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Economia

Una cronaca da Lampedusa

Quando l’aereo sta per atterrare, osservando dal finestrino, si comprende bene che l’isola di Lampedusa è piccola. Una striscia di terra in mezzo al mare di un blu intenso e profondo: poco più di uno scoglio, brullo, selvaggio, a tratti…

Quando l’aereo sta per atterrare, osservando dal finestrino, si comprende bene che l’isola di Lampedusa è piccola. Una striscia di terra in mezzo al mare di un blu intenso e profondo: poco più di uno scoglio, brullo, selvaggio, a tratti ostico ed estremo, con le sue coste per lo più alte e rocciose. Non so perché, ma così a prima vista, dall’alto, mi ricorda Manhattan. Sarà per la forma lunga e stretta o forse per quella sensazione di roccia dura e solida che emana, mancano solo i grattacieli. Di sicuro è piccola, molto piccola: ha una superficie di circa 21 kmq, meno della metà del lago di Bracciano.

È l’avanposto più a Sud d’Italia, è più vicina all’Africa che alla Sicilia. Del resto i romani ne avevano fatta una sorta di base durante le guerre puniche, quando «cartago delenda est» e pare che siano stati loro, la causa della pressoché totale assenza di alberi d’alto fusto, saccheggiati per il bisogno fondamentale di legna. Infatti, volgendo lo sguardo oltre il piccolo centro abitato, si notano solo siepi e rovi, la classica macchia mediterranea. E sassi, tanti sassi, rocce di ogni dimensione e fattezza.

Ti accorgi di quanto è vicina l’Africa. La Tunisia è a soli 113 km, quasi la metà rispetto alla costa siciliana che è invece a 205 km.

Appena esci dall’aeroporto vedi una sessantina di immigrati tunisini in attesa di essere imbarcati su un aereo per la penisola, controllati da alcuni agenti in divisa sotto un sole caldo, che rende il clima mite e piacevole. Lampedusa non è solamente quel luogo di vacanze, dove tanti turisti trascorrono le proprie ferie su spiagge bianchissime bagnate da un mare trasparente e cristallino, tanto splendido quanto invitante. Ora Lampedusa è divenuta la nostra Ellis Island, l’isola newyorkese di fronte a Manhattan, proprio accanto alla Statua della libertà, quella lingua di terra che ha accolto, nel secolo scorso, milioni di migranti che cercavano fortuna negli Stati Uniti d’America e tra quei brutti, sporchi e cattivi, che aspettavano li in quarantena, c’erano tanti italiani, i nostri nonni e bisnonni. Ora dopo quasi un secolo, l’isola di Lampedusa è l’approdo per l’Italia, la porta d’ingresso di migliaia di immigrati africani verso il nostro Paese e l’Europa, noi siamo divenuti il loro sogno americano.

Girare a piedi per il piccolo centro abitato è fonte di contraddizioni. Le strade strette e semplici, i colori pastello delle abitazioni, tutte alte un paio di piani o poco più, i panni umidi stesi ad asciugare accanto all’uscio di casa e i volti della gente, rimandano al classico paese del meridione italico, ma la quantità di mezzi e uomini delle forze dell’ordine presenti stona, il paese appare militarizzato e se il neovisitatore non fosse al corrente della grande ondata dei migranti, non ne capirebbe il perché.

La contraddizione aumenta quando ci si rende conto che di fronte a tale spiegamento di forze, praticamente tutti, giovani e anziani, uomini e donne, vanno in motorino senza indossare il casco. Si tratta, però, di una sorta di anarchia che non disturba, anzi dà l’impressione di un posto tranquillo, molto tranquillo. Prova ne sono le porte aperte, le chiavi lasciate inserite nei cruscotti delle auto, il venditore di frutta e verdura che lascia sguarnito il suo negozio per andare al bar e farsi un caffé.

E poi ci sono loro, i migranti, tutti tunisini, uomini, in maggioranza tra i venti e trenta anni, che se ne vanno in giro per il paese facendo la spola tra il porto -il luogo che li ha accolti dopo un viaggio lungo e difficile, nonché denso di insidie, che oscilla tra le 8 e le 40 ore a seconda del tipo di imbarcazione e delle condizioni del mare- e via Roma, la strada principale del paese, ove si mischiano con la popolazione locale.
Per poi rientrare, quando fa buio, nel "centro d’accoglienza", situato un po’ fuori mano e presidiato da uomini della Polizia, dei Carabinieri e della Guardia di Finanza coadiuvati anche da qualche soldato dell’Esercito.

