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Esteri

Una bussola nella tempesta

Per comprendere la portata della crisi economica e finanziaria, e affrontarla in modo adeguato, è importante capire il ruolo della istituzioni internazionali. Per superarla, Susan George propone forme innovative di tassazione e l’eliminazione dei paradisi fiscali

Tratto da Altreconomia 99 — Novembre 2008

Nei tuoi interventi, spesso, citi il Trattato di Lisbona. Dovrebbe entrare in vigore dal 1° gennaio 2009, dopo la ratifica da parte dei 27 Paesi dell’Ue, e modificare i due principali trattati dell’Unione europea: il trattato sull’Ue e quello che istituisce la Comunità europea. Tu lo ritieni molto pericoloso. Ce ne spieghi il motivo?
Il Trattato di Lisbona è uno dei documenti più neo-liberisti che siano mai stati scritti nella storia europea. Da un lato fornisce un enorme potere alle banche centrali, che hanno solo il vincolo di contenere l’inflazione, e dall’altro non si preoccupa di garantire e tutelare i diritti dei lavoratori, già posti sotto attacco da alcune recenti sentenze della Corte di Giustizia europea. Inoltre il Trattato è del tutto simile a quello conosciuto come Costituzione europea, già rigettato nei mesi scorsi e che ora si vuole far rientrare dalla finestra tramite un’abile operazione di “cosmesi” da parte delle istituzioni comunitarie. Ritengo indispensabile che ci si opponga con forza a questo nuovo tentativo di far prevalere gli interessi economici delle élite, per altro in un momento di grande sofferenza dell’ideologia neo-liberista. Sconfiggere il Trattato di Lisbona significa evitare che i cittadini europei vengano ingannati da un processo che non li rende partecipi e che anzi tende ad escluderli. Non a caso in molti Paesi dell’Unione in pochi sanno dell’esistenza di questo strumento normativo, e l’Italia mi sembra essere fra quelli dove la popolazione locale è molto poco informata in proposito.

Si parla e scrive molto, invece, della crisi finanziaria globale. Ma davvero non si poteva fare nulla per evitarla?
In un’economia così finanziarizzata, dove private equity e hedge fund la fanno da padrone e si registra l’anomalia che le società di rating vengono pagate dalle stesse compagnie che sono chiamate a giudicare, era scontato che si dovesse arrivare a questo punto. Le iniezioni di denaro delle banche centrali e i richiami a maggior trasparenza e rispetto delle regole da parte dei mercati non sono che un palliativo, intanto la crisi è destinata a durare lungo e tanti speculatori senza scrupoli ne stanno addirittura approfittando per incamerare ulteriori profitti. C’è bisogno di provvedimenti molto più radicali. Per esempio vanno introdotte delle forme innovative di tassazioni, vanno finalmente eliminati i paradisi fiscali, dove si calcola sia conservato circa un quarto della ricchezza prodotta ogni anno al mondo, e si deve contrastare in ogni modo l’elusione fiscale operata soprattutto dalle multinazionali. Con il transfer pricing, ovvero la determinazione di prezzi di trasferimento “poco consoni” relativi alle cessioni di beni e servizi tra società appartenenti al medesimo gruppo ma residenti in Paesi differenti (vedi Ae 96, ndr), le big corporation riescono spesso
a non pagare la tasse, depredando il Sud del mondo di preziose ricchezze per il suo sviluppo. Poi il futuro può e deve essere improntato su un “keynesismo ecologico”, gli Stati devono mettere a disposizione fondi a tassi di interesse contenuti per progetti ambientali. È da lì che bisogna ripartire per porre un freno a un’altra emergenza globale come il surriscaldamento del Pianeta.

La crisi colpisce anche la istituzioni internazionali. Come l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), che da anni ormai non riesce a chiudere il ciclo negoziale di Doha, quello che i Paesi del Nord definiscono “dello sviluppo” e su cui invece le realtà del Sud permangono molto scettiche. Secondo te, la Wto è destinata a scomparire?
Non credo. Penso anzi che sarà mantenuto in vita al di là del raggiungimento o meno di risultati significativi sul tavolo dei negoziati. Anche le economie emergenti come Cina, Brasile e India hanno il loro tornaconto, e per questa ragione nelle stanze ginevrine dell’istituzione proseguiranno a discutere tra alti e bassi di compromessi e litigi. Il direttore generale Pascal Lamy farà di tutto per tenere in vita l’istituzione, ben spalleggiato dai Paesi che contano. E poi il Wto serve: è la base e il paravento per coprire un po’ il panorama degli accordi bilaterali, degli Economic Partnership Agreement (Epa), anche detti Wto-plus, dove i Paesi del Nord cercano ancora di fare la voce grossa con le loro controparti del Sud.

