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Ambiente / Varie

Un mare di plastica

Caldo, denso e con un solo sbocco: il Mediterraneo è la trappola per almeno 1.000 tonnellate di microplastiche galleggianti, che ne attentano la biodiversità. In queste settimane, e fino al 21 agosto, l’equipe di Expédition M.E.D. sta navigando nel Mar Tirreno, tra Genova, Roma, Napoli e Vibo, alla ricerca di nuovi dati

Tratto da Altreconomia 172 — Giugno 2015

Nel mondo ci sono cinque regioni oceaniche nelle quali si accumulano enormi quantità di detriti di plastica. E poi c’è il Mar Mediterraneo, dove si concentra il 7% di tutti quei frammenti di grandezza inferiore ai 5 millimetri presenti nei mari: la microplastica.
Le correnti oceaniche, infatti, trasportano la plastica abbandonata dall’uomo negli ambienti terrestre e marittimo concentrandola nei “gyros”, delle specifiche aree corrispondenti alle fasce subtropicali -a lato dell’equatore- di ciascun continente. Lì il processo appena descritto produce accumuli di plastica galleggiante sulla superficie oceanica nell’ordine di chilogrammi (o milioni di pezzi) per chilometro quadrato. Al di fuori di queste zone la presenza di plastica scende a migliaia di pezzi per chilometro quadrato. Con un’eccezione, che è il Mediterraneo, dove il livello sarebbe pari a quello dei “gyros”. “C’è anche un’aggravante -spiega ad Ae Andrés Cózar, ricercatore di biologia presso l’Università di Barcellona e Cadice-: essendo un mare chiuso, il Mediterraneo è un mare caldo, con acque più dense rispetto a quelle degli oceani”. Con il suo team di ricerca, Cózar ha pubblicato ad aprile uno studio intitolato “Plastic Accumulation in the Mediterranean Sea” sul magazine scientifico PlosOne. A causa delle caratteristiche citate, nel Mediterraneo le plastiche si degradano diventando microplastiche. “Tuttavia -sostiene Cózar- la quantità di plastica galleggiante nel Mediterraneo non è superiore agli oceani per una semplice ragione legata allo spazio a disposizione. L’accumulo di detriti di plastica è legato alla elevata presenza umana del bacino e il suo particolare meccanismo di ‘circolazione dell’acqua’, che agisce come fosse una trappola per i detriti di plastica galleggianti. Infatti, non ci sono vie di fuga in superficie: l’unico sbocco del Mediterraneo è lo Stretto di Gibilterra, che misura solo 14 chilometri. Così finisce che la plastica galleggiante più pesante finisca sui fondali marini e, non ricevendo più luce, possa rimanere intatta per secoli o rilasciare microframmenti molto lentamente. L’impatto della nostra civiltà sarà misurabile in futuro anche dalla plastica presente sul fondo del nostro mare”.

Sulle coste del Mediterraneo abita circa il 10% della popolazione mondiale, il suo bacino è uno dei più trafficati e riceve le acque di fiumi che attraversano aree densamente popolate, come il Nilo, l’Ebro e il Po. Per questo la ricerca iberica stima che il Mediterraneo “ospiti” almeno mille tonnellate di microplastica galleggiante, cifra pari al 7 per cento del carico globale, nonostante le sue acque rappresentino meno dell’1% di quelle mondiali. Proiettando questi dati su scala planetaria, le tonnellate di microplastiche nelle acque mondiali (contando che ben pochi dati si hanno dalla regione sud degli oceani) sarebbe pari così a 14mila tonnellate. Secondo lo studio “Plastic Pollution in the World’s Oceans” diretto da Marcus Eriksen, direttore di 5gyres.org, però, questa cifra potrebbe essere pari addirittura a 35mila tonnellate. Nella sua ricerca, Cózar riconosce che i suoi dati siano stime al ribasso, e che potrebbero esserci addirittura 3mila tonnellate di microplastiche nel solo Mediterraneo, confermando così i dati di Eriksen. Lo studio di quest’ultimo fa riferimento anche ai macroframmenti di plastica, che, considerati insieme ai micro porterebbe il carico globale alla cifra di 269mila tonnellate (che però Cózar ritiene sovrastimata). 

