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Un mosaico in frantumi la verità di Genova – Ae 20

Numero 20, settembre 2001È incredibile quante cose accadono contemporaneamente, anche in un luogo ristretto, come una piazza, e in un tempo limitato. Stiamo tentando di ricostruire la sequenza esatta di quello che è avvenuto a Genova nella settimana dal 16…

Tratto da Altreconomia 20 — Luglio/Agosto 2001

Numero 20, settembre 2001

È incredibile quante cose accadono contemporaneamente, anche in un luogo ristretto, come una piazza, e in un tempo limitato.

Stiamo tentando di ricostruire la sequenza esatta di quello che è avvenuto a Genova nella settimana dal 16 al 22 luglio. Forse ci faremo un libro. Ma intanto la conclusione, la certezza è che non c'è una sola causa per spiegare quel che è avvenuto: non basta il materializzarsi improvviso dei black bloc, non basta una città messa a ferro e fuoco (ma anche qui, è corretta questa immagine che tutti conserviamo nella memoria? I danni, come vedremo più avanti, non sono stati così rilevanti come si è scritto). Non bastano neanche l'impreparazione e gli errori delle forze di polizia, così come stanno emergendo nelle audizioni della commissione d'indagine parlamentare.

La verità è un mosaico in frantumi. Ecco quel che conosciamo.

Il piano di assedio
Intanto i black. Sono loro a trasformare la giornata di venerdì da un assedio virtuale a una guerriglia urbana fin troppo reale. Le tute bianche sono ancora al Carlini, le piazze tematiche sembrano un successo e un po' dopo mezzogiorno loro si materializzano e cambiano per sempre lo scenario della giornata. Come sarebbero andate le cose senza i black? Forse la giornata avrebbe vissuto di slogan, grandi assedi pacifici alla zona rossa, piccoli episodi di spingi-spingi tra manifestanti e forze dell'ordine a uso dei mass media, qualche carica e qualche scontro (già venerdì mattina fra i giornalisti che sono a Genova si vocifera di un accordo con la polizia per una violazione virtuale e senza conseguenze della zona rossa).

Con i black in piazza salta tutto. La responsabilità del Genoa Social Forum in questo caso è di averne ignorato la presenza fino all'ultimo e sottovalutato la volontà distruttiva. Così, inconsapevolmente si è preparato il “terreno da gioco” per i black.

Basta rivedere il piano dell'assedio alla zona rossa così come viene presentato in una affollata conferenza stampa mercoledì dal “comitato dei portavoce del Gsf”. È previsto che i vari gruppi di assedianti partano da diversi punti della città, e convergano poi tutti verso la zona rossa. I Cub da ponente; Attac Italia, Arci, l'Unione degli studenti e universitari da piazza Carignano; Attac internazionale e gli altri stranieri da piazzale Kennedy; i “disobbedienti” di centri sociali, Ya Basta! e tute bianche dallo stadio Carlini; gli “inflessibili” dei Cobas e del Network per i diritti globali, da piazza Paolo Da Novi. Infine Lilliput, Rete contro G8, Marcia delle donne, Legambiente e i “Gruppi di affinità per azioni dirette non violente” si ritrovano attorno a piazza Manin. L'immagine più ricorrente è quella dell'assedio. Ma molti parlano anche di assalto al fortino blindato e di violazione.

Raffaella Bolini chiarisce qual è l'accordo minimo raggiunto all'interno del Gsf: “Non attaccheremo le persone, neanche quelle in divisa, non useremo nessuno strumento atto ad offendere ed è lecito, se qualcuno lo desidera, proteggere il proprio corpo da aggressioni esterne”.

Tutto come se i black non esistessero e non fossero già a Genova (ben visibili, per chi li volesse vedere, in coda al corteo del giovedì sera). Solo domenica Piero Bernocchi dei Cobas riconosce che “non si tratta di poche centinaia di persone ma di alcune migliaia”. E quindi con una forza rilevante.

