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Una comunità di arte e pietra – Ae 67

Il villaggio di Tengenenge, nello Zimbabwe senza pace: 300 scultori-artisti mettono in comune passione e ricavi. E da novembre a marzo, durante la stagione delle piogge, si ritorna alla coltivazione dei campi. Le statue in Italia grazie al fair trade…

Tratto da Altreconomia 67 — Dicembre 2005

Il villaggio di Tengenenge, nello Zimbabwe senza pace: 300 scultori-artisti mettono
in comune passione e ricavi. E da novembre a marzo, durante la stagione delle piogge,

si ritorna alla coltivazione dei campi. Le statue in Italia grazie al fair trade

La foresta dentro la foresta è a 170 chilometri a nord di Harare, la capitale dello Zimbabwe che lasci a bordo di un fuoristrada, perché sai che a un certo punto dovrai abbandonare la strada asfaltata, avventurarti su pista una sterrata, inabissarti tra gli alberi di msasa. È questo l’unico modo per arrivare a Tengenenge, la comunità di scultori nata quasi quarant’anni fa da un’idea di Tom Blomefield, oggi arzillo vecchietto di 79 anni, antenati inglesi e irlandesi, capelli arruffati e barba lunga e candida tipo Santa Claus. Nel 1966 Tom era un giovane coltivatore di tabacco, ma la situazione in cui versava la sua attività non era tra le migliori: “Ero un cattivo agricoltore -conferma- e gli affari andavano male, così decisi di diventare artista”. Come base di partenza aveva la sua farm e un terreno con una grande cava di “serpentino” (una pietra con colori che vanno dal verde chiaro al nero), anche se la svolta non sarebbe forse arrivata senza l’incontro con Chrispen Chakanyuka, giovane intagliatore specializzato nella pietra saponaria.

È stato lui a insegnare le tecniche per la lavorazione della pietra a Tom e ad alcuni dei salariati della fattoria, immigrati in Zimbabwe da Angola, Mozambico e Malawi per poter lavorare.

L’aspetto multiculturale è quello che ancor oggi contraddistingue Tengenenge, ormai vero e proprio villaggio abitato dagli artisti -tra i settanta e i novanta a seconda del periodo: l’afflusso è assolutamente libero- e dalle loro famiglie, in tutto circa trecento persone. Qui si vive ancora in tradizionali capanne di fango con tetto di paglia e gli artisti trascorrono le giornate a lavorare le pietre scure di serpentino: “Ne ricavano statue tipiche della tradizione shona, in Zimbabwe le trovi un po’ dappertutto”, spiega Emanuele Giordana, responsabile progetti di Libero Mondo, centrale di commercio equo piemontese che dallo scorso anno ha iniziato, unica in Italia, a importare le statue. “Ma la particolarità di quelle di Tengenenge -dice Emanuele- è proprio la dimensione comunitaria dalla quale nascono”.

Un mondo parallelo, quasi, dove chi arriva riceve gratuitamente i “ferri del mestiere”, la pietra per iniziare il suo lavoro e il cibo. Ogni artista, poi, contribuisce al sostentamento collettivo: il 35% dei ricavi dalla vendita delle opere viene infatti devoluto alla comunità e ognuno si occupa, insieme con gli altri, della raccolta e del trasporto delle pietre grezze. Così come tutti, durante la stagione delle piogge che va da novembre a marzo, abbandonano martello e scalpello e si dedicano alla coltivazione delle terre circostanti, dai cui ricavano mais e ortaggi per la propria sussistenza.

Che Tengenenge  non sia un villaggio come gli altri lo si capisce appena vi si entra, e si ammirano le statue sparse ovunque tra le capanne, anche se per raggiungere la vera e propria esposizione bisogna prendere i sentieri che, dal centro del villaggio, si dipartono inoltrandosi nella foresta. Qui ogni scultore ha a disposizione uno spazio dove lavora e presenta le proprie statue, appoggiate a terra, sull’erba, o sistemate su supporti di legno ricavati da tronchi d’albero. L’impatto con le oltre 17 mila statue è quello con una vera e propria selva di pietra: “È uno spazio quasi idilliaco -dice Emanuele- anche se in un primo momento ti disorienta, perché le statue a un occhio inesperto possono sembrare tutte uguali. Poi piano piano inizi a distinguere gli stili, differenti per ogni artista”. Emanuele è arrivato a Tengenenge a marzo di quest’anno, per decidere direttamente quali e quanti pezzi portare in Italia. Una loro collaboratrice, Giovanna Avalle, ci era già stata alla fine del 2003, aveva scattato delle fotografie alle statue e, una volta tornata in Italia, quelli di Libero Mondo avevano scelto cosa comprare: “Ma naturalmente si trattava di pezzi unici, e quando abbiamo inviato l’ordine molte statue erano già state vendute”.

