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Un po’ a lato del mostro – Ae 67

Sono l’avanguardia del media-attivismo mondiale ma la loro sede a Vancouver, in Canada, è una semplice casetta in legno a due piani. Qui i giornalisti e i creativi di Adbusters partoriscono anti-pubblicità e campagne, dal Buy Nothing Day alle scarpe…

Tratto da Altreconomia 67 — Dicembre 2005

Sono l’avanguardia del media-attivismo mondiale ma la loro sede a Vancouver, in Canada, è una semplice casetta in legno a due piani. Qui i giornalisti e i creativi di Adbusters partoriscono anti-pubblicità e campagne, dal Buy Nothing Day alle scarpe no-logo

La sede della Adbusters media fundation (www.adbusters.org) , avanguardia creativa del media-attivismo mondiale, è immersa nel silenzio. Ci metto un po’ a trovare il 1243 della West 7th Avenue, a Vancouver, Canada. Nella mia immaginazione il gruppo di Adbusters, corazzata anti-consumistica di giornalisti e creativi, spina mediatica nel fianco delle multinazionali, avrebbe meritato un ufficio nel centro economico-finanziario, al ventesimo piano di qualche grattacielo. E invece mi ritrovo davanti ad un’anonima casetta a due piani in legno, persa nella pacifica monotonia di uno sterminato quartiere di casette in legno. A due passi da qui, l’Oceano Pacifico e la colorata Grandville Island, l’isola degli artisti di Vancouver.

L’Adbusters media fundation, nata nel 1989, è diventata un mito tra gli attivisti mediatici soprattutto grazie all’uso geniale del cosiddetto “subvertising” (il ribaltamento dell’advertising, cioè della pubblicità), di cui vedete qualche esempio in queste pagine: immagini o spot televisivi che -con lo stesso linguaggio della pubblicità- catturano l’attenzione del pubblico, per farlo sbalordire di fronte alla falsità di certi slogan commerciali. Catene di fast-food, produttori di superalcolici, multinazionali del tabacco: tutti inchiodati spietatamente alle proprie responsabilità da 30 secondi di video.

Fuori dalla villetta di legno, due biciclette appoggiate ad una balaustra e, piantata nell’aiuola, la targa in vetro della fondazione. Dentro, alcuni volontari impegnati a catalogare riviste e impacchettare materiale. La redazione è al lavoro. Sulle pareti, le copertine di Adbusters magazine, rivista manifesto della media fundation. Sopra le scrivanie, puzzle di cartoline e ritagli di giornali. Un poster-caricatura del presidente per antonomasia -G.W. Bush- sovrasta l’americanissima boccia dell’acqua. L’America è vicina e lontana a un tempo. Vancouver è città di confine: 50 chilometri più a Sud si agita Seattle. E non ti meravigli che una realtà come Adbusters, fucina della critica più elaborata al sistema consumistico in primo luogo statunitense, sia nata proprio qui. Il Canada è Nord-America, vive di un sistema fatto di bombardamenti pubblicitari, eccessi consumistici, mall (i giganteschi centri commerciali grandi come quartieri). Ma allo tempo stesso, dal suo primo vagito, il Canada è il Nord-America alternativo agli Usa: nasce nell’800, come rifugio dei coloni francesi e inglesi leali alla Corona britannica, cacciati a Nord dai giovani rivoluzionari degli Stati Uniti. E oggi il Paese fa scelte politiche vicine all’Europa e lontane dagli Usa: ad esempio rafforza un sistema sanitario gratuito per tutti; incentiva l’assistenza sociale (sussidi per gli immigrati, contributi per i figli fino al diciottesimo anno d’età). Nei giorni in cui sono lì, intercetto un segno della cultura democratica canadese: l’oceanico sciopero degli insegnanti dello stato della British Columbia di cui Vancouver è capitale. Per 16 giorni, 42 mila insegnanti incrociano le braccia, lasciando a casa 600 mila studenti. Protestano per il licenziamento di 2.600 insegnanti di supporto, conquistando le prime pagine dei giornali e la simpatia dell’opinione pubblica.

