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Diritti

Un Paese in crisi di democrazia

Il governo dei tecnici e l’alta percentuale di astensione alle ultime amministrative sono sintomi di una “democrazia rappresentativa” che rischia di afflosciarsi, dopo aver annullato la voglia di “partecipazione” _ _ _
 

Tratto da Altreconomia 139 — Giugno 2012

La democrazia rappresentativa ha bisogno vitale di partecipazione, visto che la sovranità delle varie istituzioni è esercitata “in nome del popolo”. Se quest’ultimo si assottiglia troppo, se smette di dare linfa a partiti politici e sindacati, se larghe fasce di popolazione smettono di presentarsi alle urne al momento del voto, ecco che la democrazia rischia di afflosciarsi. Una crisi di partecipazione è in corso da tempo in molti Paesi e si intreccia con la perdita di sovranità reale delle istituzioni elettive, a vantaggio di organismi sovranazionali e di poteri extra-politici come le grandi corporation e il sistema finanziario globalizzato. Letti sotto questa luce, i dati emersi dalle recenti elezioni amministrative in Italia segnalano un’accelerazione del declino. L’affluenza al voto, che è un indicatore parziale ma significativo della complessiva partecipazione democratica, è ulteriormente calata rispetto al 2007, confermando una tendenza in atto da almeno un ventennio, in un Paese storicamente caratterizzato da tassi di partecipazione piuttosto alti. Il 6-7 maggio nei Comuni capoluogo andati alle urne ha votato il 66,9% dei cittadini con diritto di voto, con una flessione del 6,8% rispetto al 2007. Un terzo degli elettori è quindi rimasto a casa, sommandosi a quei cittadini-non elettori che sono esclusi dal voto per ragioni politiche, cioè gli stranieri residenti (un altro segnale di precaria salute della nostra democrazia).
Nei commenti post elettorali si è sbrigativamente deprecato il calo di affluenza alle urne, per poi lanciarsi in dettagliate analisi dei risultati sulla base delle percentuali ottenute da candidati, coalizioni e partiti, calcolate sul numero degli elettori che hanno esercitato il diritto di voto. Ma queste valutazioni valgono poco, e poco ci dicono sullo stato di salute delle istituzioni elettive. Se pensiamo al numero di persone che sono andate al seggio in città popolose e importanti per la tradizione democratica del nostro paese, come Genova (55,6% di affluenza) e Palermo (63,2%) o come Pistoia e Lucca, rispettivamente 57,5 e 55,9%. E se guardiamo ai risultati effettivi, cioè ai voti assoluti in rapporto agli elettori potenziali, anche le affermazioni di candidati e partiti danno parecchio da pensare. A Genova Marco Doria ha avuto al primo turno circa 127mila voti, il 48,3% secondo le percentuali ufficiali (calcolate sui voti validi espressi), ma solo il 25,3% se la comparazione è fatta sul numero dei cittadini con diritto di voto. Nella stessa città, le due liste più votate -Pd e Movimento 5 stelle- hanno avuto rispettivamente il 10,9% e il 6,5% dei suffragi reali (23,9 e 14,1 secondo i calcoli tradizionali). A Palermo Leoluca Orlando ha avuto al primo turno il consenso reale del 18,7% degli elettori, lo sfidante Ferrandelli il 6,8%. A Verona il sindaco uscente Flavio Tosi è stato confermato al primo turno con una percentuale reale del 38,3% (l’affluenza ha sfiorato il 70%); a Pistoia Samuele Bertinelli è stato eletto con il 31,7%.
Se analizziamo il risultato delle liste presentate dai maggiori partiti nazionali, il quadro è più chiaro: ad esempio il Pd si ferma al 16,9% effettivo a Pistoia (il 33% secondo i calcoli ufficiali, in una città dove il Pci superava la metà dei voti validi quando l’affluenza superava l’80%); il Pdl arriva al 9,8% (19,5% ufficiale) a Monza, città governata dal centrodestra tra il 2007 e il 2012. A fronte di questi dati, è necessario domandarsi che cos’è oggi la “democrazia rappresentativa”. E quanto sarà legittimato un Parlamento eletto (nel 2013) sulla base di un’affluenza simile a quella registrata a Genova, Lucca e Pistoia (fra il 55 e il 60%). Il dubbio è che la crisi di partecipazione -elettorale e non solo- stia consumando le istituzioni democratiche, e non c’è alcuno sforzo per rivitalizzarle o reinventarle, secondo una logica di maggiore distribuzione dei poteri e di riavvicinamento dei cittadini alla “cosa pubblica”. Gli interpreti attuali della politica nazionale sembrano indifferenti a queste considerazioni, ma il rischio che incombe è il consolidamento di una pseudo-democrazia che fa a meno della partecipazione reale dei cittadini. Non ne godrebbero certamente i diritti civili, le libertà, la giustizia sociale, che hanno bisogno per affermarsi di una mobilitazione permanente, di un’elaborazione continua. Nel frattempo si prolunga la permanenza dei cosiddetti tecnici (tutt’altro che imparziali) al governo: guidati da un economista come presidente del consiglio, ci sono un generale alla Difesa, un banchiere allo Sviluppo economico, un prefetto agli Interni, un diplomatico di carriera agli Esteri, cui si è aggiunto un poliziotto di rango (dalla carriera discussa) come sottosegretario agli apparati di sicurezza. In un’epoca di così grave difficoltà sociale, non ci sono buone notizie per lo stato di salute della democrazia italiana.—

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