Il Mediterraneo è un giacimento straordinario per la biodiversità marina mondiale, racchiudendone tra il 4% e il 18%: gli effetti dell’inquinamento da marine litter sulla vita marina -e umana- destano così preoccupazione.
I dati raccolti dai ricercatori di Expédition M.E.D. (che ogni anno, attraverso spedizioni in mare, analizza campioni prelevati direttamente dalle acque: nel 2015 l’expédition partirà da Roma il 27 giugno, www.expeditionmed.eu) evidenziano come al largo della costa francese, tra Nizza e Cannes, vi sia una densità di 578mila microplastiche per chilometro quadrato. Spostandosi poco più in là c’è l’Italia: i campioni raccolti hanno dimostrato che al largo di Albenga (in Liguria) vi siano 330mila microplastiche per chilometro quadrato, facendo del centro savonese il più contaminato del Paese. Anche questo team di ricerca ha confermato che le concentrazioni di plastica nel Mediterraneo sono pari a quelle degli oceani: l’impatto medio stimato è di 290 miliardi di microframmenti inferiori al millimetro solo nei primi quindici centimetri d’acqua al largo delle coste. L’80% delle plastiche raccolte sono microframmenti e nel 90% dei casi derivano da bottiglie di plastica e da tappi, il 6% da sacchetti.
La presenza di plastica nel Mediterraneo ha effetti anche sui pesci che mangiamo. Secondo Silvestro Greco, biologo e direttore scientifico di Slow Fish (slowfish.slowfood.it) la situazione è terribile: “I pesci di grossa taglia (oltre i 100 chili, ndr) hanno un bioaccumulo maggiore dei pesci piccoli. Oltre a trattenere molecole di composti inquinanti idrofobici (PCB e Ddt) le microplastiche rilasciano ftalati, bisfenolo A, PBDE, alchilfenoli, sostanze note anche per il loro potenziale di distruttori endocrini dell’organismo che le ha ingerite”. I pesci confondono quindi le componenti plastiche per ormoni. Mangiarli può essere pericoloso? “Dipende dall’entità del consumo”.
Nel rispondere, Greco si riferisce agli studi di Silvano Focardi, rettore dell’Università di Siena, e in particolare a una ricerca (Polybrominated Diphenyl Ethers and Polychlorobiphenyls in Fish from the Ionian Sea (Western Mediterranean) condotta sull’accumulo di etere di difenile polibromurato (PBDE) e policlorobifenili (PCB) nel tessuto muscolare di 11 specie di pesci dal Mar Ionio. I risultati danno conto di “una contaminazione ormai generalizzata dai PCB dell’ambiente marino del Mediterraneo, così come l’ampia diffusione di PBDE”. Nello specifico “i valori più alti di PCB  sono stati osservati in predatori [quali] il tonno e il pesce spada: queste specie hanno dimostrato anche i livelli più elevati di PBDE”.
Nel suo studio Focardi conclude che “l’importanza di queste specie nella dieta umana suggerisce la necessità di una particolare attenzione nelle nostre scelte alimentari”.
Come sottolinea inoltre lo studio di Andrés Cózar citato in apertura, diversi frammenti di plastica sono stati ritrovati soprattutto nei piccoli pesci, gabbiani, tartarughe e capidogli mentre significative quantità di nanoplastiche (nell’ordine di decine di micron) sono state trovate nelle ostriche e nei molluschi.

L’inquinamento da marine litter si è diffuso in meno di 50 anni, da quando cioè le plastiche sono entrate nel nostro sistema commerciale in modo massiccio, diventando un problema di scala planetaria. “Urgono strategie di gestione urgenti per affrontare questo problema -ragiona Cózar-. Le attività di clean up sul litorale potrebbero essere particolarmente efficaci nel Mar Mediterraneo, rimuovendo i detriti da riva impedendo che galleggino in mare. Poiché la produzione di materie plastiche probabilmente continuerà ad aumentare nei prossimi decenni, le strategie di gestione dovrebbe essere rivolte alle fonti dell’inquinamento, al fine di impedire il rilascio di scarti di plastica nell’ambiente”. L’allarme ha mosso anche l’Unione europea che nella sua Direttiva Quadro sulla Strategia Marina comunitaria ha inserito la problematica ambientale del marine floating litter tra quelle da risolvere entro il 2020. E ha anche lanciato il programma Horizon 2020, attraverso il quale finanzia progetti di risanamento della fascia costiera e dell’ambiente marino. “Finalmente -commenta Greco- perché ci sono voluti 50 anni per far sì che l’Ue si accorgesse del Mediterraneo e dei pericoli che sta correndo: l’Università di Siena ha riscontrato che nel Santuario Pelagos (www.sanctuaire-pelagos.org/It) tra Mar Ligure e Mar di Sardegna, c’è sovrapposizione fra le aree di foraggiamento e relativo avvistamento della balenottera comune e la presenza di elevate concentrazioni di microplastiche. Questi dati sono la prima evidenza scientifica a livello mondiale del pericolo che riguarda l’unica area marina protetta in mare aperto del Mar Mediterraneo”.

Nell’ambito della giornata di pulizia europea, a maggio, in Italia è stata organizzata la Keep Clean And Run, una corsa di 400 chilometri da Aosta a Ventimiglia. Il fine di Roberto Cavallo, ad di ERICA (società che si occupa di consulenze ambientali), e presidente dell’Associazione internazionale di comunicazione ambientale, era la sensibilizzazione rispetto all’abbandono dei rifiuti tra mare e montagna. Soprattutto perché, spiega, “il 70% delle tonnellate di plastica che si ritrovano nel mare proviene dall’entroterra”.
Cavallo ha anche fotografato e raccolto parte dei rifiuti incontrati lungo i sentieri, tra cui le bottigliette di plastica delle bevande gassate: “Sono molto pericolose -racconta- perché realizzate con plastiche trattate per mantenere i liquidi e non disperdere il gas. Sono le più micidiali per l’ambiente”.

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