C’è un altro motivo per cui Adbusters non poteva che nascere oltreconfine: il Canada è per natura un “incubatore di idee” e un crogiuolo di culture, forse più degli Stati Uniti, con 32 milioni di abitanti, di cui la metà arrivati negli ultimi 50 anni. Lo stesso fondatore di Adbusters, Kalle Lasn, è il classico canadese moderno: nato in Estonia, emigrato in Australia, sposato con una giapponese, da trent’anni cittadino della terra degli aceri. “Noi siamo un po’ a lato del mostro -ha spiegato il canadese Lasn in un’intervista-; allora guardiamo giù e diciamo: ehi, in America sta capitando qualcosa di pazzesco”.

Nicholas Klassen, è senior editor di Adbusters magazine, bimestrale che rappresenta il primo prodotto della media fundation: ci lavorano quattro redattori e diversi free-lance. Sull’ultimo numero della rivista, anche un servizio dedicato a San Precario, icona mediatica inventata da creativi centri sociali italiani per denunciare la carenza di diritti dei lavoratori non assunti. “Cerchiamo di fare un giornale internazionale -mi spiega Nicholas-. Ma è chiaro che ci rivolgiamo soprattutto al pubblico Usa: vendiamo 120 mila copie per numero, di cui il 70% finisce negli Stati Uniti. In effetti, siamo una specie di ‘Voice of America’ al contrario. Cerchiamo di fornire contenuti di critica al sistema” (Voice of America, network radiotelevisivo fondato nel 1942 dal governo statunitense, trasmette in tutto il mondo a un’audience di 100 milioni di pesone). Continua Nicholas: “Negli Usa c’è Bush, ma c’è anche un sacco di gente che cerca un’altra prospettiva, e non sono solo i Democratici. Americani che vogliono usare i trasporti pubblici, avere un’assistenza sanitaria garantita e gratuita… esiste una cultura che cerchiamo di incoraggiare. Ma quello che ci interessa in realtà non è una proposta politica in senso stretto; Adbusters non può dire: ‘votate i Verdi’, ma cerca di indicare la via di una possibile alternativa allo stile di vita attuale. Noi parliamo di ‘Media democracy’ (vedi box), di ‘True cost economy’ (economia dei costi reali, ndr). Volere una ‘True cost economy’ significa aver capito che abbiamo bisogno di nuovi paradigmi economici meno distruttivi. Quando i potenti del G8 si incontrano, dicono che è stato un buon anno per l’economia se è cresciuto il Prodotto interno lordo (Pil): ma se uno ha avuto il cancro, il Pil cresce perché ha dovuto comprare le medicine… se si vendono automobili cresce il Pil, ma cresce anche l’inquinamento. Se c’è una guerra, il Pil cresce perché si vendono gli armamenti. È urgente ripensare il Pil modulandolo sulle cose davvero importanti: quanto siamo felici? Il nostro stato di salute è migliorato o no? Qual è la qualità del nostro tempo libero?”

Nella redazione di Adbusters 15 persone lavorano per organizzare le campagne di attivismo mediatico: la recentissima “Two minutes of silence”, l’11 novembre, ideata per far ricordare, con due minuti di silenzio, che il terrorismo internazionale ha cause e motivi complessi; lo storico “Buy nothing day”, giornata del non acquisto di fine novembre, celebrata in 65 Paesi di tutto il mondo; e la “Tv turn-off week”, settimana di disintossicazione dalla televisione, grande ammaliatrice capace di trasformare gli esseri umani in prodotti. L’ultima frontiera di Adbusters è la produzione di scarpe “etiche”, le cosiddette Blackspot, le scarpe no-logo: “Volevamo dimostrare che è possibile realizzare un prodotto e guadagnarci -spiega Sharon Cohen, responsabile del ciclo produttivo delle scarpe- senza sfruttare i lavoratori e inquinare l’ambiente. Ma noi siamo editori e non industriali delle scarpe. Così, per prudenza, abbiamo voluto tempi lunghi di produzione: nel 2003, avuta l’idea, per capire se qualcuno avrebbe mai comprato le scarpe abbiamo fatto un sito dove era possibile prenotarle. In sei mesi abbiamo avuto 5 mila prenotazioni. La cosa più difficile è stata trovare una fabbrica che producesse con delle garanzie per i lavoraori; alla fine l’abbiamo trovata in Portogallo, nella regione di Felgueiras, e così nel 2004 abbiamo iniziato la produzione del primo modello, le sneacker: ne abbiamo vendute 10 mila paia da agosto 2004 ad oggi. Mentre del secondo modello, la scarpa alta, in sei mesi ne abbiamo vendute 2 mila paia”.