Intanto però, senza che molti se ne siano accorti, è intervenuto anche un cambiamento strategico: mentre fino a lunedì 16 luglio la manifestazione centrale appare a tutti quella di sabato, ora si coglie che qualcosa è cambiato: il centro di “Genova contro G8” è la giornata di venerdì.

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I black bloc
Prima di Genova di loro non si sapeva nulla, adesso sembra che abbiamo capito tutto.

False entrambi le posizioni. Su AltrEconomia (numero 10) siamo stati tra i primi a parlare del “blocco nero” dopo le contestazioni di Praga nel settembre dello scorso anno. E, come ricordano i nostri lettori più attenti, già allora scrivevamo che questo blocco sulla piazza poteva contare su alcune migliaia di persone. Molti i giovanissimi, molte le ragazze.

L'impressione è che, da Praga in avanti, il blocco nero in Europa sia cresciuto in numero e determinazione.

Di loro, checché se ne dica, continuiamo a sapere poco. Deduciamo quello che pensano da come agiscono: in genere non hanno molte bandiere e nessuna propensione a stare sotto gli occhi dei media. Non hanno volti. Distruggono e colpiscono i segni del capitalismo internazionale e delle multinazionali: banche, McDonald's, auto fuoriserie, distributori di benzina. Arrivano alle grandi manifestazioni con qualche giorno di anticipo. Per quel che abbiamo visto a Praga e a Genova agiscono in piccoli gruppi ma hanno una predisposizione naturale a “coagularsi”. Le tecniche sono quelle della guerriglia urbana: distruggi e scappa. Non sono loro a cercare lo scontro diretto con le forze dell'ordine. Il loro arsenale è la strada: le sbarre delle inferriate, i rivestimenti delle strade, le pietre delle massicciate e dei marciapiedi, le bottiglie dei cassonetti della raccolta differenziata.

Non tutti i black sono a volto coperto e vestiti di nero. Certo usano la “pancia” del corteo, quella più numerosa, per mimetizzarsi. Dentro ci vivono in simbiosi fino, in alcuni casi, a travestirsi. Prima tuta nera, poi maglietta colorata e pantaloncini corti. O viceversa.

 

Non solo black
Ma il black bloc non è l'unico a scendere in piazza per menare le mani. Pensarlo dopo Genova sarebbe un'ingenuità. Non sono i black a dare per primi l'assalto alla zona rossa.

Venerdì 20 luglio, ore 12,45: da via Cesarea, una traversa di via XX settembre, arriva il primo assalto alle barriere blindate. Un corteo di alcune centinaia di persone, molte con i volti coperti, qualche bandiera nera, molte bandiere con il pugno giallo in campo rosso e, in piccolo, la scritta Swp (Socialist Worker Party, per saperne di più: www.swp.org.uk). L'assalto è immediato, preciso, non si perdono neanche 10 secondi per gridare slogan. Un'azione che assomiglia a un sopralluogo. Il corteo si arma con i tombini e li usa, come rozze leve, per saggiare la tenuta delle grandi, imponenti reti di ferro. Ed ecco la sorpresa: il fortino sembra violabile. Al contrario di quello che era accaduto a Praga, le vie non sono difese da file di forze dell'ordine in assetto antiguerriglia. Da dentro, i reparti di carabinieri si spostano a difendere l'uno o l'altro punto, prima con gli idranti, poi con i lacrimogeni. Ma è dall'esterno che arrivano i reparti di polizia a caricare e a disperdere. L'impressione è che se la zona rossa venisse attaccata contemporaneamente da cinque, sei, dieci punti la difesa non terrebbe, i gruppi dei black bloc (ma quelli dell'Swp sono black bloc?) entrerebbero. E, in effetti, alcune persone, isolate, nel corso della giornata riescono a scavalcare le barriere new jersey.

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Polizia cieca
Le new jersey sono le alte e pesanti reti di ferro che chiudono ogni accesso alla zona rossa. Dall'inizio della settimana il centro storico è blindato, qualcuno dirà che è una vittoria e invece è solo tristezza: che cosa abbiamo mai fatto per suscitare tanta paura, per costringere una città a barricarsi come un fortino? E che successo è mai quello di costringere un vertice a traslocare? Forse che questo cambia qualcosa nelle decisioni che poi vengono assunte?

