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Un successo chiamato documentario – Ae 61

Numero 61, maggio 2005 Aumentano i documentari nelle sale cinematografiche. L’apparizione è fugace, ma gli appassionati crescono. Perché in giro c’è un forte bisogno di approfondimenti e di una certa dose di controinformazione Armati di fucili ed esplosivi, il 20 aprile 1999…

Tratto da Altreconomia 61 — Maggio 2005

Numero 61, maggio 2005
 
Aumentano i documentari nelle sale cinematografiche. L’apparizione è fugace, ma gli appassionati crescono. Perché in giro c’è un forte bisogno di approfondimenti e di una certa dose di controinformazione
 
Armati di fucili ed esplosivi, il 20 aprile 1999 due diciassettenni entrano nella loro scuola, la Columbine High School di Littleton, piccola cittadina del Colorado. Uccideranno 12 compagni e un insegnante, per poi togliersi la vita. Partendo da quell’episodio, il regista Michael Moore realizza un fortunatissimo e premiato documentario, nel quale si chiede quale sia la ragione che porta gli Stati Uniti ad avere il primato mondiale di omicidi con armi da fuoco.
Bowling a Columbine esce nelle sale nel 2002, e da allora il documentario in quanto genere cinematografico conosce un vero e proprio boom sia in termini produttivi che di pubblico in sala.
L’elenco dei documentari di fama internazionale uscito negli ultimi tre anni è lungo, e tiene in testa l’altra pellicola di Moore, Fahrenheit 9/11, che invece è un esplicito atto d’accusa all’amministrazione Bush.
Dietro, una sfilza di titoli più o meno conosciuti -e più o meno riusciti- che si sono fatti strada tra le grandi produzioni di fiction cinematografica. Pellicole che però solo in pochi casi sono rimaste a lungo al cinema, per approdare velocemente al noleggio e alla vendita.
L’ultimo in ordine di tempo (almeno per il pubblico italiano) è Super Size Me, nel quale il giovane regista Morgan Spurlock documenta (anche attraverso il proprio stomaco) i disastri dell’alimentazione fast food e le responsabilità di McDonald’s e simili.
Super Size Me è anche l’ultimo di una serie di pellicole che si concentrano su globalizzazione, multinazionali e consumi critici: il pubblico italiano ha già conosciuto The Corporation, di Mark Achbar, Jennifer Abbot e Joel Bakan, The Take, di Naomi Klein e Avi Lewis, Mondovino di Jonathan Nossiter.
Il prossimo autunno probabilmente vedremo L’incubo di Darwin, nel quale il regista Hupert Sauper analizza gli effetti perversi della globalizzazione attraverso il racconto del commercio di pesce persico in Tanzania. Tre su cinque sono stati portati nelle sale da Fandango (Mondovino è stato invece distribuito da Bim, e L’incubo di Darwin lo sarà dalla Mikado), casa di produzione e distribuzione attenta alla “scena” cinematografica indipendente e a temi sociali, che sta puntando più di altri sull’onda dei documentari.

