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Opinioni

Una democrazia in ostaggio

Se il 12% degli italiani si è visto chiedere una tangente, la tenuta del Paese è a rischio; se i beni confiscati alla mafia non vengono riutilizzati a fini sociali, c’è il rischio di non spezzare il ciclo di illegalità _ _ _
 

Tratto da Altreconomia 143 — Novembre 2012

Una parte dell’antimafia sociale ha deciso: la nuova sfida è quella contro la corruzione e la criminalità economica, nella convinzione che da questi ambiti si possano recuperare risorse utili per rilanciare l’Italia e per ridare fiducia e credibilità ai cittadini nella politica. Il nuovo corso si è inaugurato il 1° di ottobre, nella sede della Federazione nazionale della stampa italiana, dove Avviso Pubblico, Legambiente e Libera hanno presentato il dossier intitolato Corruzione. La tassa occulta che impoverisce e inquina il Paese.
“La corruzione tiene in ostaggio la democrazia del nostro Paese” ha sostenuto don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele e di Libera. Bastano alcuni dati ufficiali, per capirlo. Secondo un recente sondaggio di Transparency International -il “Global Corruption Barometer”- nel 2010 il 12% degli italiani si è visto chiedere una tangente, contro una media europea dell’8%. In termini assoluti si tratta di circa 4,5 milioni di cittadini a cui è stato chiesto di pagare una mazzetta per avere accesso a servizi primari come la sanità, la giustizia, il fisco, l’istruzione.
In Italia, purtroppo, la corruzione conviene a chi la mette in atto: rende molto e si rischia poco. Secondo la Corte dei conti, ogni anno il mercato delle tangenti sottrae agli italiani 60 miliardi di euro, mille euro a testa, e le leggi attualmente in vigore -come da diversi anni sottolineano le istituzioni internazionali- non sono in grado né di prevenire né di reprimere adeguatamente il fenomeno. Qualche dato aiuta a capire meglio.
Nel 1996, nel nostro Paese si sono contate oltre 1.700 condanne per reati di corruzione, mentre nel 2008 queste sono state 295. Un calo dell’83%. In molte regioni la discontinuità è diventata un vero e proprio tracollo: da 138 condanne nel 1996 a 5 nel 2006 in Sicilia; da 206 a 5 in Campania; da 110 a 9 in Veneto, da 19 a nessuna in Calabria. In Lombardia, dove recentemente si è assistito ad inchieste giudiziarie in materia di corruzione e di rapporti tra mafia e politica, le condanne per corruzione sono passate dalle 545 del 1996 alle 43 del 2008 ( meno 92%).
È per questo che Avviso Pubblico, Legambiente e Libera hanno chiesto ai parlamentari di approvare rapidamente il disegno di legge anticorruzione, passato con la fiducia al Senato. E ciò nonostante le tre organizzazioni siano coscienti che questa normativa presenta delle lacune molto rilevanti, tra cui: l’assenza  del reato di autoriciclaggio; la mancata riforma del reato di falso in bilancio; la mancata revisione dei tempi di prescrizione dei reati, sensibilmente ridotti dalla famosa e famigerata legge “ex Cirielli”, che ogni anno manda in fumo migliaia di processi contro corrotti e corruttori. L’approvazione del disegno di legge è un segnale politico fondamentale per recuperare quella credibilità che il nostro Paese ha perso agli occhi della comunità internazionale.

Un’altra iniziativa che su cui va richiamata l’attenzione parlando del contrasto alle mafie e alla criminalità economica, è la proposta di legge di iniziativa popolare per migliorare la normativa in materia di aziende confiscate, presentata a Roma il 4 ottobre dalla Cgil. Le aziende confiscate, stando ai dati forniti ai primi di settembre dall’Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati, sono 1.636 e, secondo il più importante sindacato italiano, sarebbero molto di più quelle sequestrate. Nelle azione confiscate lavorano circa 80mila lavoratori operanti soprattutto nei settori dell’edilizia, del terziario e dell’agroalimentare. Dopo la confisca, circa il 50% delle aziende sottratte alle mafie chiude i battenti, visto che sovente vengono a mancare il finanziamento bancario e le commesse. Inoltre, gli amministratori giudiziari agiscono più come commissari liquidatori che manager capaci di tutelare i livelli occupazionali e la continuità aziendale. Il risultato che questo insieme di situazioni produce è quello  che in diversi territori del nostro Paese e, in particolare del Mezzogiorno, passa e trova consenso sociale il detto che con la mafia si lavora e con lo Stato si resta disoccupati. Tutto questo non può e non deve più accadere. Esempi positivi di gestione di aziende confiscate esistono in provincia di Catania, Palermo, Trapani, Siena e Roma.
La Cgil, insieme ad altre undici realtà, tra cui Avviso Pubblico, Arci, Libera, e all’Associazione nazionale magistrati, chiede ai cittadini italiani di sostenere la legge in materia di uso sociale delle aziende confiscate (il testo è sul sito www.cgil.it). Ai primi di novembre parte una campagna nazionale, intitolata “Io riattivo il lavoro!”. Sarà l’occasione per porre una firma contro le mafie e per contribuire all’affermazione della legalità. —

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