La blindatura del centro comunque sta lì a dimostrare che lo Stato conosceva l'entità del pericolo. E certo non era per le tute bianche che aveva fatto tutto ciò. Ma ha completamente sbagliato strategia, troppo preoccupato che il vertice del G8 si svolgesse in pace, senza interruzioni. 20 mila agenti tra polizia, carabinieri, guardia di finanza e anche guardie forestali (per gli idranti), circa 6 mila dentro, gli altri fuori dalla zona rossa, si sono fatti sbeffeggiare dai black bloc, impotenti e incapaci a difendere una città. E poi hanno infierito contro tutti gli altri. In maniera incomprensibile, e in un crescendo, prima venerdì, poi sabato sul corteo dei 200 mila, fino all'irruzione finale di sabato notte nelle scuole ex Diaz, e a Bolzaneto.

Difficile crederci. Ma per molte ore abbiamo tutti vissuto in questo incubo, con una polizia che agiva in un clima di sospensione dei diritti democratici e senza il bisogno di spiegare il proprio comportamento e le proprie scelte di ordine pubblico né al Paese, né al governo, né alla magistratura.

E su quanto è avvenuto, l'Italia “normale” si è divisa: più con la polizia che con il movimento, accusato di aver consentito la devastazione della città. Ma la polarizzazione dei giudizi non serve a comprendere quello che è davvero successo e a evitare che accada di nuovo.

 

I Local Forum che ci attendono
Ci sono due episodi che non vorremmo dimenticare di Genova, travolti dalle cronache. Il primo, anche in senso cronologico, è quello delle mutande che una famiglia di Genova ha steso il giorno dell'inaugurazione proprio di fronte a palazzo Ducale: mentre arrivavano le delegazioni ufficiali, la biancheria intima era lì, irridente e spudorata, ben visibile e non su una ma su quattro finestre. E quella famiglia, le donne di quella famiglia, erano in piazza a gridare “buffone, buffone” a Bush mentre scendeva dalla sua auto superblindata.

L'altro episodio è più duro da conservare nella memoria. È piazzale Kennedy dopo gli scontri di venerdì. Sono le 18 e 30 di una giornata di guerriglia urbana e cariche della polizia. Ci si ritrova lì dopo che sui telefonini è corsa la notizia che c'è un morto. C'è Agnoletto, ci sono i Cobas, Attac Italia, Rifondazione comunista, molti giovani stranieri. Doveva essere una conferenza stampa, si trasforma in una assemblea infuocata. Non si sa ancora chi è morto e come, e arrivano voci che i morti siano due. L'esperienza, per tutti quelli che man mano arrivano a piazzale Kennedy è uguale: i black che spaccano e incendiano e la polizia che resta a guardare e che poi, quando carica, massacra i manifestanti pacifici. La rabbia diventa odio, in una deriva che fa paura. E c'è chi soffia sul fuoco. Contro gli elicotteri che sorvolano la zona sale il grido “assassini, assassini”.

È qui, in questi minuti e in questa piazza, che si decide di mantenere la manifestazione di sabato, anzi che viene lanciato l'appello a venire a Genova per la più grande manifestazione di questi anni. La riunione del Gsf la sera, anche se volesse proporre altro -e non vuole- non può che ratificare la decisione. Ma sul piazzale Kennedy non ci sono pezzi importanti del movimento: non c'è Lilliput, non ci sono le tute bianche, bloccati e tagliati fuori dai cordoni di polizia.

Ora è da qui che si riparte anche per sapere che cosa fare dei prossimi appuntamenti. E che cosa saranno i Local Forum che stanno nascendo in molte città: potrebbero diventare laboratori di partecipazione democratica e di confronto sul “mondo che vogliamo” oppure solo “new company” per veicolare il dissenso in attesa di qualcuno che, alla fine, se ne faccia davvero padrone.

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