Fabrizio Grosoli è responsabile dell’area documentari di Fandango. Premette: “Per la prima volta in Italia si investe sulla di-
stribuzione di documentari nelle sale cinematografiche. Da qui a fine stagione prevediamo l’uscita di una decina di titoli: da questo punto di vista ci sentiamo un po’ pionieri”. Bilanci? “È un esperimento i cui risultati vedremo solo a fine stagione, anche se bisogna tenere conto che i documentari rappresentano una forma espressiva adatta a uscite multimediali. L’uscita in sala è propedeutica alla vendita e al noleggio dei dvd, o al successo di libri legati al film”. Come si spiega questa piccola invasione di documentari al cinema? “Da un lato è un tipo di produzione che ha l’ambizione di arrivare nelle sale. Dall’altro la crescita di attenzione viene da un pubblico maturo, appassionato e competente. In giro c’è un forte bisogno di approfondimenti, e di una certa dose di controinformazione, anche se i documentari non si limitano a questo”.
E poi c’è stato Michael Moore. “Sì, per ora il fenomeno è globale, ma di importazione. Tuttavia anche in Italia si sta sviluppando una produzione indipendente, grazie anche a distributori alternativi. Rischieremo forse un sovradosaggio (è già successo con l’uscita in contemporanea di Mondovino, Deep Blue e Super Size Me), ma i grandi documentari rimarranno un numero ridotto”.
Quanto costa realizzare un documentario? “I budget delle pellicole internazionali sono paragonabili a quelli di un film di finzione a basso costo. Ma non è sempre vero. Mediamente sono tutti sotto i 500 mila euro. Piuttosto cambiano molto le modalità di produzione, e i tempi di realizzazione, spesso molto lunghi (The Take ha tenuto Naomi Klein e il marito Avi Lewi in Argentina per otto mesi, per L’incubo di Darwin il regista Hupert Sauper ha filmato per quattro anni, ndr)”.
Nonostante l’attenzione che suscitano, sono film distribuiti in un numero ridotto di copie, e per lo più spariscono velocemente dalle sale. “Super Size Me è stato distribuito in una quarantina di copie, The Corporation e The Take in una decina. Quello dei documentari è un pubblico di nicchia, specie se si considera la situzione delle sale cinematografiche italiane, deviata dall’invadenza dei multiplex (che giocano sui grandi numeri la loro politica di guadagni). Per una realtà indipendente è difficile entrare in queste logiche”.
Documè è un’associazione indipendente torinese nata due anni fa per promuovere la diffusione di documentari su tematiche sociali. Giuliano Girelli, che dell’associazione è presidente, spiega: “Il nostro progetto nasce da una considerazione: si può parlare di temi sociali attraverso il documentario, genere che in Italia era un po’ una cenerentola. Oggi in catalogo abbiamo un centinaio di titoli”. Anche a lui chiediamo perché questa rinascita: “Le persone hanno il desiderio di vedere altri punti di vista. I canali tradizionali di informazione sono chiusi: per questo è arrivata l’inchiesta cinematografica. Poi c’è anche l’esigenza di incontrarsi, a partire da certe tematiche”. Ma siamo ancora in una fase di film di importazione. “I grandi distributori che diffondo questi documentari fanno un servizio all’informazione e al cinema. Ma non fanno elemosina: per questo preferiscono sfruttare la comunicazione che le pellicole internazionali si portano dietro. Il costo della promozione di un film è più alto del costo stesso dei diritti per distribuirlo. Contare su una eco già presente, su articoli già scritti e servizi già pubblicati, facilita le cose”.
Il problema è riuscire a far vedere questi film: anche i più noti restano poco nelle sale. “Quando acquistano i diritti, i distributori pensano a tutto il pacchetto: sala, dvd, libro. Non c’è ancora nella mente del consumatore il concetto di ‘prodotto documentario’, per cui anche il marketing sperimenta”.
Continueremo a vedere proliferare documentari? “Ormai la porta è aperta, ma servono circuiti indipendenti: il nodo rimane la distribuzione. Ma anche il sistema della visione in sala va svecchiato. Oggi i cinema sono ancora come dei distributori automatici: si paga, si guarda, si esce. In futuro sarà vincente la logica dell’evento che ruota attorno a una pellicola”.
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Regista aspirante obeso
Mangiare hamburger e patatine per un mese intero, e vedere che succede. Per questo esperimento ai limiti della tortura verrà ricordato Super Size Me, il documentario che il giovane newyorkese Morgan Spurlock ha dedicato al mondo dei fast food e alle conseguenze che questo tipo di alimentazione ha sulla salute pubblica. Ma l’accusa -chiara e documentata: anche in questo caso al film è seguito un libro, a breve pubblicato in Italia-  è rivolta alle grandi catene (McDonald’s su tutte) e alle loro aggressive (e talvolta menzoniere) politiche di marketing. Ironico ed esplicito, il lavoro ha avuto successo anche in Italia.
www.supersizeme.com
 
