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Esteri

Un miliardo di persone lotta contro la fame

Il 16 ottobre è la giornata mondiale dell’alimentazione

Il buon senso porterebbe chiunque a credere che quando un Paese registra una progressiva crescita del proprio PIL si sta apprestando ad uscire dalla povertà, e questo significa indirettamente riduzione di fame e malattie. Non è così: il 40% del numero di affamati del mondo si trova in Cina ed India.
Quest’ultima ospita da sola il 42% dei 195 milioni di bambini sottopeso al mondo e il 31% dei bambini con ritardo nella crescita.

E’ quanto svela il rapporto che accompagna l’Indice Globale della Fame 2010 (GHI, Global Hunger Index) a cura dell’Istituto Internazionale di Ricerca sulle Politiche Alimentari (IFPRI) con sede a Washington DC, presentato lunedì 11 ottobre a Milano in contemporanea mondiale con Parigi, Berlino, Washington, Dublino e New Delhi. L’indice Globale della Fame è un indicatore multiplo che cerca di valutare il livello le condizioni alimentari di 122 Paesi coniugando tre fattori chiave: la percentuale di persone denutrite, la prevalenza di bambini sottopeso e il tasso di mortalità infantile.
Ne risulta un numero compreso tra 0 e 100, che da quota 10 comincia ad esprimere una situazione di gravità e da quota 20 significa allarme. Nel 2010 l’indice a livello globale si attesta a 15.1 dimostrando come, nonostante i progressi fatti dal 1990 (in cui sfiorava quota 20), la situazione complessiva resti ancora dentro una soglia di gravità e ancora lontana dal raggiungimento del primo Obiettivo di Sviluppo del Millennio programmato dalle Nazioni Unite, e cioè il dimezzamento entro il 2015 delle persone colpite dalla fame rispetto ai livelli del 1990. Nel 2006 la percentuale di popolazione denutrita costituiva il 16% del totale, scendendo di soli quattro punti percentuali rispetto al 1990. La FAO ha stimato che il numero di persone colpite dalla fame, che aveva superato il miliardo nel 2009 in seguito alla recessione e alla crisi dei prezzi alimentari, si è ridotto nel 2010 a quota 925 milioni.

Le aree più colpite sono l’Asia Meridionale (in cui l’indice è tuttavia ridotto del 25% rispetto agli anni Novanta) e l’Africa sub-sahariana, mentre i risultati più virtuosi – che hanno raggiunto il dimezzamento dell’indice – sono concentrati nel Medio Oriente e in America Latina.

Tra i nove Paesi in cui il GHI è cresciuto di più, la Repubblica Democratica del Congo si classifica come la situazione peggiore, con tre quarti della popolazione totale denutrita. Il Paese ha sensibilmente peggiorato la sua situazione rispetto al 1990 (aumento dell’indice del 66%), in quanto il collasso economico dovuto al protrarsi del conflitto civile ha fortemente compromesso la disponibilità e l’accesso al cibo. Conflitti e instabilità politica hanno fatto crescere la fame anche in Burundi (+20%), Comore (+21%), Guinea Bissau (+6%) e Liberia (+6%); in altri Paesi africani invece, come in Swaziland, la sicurezza alimentare è messa a repentaglio dall’HIV diffusa e da una forte disuguaglianza tra i sessi, che è causa per molte donne non emancipate di numerose gravidanze e pochi mezzi per affrontarle.

Il Congo presenta anche uno dei più alti tassi di mortalità infantile al mondo, e questo non è un caso: le condizioni dei bambini hanno infatti un peso enorme sulla composizione dell’indice, tanto che la presenza di bambini sottopeso contribuisce in media al 50 per cento. Per questo motivo “intervenire sulla malnutrizione infantile si configura non solo come la cosa più intelligente, ma anche la più semplice e la più economica” afferma Stefano Piziali, che ha curato, in collaborazione con il network Link2007 , l’edizione italiana del GHI. Intervenire sulla denutrizione infantile è la scelta più intelligente in quanto gran parte dei danni legati alla malnutrizione si decidono nei primi mille giorni di vita di un bambino: dopo il compimento del secondo anno di età, un bambino denutrito ha già riscontrato danni in gran parte irreversibili, con elevate probabilità di rimanere sottosviluppato sia dal punto di vista fisico (statura, peso, salute precaria), che dal punto di vista cognitivo (capacità di studiare e farsi strada nella società). Le bambine sottonutrite, una volta grandi, tenderanno a mettere al mondo bambini a loro volta sottopeso, perpetuando il ciclo della malnutrizione. Il settore della malnutrizione infantile è inoltre, come osservava Piziali, un’area di intervento più semplice di altre, anche dal punto di vista economico. Più del 90% dei bambini sottopeso sono concentrati in Africa (tasso del 40%) e in Asia (36%).

Un confronto tra gli Indici della Fame dei diversi Paesi evidenzia inoltre come, soprattutto nelle aree dell’Asia Meridionale, i livelli di fame registrati siano molto più alti di quanto le performance economiche suggerirebbero. Questo significa che i Paesi messi meglio economicamente non sempre usano le proprie risorse per intervenire sul problema della denutrizione, e al contrario i Paesi che registrano redditi pro-capite meno elevati (come Ghana e Uganda) possono vantare punteggi di GHI decisamente migliori. La maggior parte dei progressi in ambito alimentare è dovuta ad un certo tipo di politiche governative che si sono dimostrate attive nella risoluzione del problema attraverso interventi nutrizionali mirati alla “culla” della denutrizione, ovvero i bambini nei loro primi mille giorni di vita. Un esempio datato ma di notevole successo è quello della Thailandia, che durante gli anni Ottanta ha dimezzato la malnutrizione infantile in meno di una decade, attuando interventi mirati e creando una diffusa rete capillare di volontari comunitari per l’assistenza alle famiglie, in particolare alle donne. Un’altra storia di successo riguarda il Brasile, che negli ultimi vent’anni è riuscito a coniugare crescita economica e riduzione della povertà facendo crollare la percentuale di bambini denutriti dal 37% degli anni Settanta all’attuale 7%. Il risultato migliore di GHI spetta al governo della Malaysia che, assumendosi come priorità i temi dell’alimentazione e della salute, ha attuato dei “Piani Nazionali per l’Alimentazione” che hanno determinato una riduzione della fame del 63% rispetto al 1990.

Anche la comunità internazionale si è dimostrata utile alla riduzione delle persone affamate, in particolare grazie al lavoro di associazioni non governative come Concern e Welthungerhilfe che hanno contribuito al rapporto sul GHI 2010 raccontando due progetti: uno per la promozione di buone pratiche in agricoltura, alimentazione e salute in Mali – ad opera della tedesca Welthungerhilfe – e l’altro per la sopravvivenza infantile in due distretti urbani del Bangladesh. Gli approcci, sebbene molto diversi, si sono concentrati sulle tre cause fondamentali della denutrizione: l’insicurezza alimentare, l’insufficiente assistenza di donne e bambini e il loro limitato accesso alla sanità e ad un ambiente salutare. Per poter agire in queste direzioni, di grande aiuto è stata la rete di volontari distribuiti ad assistere le famiglie in difficoltà che, in collaborazione con le amministrazioni locali, sono riusciti a conquistare la fiducia delle donne del posto, insegnando loro le buone pratiche per salvaguardare i propri figli da malattie e malnutrizione.

 

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