Cinque le regole d’oro con cui si producono le scarpe Adbusters: “Sono scarpe contro lo sfruttamento del lavoro -spiega Sharon-; sono anti-Nike e anti-logo perché sono una critica concreta alle multinazionali; sono scarpe pro-ambiente, perché usiamo solo materiale ecologico; e sono per un capitalismo partecipato, perché i nostri acquirenti entrano nel processo decisionale  anti-logo”.

Giornali e tv in Canada? Concentrazioni no-limits

Concentrazione dei media nelle mani di pochi? Indipendenza della stampa? Sorridete, non è un problema solo italiano. Nella città di Vancouver, dove è nata e opera Adbusters, i due maggiori quotidiani, “The province” e “The Vancouver sun” (che assieme vendono il 90% delle copie a pagamento) appartengono allo stesso gruppo, la Canwest, colosso che nel Paese possiede 11 quotidiani, 7 free-press, più di 20 settimanali e uno dei maggiori network televisivi nazionali, Global-tv. La legge limita la presenza delle multinazionali straniere nell’informazione. Ma non il numero di media acquisibili da società nazionali. Così in Canada l’84% del mercato delle news è in mano a cinque grandi gruppi: Canwest, Bell Canada, Quebecor, Rogers Communications, Shaw Communications. Anche per questo, nel 2001, qui è nato il “Media democracy day”, giornata in cui denunciare la fragilità della libertà di stampa nel Paese. A Vancouver la novità dell’edizione 2005, celebrata il 22 ottobre, è stato il primo free-press della “media-revolution”: “The Vancouver star” (parodia di “The Vancouver sun” di Canwest), guizzo creativo di Adbusters: quattro pagine sul monopolio dei media canadesi, stampate in migliaia di copie e distribuite a pacchi a volontari ed attivisti. I quali ne hanno infilati a mazzi nei distributori a moneta di quotidiani della città.

Quando i blackspotters crescono in rete

Chi compra, vota davvero. Almeno chi compra le Blackspot di Adbusters e può godere di un accesso ad internet. Infatti,  con le scarpe anti-logo ottieni un personale “Certificato di azionista”: una password che ti premette di entrare nell’area riservata del sito di Adbusters e dire ciò che pensi del progetto: “È un modo per coinvolgere nell’impresa economica chi acquista -spiega Sharon Choen, responsabile del ciclo di produzione Blackspot-, partecipazione contro il ruolo passivo del consumatore”. Funziona?

A luglio si erano espressi su  alcuni quesiti posti da Adbusters circa 800 blackspotters di tutto il mondo, il 10% dei possessori di scarpe no-logo. Primo quesito: come reinvestire i profitti arrivati dalla vendita? La maggioranza (489) dice “produrre nuove scarpe”; altri (297) supportare i negozianti che vendono Blackspot; i rimanenti, costituire un fondo per campagne mediatiche. E Adbusters assicura che seguirà le indicazioni. La pagina è una grande bacheca; Julian di Londra chiede aiuto: “Le mie scarpe sono misura 8 ma sono troppo grandi. Chi ha un paio 7 da scambiare?”. Voyager680 scrive: “Suggerirei di coinvolgere anche i lavoratori che fanno le scarpe nel voto, che ne pensate?”. Decine di consensi.

Tra i Blackspotters italiani che visitano il sito, Alessandro Giust, titolare del negozio “Al villaggio” di San Giuliano Milanese, primo importatore italiano delle scarpe no-logo: “Ho letto del progetto delle scarpe sul numero di Altreconomia di novembre 2003 -ricorda-. Così ho subito scritto ad Adbusters. Ho iniziato a venderle nel 2005. Ne ho prese 38 paia e sono andate bene, anche se non le ho vendute tutte. Forse costano un po’ troppo…”.

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