Le fabbriche “prese” dai lavoratori
Occupare. Resistere. Produrre. Nel 2001, la decennale politica ultra liberista dell’ex presidente Carlos Menem fa piombare l’Argentina -uno dei Paesi più ricchi dell’America Latina- nella povertà. I conti correnti bancari vengo chiusi, i capitali espatriano, le fabbriche chiudono, manca addirittura il cibo: scoppia la rivolta popolare. È a questo punto che gruppi di operai occupano le fabbriche dove hanno lavorato per anni, e nonostante i tentativi di sgombero riavviano la produzione. Parte da qui il documentario di Avi Lewis e Naomi Klein: otto mesi in Argentina per seguire le alterne vicende di una serie di fabbriche “prese” dai lavoratori, gestite in forma cooperativistica e divenute simbolo della rinascita e della speranza.
www.thetake.org
 
Multinazionali dallo psichiatra
Tratto -o per meglio dire realizzato in contemporanea- dal libro omonino di Joel Bakan, professore di diritto alla University of British Columbia, The Corporation è un’inchiesta che invita capi e dirigenti d’azienda, teorici e studiosi di economia, investitori e operatori di Borsa, esponenti della comunità economica finanziaria e semplici attivisti (tra tutti Noam Chomsky, Michael Moore, Naomi Klein, Vandana Shiva) a discutere sui meccanismi interni, la storia e il possibile futuro delle grandi multinazionali. Come se studiasse quello di un essere umano, il documentario analizza il comportamento delle corporation con i criteri diagnostici tipici della psichiatria. La conclusione: la ricerca del profitto e del potere è patologica, tanto da spingere a comportamenti antisociali e illegali.
www.thecorporation.com
 
Documè: bastano una sala e un proiettore
Un circuito nazionale (e indipendente) per la proiezione stabile di documentari. Ecco l’ambizione di Documè, associazione torinese nata nel gennaio 2003 “con lo scopo di contribuire alla diffuzione della cultura del documentario di carattere etico, sociale ed educativo”.
Dal luglio 2003 Documè organizza rassegne e proiezioni a Torino e in tutta Italia, proponendo opere di registi indipendenti. Entro luglio 2005 l’obiettivo è raggiungere le mille proiezioni, in spazi che non siano necessariamente cinema. Ogni gruppo o organizzazione che abbia a disposizione una sala e un proiettore può entrare a far parte del circuito di Documè, versando una quota sociale annuale e scegliendo tra i novanta titoli che ci sono in catalogo. Altre info:
www.docume.org !!pagebreak!!
 
Partire dalla distribuzione per stravolgere il sistema
 
Naomi Klein e Avi Lewis sono gli autori del documentario The Take (vedi box a destra), centrato sull’occupazione delle fabbriche argentine dopo la crisi del 2001. In un affollato incontro pubblico di presentazione del film -organizzato da Altreconomia all’interno della fiera “Fa’ la cosa giusta!” il 19 marzo scorso- abbiamo chiesto loro anche di parlare del problema della distribuzione di prodotti di informazione alternativa come il loro.
Ecco cosa ci hanno risposto.