Da qui la necessità di un secondo viaggio sul posto: “Ho dovuto girare due volte tutta l’esposizione per decidere”. Le opere di Tengenenge hanno dimensioni, forme e stili molto diversi tra loro: animali e figure mitologiche, scene di vita familiare, danze. Le dimensioni vanno dai 20 centimetri ai tre metri di altezza, e richiedono agli scultori un lavoro a tempo pieno per un periodo di due-tre settimane per le figure piccole, ma anche di due mesi per quelle più grandi. Uomini (per la maggior parte) e donne scolpiscono seduti a terra, con il serpentino grezzo tra le gambe, lo sgrossano con il martello, ne “estraggono” le forme con martello e scalpello e lo levigano con raspa e carta vetrata. Nell’ultima fase la pietra viene scaldata ad alta temperatura e lucidata.

Non la classica “airport art”, quindi, fatta di prodotti dozzinali da vendere ai turisti prima dell’imbarco, ma opere pregiate che si sono meritate un posto allo National museum di Harare e un paio di mostre in giro per il mondo, ma che, nonostante tutto, vengono commercializzate con fatica. “Questo non è un buon momento per lo Zimbabwe -conferma Emanuele- né dal punto di vista politico, né da quello economico. Negli ultimi anni il turismo dall’Europa e dagli Stati Uniti è diminuito molto, e ovviamente anche una realtà come Tengenenge ne ha risentito”. Oggi i pochi clienti sono generalmente le ambasciate locali e qualche museo, ma gli affari non vanno a gonfie vele, tanto che “io ho comprato una settantina di statue per un valore di 1.600 dollari e mi hanno detto che per loro quella è stata la  vendita più consistente degli ultimi tempi”.  Il concetto di commercio equo non lo conoscevano: pagare un prezzo giusto, senza contrattare (“ho visto alcuni farlo, quand’ero là…”), prefinanziando l’ordine: “Che in Africa, e anche nel caso di Tengenenge, spesso significa pagare il cento per cento subito”. L’obiettivo è quello di piazzare al meglio le statue appena arrivate, in modo da poterne ordinare altre e creare nel tempo una certa continuità negli acquisti, altro caposaldo del fair trade. Le statue per ora saranno in vendita presso lo show room di Libero Mondo e in eventuali botteghe che dovessero farne richiesta. Ancora da stabilire i prezzi per la clientela: “Ma vorrei che fossero abbordabili da tutti”, dice Emanuele. Quelli del primo carico, nel 2004, oscillavano tra gli 80 e i 150 euro.

Di dittatore in dittatore

Questa terra era un paradiso. I coloni razzisti di Cecil  Rhodes, l’uomo capace di creare, più di un secolo fa, uno Stato-compagnia, cercarono di riscriverne la storia e negarono che potenti regni africani avessero costruito un regno grandioso quasi mille anni prima. Questa è una terra sventurata: per cacciare gli eredi di Rhodes (1980) fu necessaria una feroce guerra di liberazione durata quindici anni. Al potere salì Robert Mugabe, leader guerrigliero: questa terra ritrovò un nome che si ispirava a quell’antico regno. Il nuovo Stato si chiamò Zimbabwe, “la casa di pietra”. Venticinque anni dopo Mugabe, 80 anni, è ancora lì -nel 2002 ha vinto (per la prima volta?) le elezioni, contestate dall’opposizione- e le speranze di quella libertà sono state sepolte. Sei milioni di persone (su 13 milioni) sono condannate alla fame, non c’è benzina, il 35% della popolazione è sieropositiva. Poco più di quattromila farmers bianchi possedevano il 32% delle terre dello Zimbabwe. Ed erano le più fertili del Paese. Ma l’occupazione delle loro terre e la fuga dei possidenti bianchi (sono rimasti solo in cinquecento), non ha ricreato equilibri sociali. Ha aggiunto violenza a violenza. Notabili del regime si sono impossessati delle fattorie migliori, la gente rimane senza polenta e senza futuro.