Anche la Banca mondiale e il Fondo monetario, da decenni porta bandiera della globalizzazione liberista, negli ultimi tempi sembrano sempre più in difficoltà. Intanto, in America Latina, nasce il Banco del Sur (la Banca del Sud)…
La Banca mondiale è uscita da poco dalla fallimentare esperienza sotto la guida del paladino dei neo-con Paul Wolfowitz, forse il peggior presidente della sua storia.
Però il suo successore Robert Zoellick sta operando sul solco tracciato dall’ex sottosegretario del Pentagono, basta vedere la rinnovata attitudine della Banca a prestare per i grandi progetti infrastrutturali, che troppo spesso hanno causato solo sventure ai poveri del pianeta. Zoellick, val la pena ricordare, è stato il ministro del Commercio con l’estero della prima amministrazione Bush, ed è solo un diplomatico più abile e smaliziato.
Per quel che riguarda il Banco del Sur, penso che sia un’ottima idea, che qualsiasi realtà che vada contro il pensiero unico del Fondo e della Banca sia la benvenuta, chiaramente in attesa di verificare la bontà del suo operato. Non mi stupisce che gli americani non vogliano il Banco del Sur, visto che delegittimerebbe il Fondo monetario, già fortemente in affanno soprattutto dal punto di vista economico. D’altronde l’Fmi non presta quasi più a nessuno. Solo la Turchia e il Pakistan, due Paesi alleati degli Usa, ripagano i prestiti, e allora il direttore generale del Fondo, Dominique Strauss-Kahn, ha già dovuto tagliare lo staff del 10 per cento.

Scorrendo l’elenco delle istituzioni in gravi difficoltà non si può non citare il G8. Nel luglio del 2009 l’Italia tornerà a ospitare un vertice dei grandi del pianeta dopo l’inquietante precedente di Genova del 2001. Qual è il tuo pensiero in proposito?
Ritengo che la cosa migliore da fare sia organizzare un qualche evento dal taglio particolarmente ironico lontano dalla sede del vertice ufficiale, così da isolare il più possibile i capi di Stato e di governo che si raduneranno alla Maddalena. Una presa in giro, un po’ sulla falsariga del G8 di Rostock nel 2006, per denunciare l’inutilità e l’inefficacia di questi summit. D’altronde se si facesse uno studio accurato sugli ultimi incontri degli 8 si vedrebbe che la quasi totalità delle loro promesse, dall’emergenza ambientale alla lotta alla povertà, non è stata mantenuta, che si è perso solo tempo senza affrontare realmente i tanti problemi del Pianeta.

Parliamo del tuo ultimo libro, L’America in pugno, e di un altro argomento di stretta attualità, le elezioni presidenziali negli Usa, che si saranno già svolte quando leggerete questo numero di Ae. Leggendo il tuo testo si ha l’impressione che anche se il nuovo inquilino della Casa Bianca dovesse essere un democratico, le speranze per un cambiamento radicale negli Stati Uniti sono ben poche.
Esattamente. Nel mio libro cerco di dimostrare nella maniera più dettagliata possibile come negli ultimi 3-4 decenni negli Usa la destra neo-liberista e religiosa abbia cancellato i progressi fatti registrare dal Secondo dopoguerra fino agli anni Sessanta, quando il sogno americano non si era ancora tramutato in incubo e lo Stato sociale era una realtà concreta e che funzionava per davvero.
Purtroppo negli anni Settanta l’establishment ha iniziato una lunga controffensiva che ha avuto i suoi momenti di massimo “fulgore” con le presidenze di Ronald Reagan e di George W. Bush. Francamente ritengo che anche qualora Barack Obama dovesse vincere le cose non cambieranno tanto in meglio. Sono convinta, però, che un ticket McCain-Palin possa fare solo ulteriormente del male al mio Paese (Susan George ha la cittadinanza francese ma è nata e vissuta a lungo negli Usa, ndr).

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