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“Un poliziotto disarmato è un altro poliziotto”

Se la polizia diventa il braccio armato del potere a soffrirne è la coscienza democratica. In tempi di “Decreto sicurezza” è utile rileggere Pasolini. La rubrica di Lorenzo Guadagnucci
Pier Paolo Pasolini, in un inascoltato intervento uscito sulla rivista Tempo nel 1968, all’indomani dell’eccidio di Avola (SR) in cui due braccianti rimasero uccisi e 48 feriti da parte delle forze dell’ordine durante una manifestazione sindacale, propose una prima riforma della polizia: disarmarla. “Un poliziotto disarmato è un altro poliziotto -argomentava-. Crollerebbe di colpo, in lui, il fondamento della ‘falsa idea di sé’ che il potere gli ha dato, addestrandolo come un automa”.
Fa impressione confrontare il testo di Pasolini, citato da Michele Di Giorgio nel suo libro “Il braccio armato del potere” (Nottetempo, 2024), con i contenuti del decreto legge sulla sicurezza varato dal Governo Meloni all’inizio di aprile con un colpo di mano (la decretazione d’urgenza in palese assenza di urgenze). Con le nuove disposizioni il governo si è mosso con l’intento di compiacere i corpi di polizia, arrivando a far addirittura intravedere un “diritto penale dell’amico”, cioè norme di protezione da possibili conseguenze giudiziarie per le proprie condotte, uno “scudo penale”, nella semplificazione giornalistica.
Queste non sono state incluse nel testo, ma il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha confermato che saranno oggetto di un futuro provvedimento ad hoc. Intanto, il decreto contiene norme di chiaro stampo repressivo e di speciale protezione delle forze dell’ordine, con inasprimenti di pena e specifiche aggravanti in caso di resistenza a pubblico ufficiale durante le manifestazioni; con la previsione di un’automatica assistenza legale, fino a diecimila euro per ogni grado di giudizio, per gli agenti che finiscono sotto processo (niente del genere esiste per altri dipendenti pubblici); con la licenza di agire come “agenti provocatori”, e non solo come “infiltrati”, nelle inchieste riguardanti (per ora) fatti di terrorismo; con la facoltà -povero Pasolini- di portare, senza licenza, un’arma diversa da quella di ordinanza nelle ore fuori servizio.
Infine, quasi una beffa, ecco l’uso di telecamere sui caschi, in sostituzione, e non in aggiunta, dei codici di riconoscimento sulle divise, una misura di civiltà richiesta infinite volte nelle più diverse sedi ma sempre avversata dalle polizie italiane, inspiegabilmente convinte che ogni misura di garanzia, come appunto i codici sulle divise, sia un attentato alla propria integrità morale, alla propria reputazione.
Sono 245.093 gli appartenenti alle forze dell’ordine italiane (stima per il 2024 dell’Osservatorio Conti pubblici italiani). Secondo il ministero dell’Interno erano in servizio nel 2024 415 agenti ogni centomila abitanti, più della media Ue e più di Paesi come Germania, Spagna, Francia
Tutto questo avviene in un Paese nel quale le forze dell’ordine, per limitarci agli ultimi 50 anni, hanno prima promosso (un gruppo di agenti illuminati e coraggiosi, in relazione attiva con una società civile matura) la riforma che portò alla smilitarizzazione della polizia di Stato nel 1981, poi affossato (gli apparati, i vertici, i sindacati interni) la stessa riforma e infine dato prova, nel luglio 2001 al G8 di Genova e negli anni seguenti, di non essere capaci di affrontare in modo adeguato le conseguenze dei propri errori e degli abusi -anche gravissimi- compiuti da centinaia di agenti.
Nel Paese di Carlo Giuliani ucciso in piazza, delle torture nelle caserme e del processo per le violenze e i falsi alla scuola Diaz “impunemente ostacolato” dai vertici di polizia (parole della Corte europea per i diritti umani), si fa un decreto non per allargare il campo della trasparenza e della coscienza democratica e costituzionale, ma per continuare a instillare in chi lavora nelle polizie una “falsa idea di sé”, utile a chi considera le forze dell’ordine nient’altro che un “braccio armato del potere”, come se la Costituzione del 1948 non fosse mai esistita.
Lorenzo Guadagnucci è giornalista del “Quotidiano Nazionale”. Per Altreconomia ha scritto, tra gli altri, i libri “Noi della Diaz”, “Parole sporche” e “Un’altra memoria”
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