Lo Zimbabwe è precipitato nell’abisso. Chiusi i giornali dissidenti, incarcerati gli oppositori (più che divisi fra di loro), repressa ogni protesta. Questa terra, bellissima e commovente, era un paradiso. Il suo sogno, il suo popolo è stato tradito.

Andrea Semplici

Dal piatto al batik

Dalla tela al piatto: è stato il mais a dare il nome ai dipinti di Weya, in Zimbabwe, dove negli anni le donne hanno affinato la tecnica “sadza”, termine che in lingua shona indica appunto la polenta di mais, base dell’alimentazione locale ma anche delle pitture su tessuto realizzate qui, almeno fino a che -negli anni 90- la siccità prolungata e la conseguente diminuzione nella produzione di mais, non ha costretto le pittrici ad abbandonare il mais (il cui prezzo era salito troppo). Libero Mondo ha da poco iniziato a importare anche da Weya, un villaggio situato in una delle “Aree comunali” del Paese, definizione asettica che, spiegano a Libero Mondo, “cerca di ingentilire un doloroso retaggio storico, quelle ‘Terre tribali fiduciali’ o ‘Riserve dei nativi’ utilizzate dai governi razzisti della Rhodesia per segregare la popolazione nera”. L’agricoltura è la principale fonte di reddito, ma spesso gli uomini cercano fortuna in città, mentre le donne restano legate -e, spesso, relegate- al villaggio. La pittura e la vendita dei prodotti all’esterno sono diventate diventate col tempo strumenti di emancipazione, almeno in parte. Dal punto di vista economico, ma non solo: i dipinti raccontano storie di vita quotidiana, miti e fiabe, ma sono stati anche usati per deridere gli uomini “ubriachi, prepotenti e fannulloni”, per dar voce ai segreti femminili, per parlare di diritti civili e parità tra i sessi.

Ogni batik (che richiede due-tre settimane di tempo per essere ultimato perché le donne non vi lavorano a tempo pieno) viene firmato sul retro e provvisto di una piccola tasca cucita, con le informazioni sulla storia rappresentata.

Potreste così imbattervi in più semplici scene di vita di villaggio oppure in vere e proprie storie, articolate in più scene, come quella di “Una ragazza cresciuta senza seno” o quella della “Vedova Mazana e l’agricoltore Jangano”.

Negli ultimi anni la tradizione si stava perdendo, anche in questo caso, come per le statue di Tengenenge, per difficoltà nella commercializzazione: su duecento donne-artiste, erano soltanto una ventina a mantenere in vita l’attività. Per questo, spiega Emanuele Giordana, anche un ordine “piccolo” come quello di Libero Mondo (un’ottantina di dipinti) può dare una prospettiva: “Anche qui l’obiettivo è quello della continuità nell’importazione. Non è soltanto un un discorso economico, ma anche di sopravvivenza di una tradizione artistica che altrimenti rischierebbe di morire”.

Da Bra al mondo

Libero Mondo punta sull’Africa. La centrale d’importazione di Bra (Cuneo) ha già da tempo progetti in America Latina e Asia e sta ora cercando di ampliare il numero di produttori da Paesi poco gettonati anche dallo stesso commercio equo. Per questo ha iniziato a importare da Tanzania, Kenya, Ghana, Sudafrica, Senegal e Zimbabwe (con 8 progetti attivi soltanto da questo Paese). Con maggiori difficoltà oggettive: importare dall’Africa significa dover corrispondere al produttore un prefinanziamento che in alcuni casi arriva anche al 90-100%, le comunicazioni sono più difficili (i produttori spesso non hanno computer e, in alcuni casi, neppure il telefono) e più alti i costi per il trasporto:

“Il solo noleggio del container -dice Emanuele Giordana- se in America Latina

ci costa tra i 1.800 e i 2.200 euro,

in Africa può arrivare anche a 4.400, come in Zimbabwe che non ha sbocchi sul mare”.

Libero Mondo ha 66 progetti attivi, e dovrebbe chiudere il 2005 con un fatturato di 3,4 milioni di euro, quasi tutto da vendite all’ingrosso e in parte grazie alle due botteghe di proprietà a Carmagnola e a Bra. La centrale è una cooperativa sociale di tipo B (si occupa quindi dell’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati) e ha 34 soci lavoratori (di cui 11 svantaggiati).
www.liberomondo.org

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