Avi Lewis: Discutendo del problema della distribuzione, in uno dei suoi momenti di magnifica lucidità Naomi ha detto che non dobbiamo impossessarci dei mezzi di produzione, ma dobbiamo impossessarci dei mezzi di distribuzione. Il mio suggerimento è che Michael Moore compri una casa di distribuzione e la regali alla gente del mondo. Al momento però non risponde alle mie e-mail… Riguardo la distribuzione del nostro film, abbiamo messo in atto due strategie: una deriva dal fatto che io sono stato per tanti anni un conduttore televisivo in Canada e quindi ho una serie di legami con le reti pubbliche canadesi (che devo dire sono molto più indipendenti di quelle italiane).
La seconda strategia era finalizata a raggiungere più pubblico possibile. Anche un pubblico meno “consapevole” o con idee meno precise. Questo lo abbiamo fatto attraverso canali distributivi tradizionali, ovvero presentando il film in occasione di diversi festival, approfittando di passaggi sulle televisioni pubbliche in Canada, e attraverso distributori che -come la Fandango- hanno avuto il coraggio di fare uscire il film in sala. Questo per far sì che certe idee “radicali” potessero raggiungere anche un pubblico che non le conosce.
Ma abbiamo proceduto anche su due binari paralleli, indirizzandoci a due pubblici diversi. Ogni volta che la distribuzione è passata attraverso un'uscita commerciale ci siamo preoccupati di lanciare il film nelle città anche prendendo contatto con movimenti locali di attivisti.
A Milano il film è uscito con una settimana di ritardo proprio perché siamo riusciti a convincere la Fandango a mostrare in anteprima il nostro film in una serata al centro sociale Il Cantiere di Milano.
Il nostro approccio consiste proprio nell’utilizzare da un lato gli spazi main stream tradizionali cui possiamo avere accesso, legandoli però alla scena locale di attivismo.
Naomi Klein: assistiamo a una rinascita del documentario nelle sale cinematografiche. Per fare degli esempi che sono noti anche in italia pensiamo a dei documentari come The Corporation o Fahrenheit 9/11.
La gente va nelle sale cinematografiche per vedere documentari.
Credo che questa rinascita sia direttamente legata all’incapacità dei mezzi di comunicazione tradizionali -e in particolare alla tv- di soddisfare l’esigenza che ognuno di noi ha sull’approfondimento delle notizie. Ognuno di noi ha voglia di sapere cosa accade nel mondo, ma la televisione non è più in grado di fare approfondimenti su quello che succede. C’è anche il desiderio da parte della gente di riunirsi, di stare insieme. Quindi un film può essere uno strumento, un punto di partenza, per fare qualcosa insieme. Il Paese (tra quelli definiti “democratici”) dove forse i mezzi di comunicazione tradizionali sono peggiori sono proprio gli Stati Uniti. Non solo io, ma gente del calibro di Noam Chomsky non hanno accesso ai mezzi di comunicazione statunitensi. Più aumenta questa forma di censura da parte delle corporation che controllano le reti televisive, più è utile studiare canali alternativi per diffondere le informazioni.
Sta nascendo un desiderio di collaborazione molto interessante tra coloro che producono cultura e gli attivisti, che si muovono su un terreno diverso. Una cosa del genere è accaduta durante le ultime elezioni negli Usa, quando una organizzazione (Move On, associata al partito Democratico) ha puntato sulla distribuzione e uscita di film e libri, utilizzando la sua rete per lanciare questi prodotti. Abbiamo anche capito che se vogliamo che questi film e libri diventino degli strumenti politici devono avere una fruzione non in solitudine ma condivisa, perché poi ci si possa parlare, ci si possa confrontare.
Un esempio di questo tipo di distribuzione è rappresentato dal film Unprecedented di Robert Greenwald (il documentario, uscito a ottobre 2004, prende in esame le elezioni presidenziali americane del 2000, svelando come a molti elettori sia stato negato il voto per clamorosi scambi di persona, ndr). Quello che hanno fatto è stato utilizzare una particolare tecnologia (chiamata “meet-up”) per consentire alle persone di riunirsi per vedere il film. Hanno poi venduto i dvd singoli a una cifra molto bassa (8 dollari) e simultaneamente hanno distribuito il filmato a 600 tra locali pubblici e bar, per consentire una visone collettiva. Visione cui di solito seguiva un dibattito o incontro. L’obiettivo era sconfiggere Bush: non è stato raggiunto ma non per questo il metodo non è valido. Anzi: sono stati venduti 100 mila dvd, bypassando totalmente tutti i canali distributivi tradizionali, come negozi e cinema. E invertendo anche la classica procedura distributiva, perché a quel punto gli esercenti delle sale cinematografiche si sono interessati al film e hanno chiesto di poterlo proiettare in sala. Anzichè il passaggio dal cinema al dvd si è stravolta e invertita la regola.

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