Il centro d’accoglienza è chiuso ai giornalisti, da fuori si riesce però a percepire che è assolutamente sottodimensionato rispetto al numero di stranieri presenti. Di notte, infatti, raccontano molti di loro, ci si arrangia e non essendoci posti letto liberi, tanti sono quelli che dormono all’aperto su un cartone, con teli di plastica che fungono da coperta. Al solo immaginarlo vengono i brividi, perché c’è un’elevata escursione termica tra il giorno e la notte. E poi c’è il vento, assiduo frequentatore dell’isola che, se la rende più vivibile d’estate, la fa divenire sicuramente ancora più aspra d’inverno.

Col passare dei giorni ci si accorge a vista d’occhio che il numero degli sbarchi, facilitato pure dalle buone condizioni del mare, sta aumentando. Quando un barcone arriva fa impressione vedere le condizioni in cui questi giovani hanno viaggiato, stretti l’uno all’altro, coperti all’inverosimile a causa del freddo della notte e dell’umidità. Alcuni appena toccano terra fanno fatica a reggersi in piedi, sono esausti, barcollano e il personale sanitario che presta i primi soccorsi cerca in tutti i modi di alleviare le loro sofferenze.
Seguendoli con lo sguardo mentre remissivi obbediscono agli ordini degli agenti dell’immigrazione, che subito li organizzano in gruppi, colpisce il fatto che tanti letteralmente tremino dal freddo.

Sono veramente tanti gli immigrati in giro per il paese. In teoria non potrebbero uscire dal centro d’accoglienza, ma lontano dagli occhi delle forze dell’ordine, superano facilmente le precarie recinzioni e se ne vanno in giro per il paese. E forse è meglio così, almeno la tensione non sale.

In pochi giorni il numero delle carrette del mare che hanno trasportato questo carico umano è cresciuto sempre più, alcune sono ancorate in porto, altre accatastate in una sorta di parcheggio li accanto, quello che viene definito il cimitero delle barche. Sono tutte sottoposte a sequestro giudiziario e osservandole bene ti chiedi come hanno fatto ad arrivare fin qui, visto il loro precario stato. Pare impossibile che possano galleggiare, se poi pensi che erano affollate all’inverosimile capisci che in questi anni in tanti certamente non ce l’avranno fatta e ora riposeranno in fondo al mare, dimenticati da tutti.

Gli sbarchi sono aumentati così tanto, che le forze dell’ordine non portano più gli stranieri nel centro d’accoglienza, ormai stracolmo, e allora essi rimangono nell’area commerciale del porto e nei locali della stazione marittima, divenuti presto saturi. Nonostante gli sforzi di tutti diviene ogni giorno più difficile gestire questa situazione.

Gli abitanti sono preoccupati stavolta, sono esasperati e si sentono abbandonati. Eppure loro sono abituati da anni ad accogliere i migranti, è una popolazione semplice quella di Lampedusa, ma molto generosa con questi ragazzi venuti dall’Africa. Non è raro infatti assistere a scene di questo tipo, un anziano sulla porta di casa sua che offre il caffé a un paio di ragazzi fermatisi davanti la sua abitazione. Stavolta però gli abitanti hanno ben chiaro che la situazione è sfuggita di mano e che non è solo una questione di ordine pubblico.

Il lavoro di Polizia e Carabinieri è tanto e non agevole, i turni cui sono sottoposti coloro che rappresentano lo Stato in questo lontano angolo d’Italia sono massacranti, ma tutti cercano di non perdere mai la pazienza, anche quando la tensione sale, per esempio quando è l’ora dei pasti o quando nessuno dice ai migranti quale sarà il loro destino e quando finalmente partiranno.

Rende bene l’idea di quanto questi ragazzi siano spaesati e inconsci del loro destino, ascoltare più di uno chiedere all’agente di Polizia di turno dov’è la stazione ferroviaria o addirittura la metropolitana per andare a Marsiglia o a Parigi. Si, perché non tutti vogliono rimanere in Italia e parlandoci diviene chiaro che tanti vorrebbero andare all’estero, soprattutto in Francia, per raggiungere parenti o amici, per lavoro o per completare gli studi. Altri spiegano, invece, che per loro non c’è futuro in Tunisia, la disoccupazione è tanta e la situazione è un caos, il governo non esiste e comanda solo la polizia e l’esercito, preferiscono quindi cercare fortuna all’estero e l’Italia è così vicina.

La scena che, però, più tocca il cuore è quella di un giovane di circa sedici anni, che a tarda notte mentre sale, insieme a una cinquantina di connazionali, sul pullman che lo accompagnerà al centro di accoglienza per le procedure di identificazione, chiede in un buon francese a un sorpreso carabiniere: « …ma domani c’è scuola?».

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