire la forza della disobbedienza civile, della ribellione attraverso la  noncollaborazione, la nonmenzogna, i sit-in, i digiuni di massa. Sono strumenti che spiazzano chi pensa di usare la forza dei manganelli e la condanna mediatica sotto l’etichetta della violenza.

E’ una fase difficile e pericolosa, quella che ci aspetta, e va affrontata con prudenza e maturità.

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