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Altre Economie

Un lavoro dentro

Crescono le esperienze di cooperative di produzione che danno un’occupazione ai detenuti. L’intervista a Luigi Pagano

Tratto da Altreconomia 124 — Febbraio 2011

“Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. È scritto nel terzo comma dell’articolo 27 della Costituzione. Questo è il cuore ideale del lavoro in carcere”. Luigi Pagano dal 2004 è provveditore agli istituti di pena lombardi, dopo 15 anni passati a dirigere l’istituto penitenziario San Vittore di Milano.

Il suo ufficio è ancora lì, in piazza Filangieri, di fronte all’ingresso del carcere. “È vero che 14mila detenuti lavorano, ma la maggior parte di loro lo fa per conto dell’amministrazione penitenziaria. Operano all’interno del carcere come cuochi, addetti alle pulizie, ‘scopini’ li chiamiamo, porta-vitto e vengono  pagati attraverso la cosiddetta ‘mercede’, un corrispettivo economico pari a circa due terzi di quanto previsto dai contratti collettivi di categoria, con relativi contributi. È indubbio che attività del genere siano di per sé importanti, perché distolgono il detenuto dalla frustrazione dell’ozio e danno anche un piccolo reddito, ma siamo ancora lontani dagli obiettivi che l’ordinamento penitenziario intendeva quando parlava del lavoro come uno degli elementi fondamentali su cui basare il processo di reinserimento sociale, varando tutta una serie di norme per agevolarne l’esercizio”. Come, ad esempio, la legge 193 del 2000, conosciuta come “Smuraglia” dal nome del senatore (Carlo) che ne è stato firmatario, che offre agevolazioni fiscali e contributive per le cooperative sociali e le imprese che assumono detenuti sia all’interno degli istituti penitenziari sia nel lavoro all’esterno. “Ci sono eventie problemi tipici della vita carceraria che pongono alcune difficoltà alle imprese che vogliono fare affidamento sui detenuti: orari per i colloqui, mancanza di personale, coincidenza con altre attività, limitazioni e restrizioni dovute alla  sicurezza, fattori con i quali ci si deve confrontare e che mettono a rischio la produttività di un’azienda. Ciò nonostante le indubbie agevolazioni della Smuraglia appunto o l’uso gratuito degli spazi, che  vengono offerti alle cooperative. Bisogna, quindi trovare la strada per conciliare le cose, per rendere  appetibile l’investimento in carcere, cercando -laddove sia possibile modificarlo- di adattare il regime interno. In Lombardia, ad esempio, quando abbiamo aperto il carcere di Bollate lo abbiamo fatto pensando, ab origine, a regole che fossero compatibili con l’esercizio concreto del lavoro da parte detenuti, in modo che questo fosse il nucleo centrale. Cose semplici e non, come spostare i colloqui nel pomeriggio, ma anche lasciare che i detenuti si recassero da soli sul posto loro assegnato, ridurre i  tempi di controllo sugli automezzi delle ditte esterne. Qualcuno dice che così abbiamo attenuato i meccanismi di sicurezza, ‘aprendo’ il carcere all’esterno. In parte ciò è vero, ma mettiamo nel conto anche eventi critici, perché l’evidenza positiva ci mostra che in realtà un carcere aperto è molto più  sicuro in termini di reinserimento lavorativo e minore recidiva. Lo dicono i numeri”. Il lavoro carcerario esterno all’amministrazione penitenziaria, invece, è ancora una nicchia. Non è facile trovare aziende disposte ad assumere i detenuti, né tra questi quelli adatti a uscire. “Eppure anche queste esperienze sono in aumento.

Al di là delle numerose cooperative di produzione, dai dolci alla sartoria, vorrei citare una iniziativa che assume anche un valore simbolico: 15 detenuti ammessi all’esterno lavorano in Tribunale, a Milano, alla digitalizzazione di atti giudiziari, sulla scorta della esperienza già fatta nel carcere di Cremona, ove furono archiviati in informatica le carte del processo di Piazza Fontana. Due  anni fa una quarantina di detenuti uscirono per aiutare l’esercito a spazzare la neve che aveva bloccato  la città. Il fatto è che lavorare non vuol dire solo far passare il tempo. Il lavoro ha a che fare con la coscienza, l’identità, la soddisfazione personale. Certo sono valori che ogni persona ha, o cerca, ma assumono un significato particolare per il detenuto e per i suoi problematici rapporti con la società.

La Costituzione prevede che la pena debba tendere al reinserimento sociale del condannato, ma se non  diamo gli strumenti per il cambiamento non solo si rischia la demotivazione, ma, all’inverso, si avvicinano poi le persone “sbagliate”, si viene tentati dal ‘reddito criminale’, spesso più alto e più accessibile di quello garantito da un lavoro onesto”. Conclude Luigi Pagano: “La cultura del lavoro, nel  senso più vasto del termine, scardina questo meccanismo: il carcere e i detenuti regolano le proprie attività in funzione del compito che hanno nei confronti dell’impresa. È un rimodularsi verso l’esterno, un  ‘esterno’ che entra nel carcere, che in qualche modo ti costringe a iniziare a confrontarti con quel fuori che prima o poi dovrai affrontare. Perché, paradossalmente, l’ambiente penitenziario è protetto. È  fuori che la strada è irta di difficoltà”.

 

Reti, non sbarre (di Silvia Bergamo)
“Solidale Italiano”, la nuova linea di prodotti del consorzio Ctm altromercato (vedi Ae 123) è in arrivo sugli scaffali delle botteghe del mondo. Per la prima volta la maggiore organizzazione italiana di fair trade sceglie di associare il proprio marchio a prodotti di economia locale, non realizzati a  partire da materie  prime provenienti dal Sud del mondo e non qualificabili come “prodotti di commercio equo e solidale”  “Non stiamo semplicemente arricchendo il nostro catalogo con qualche nuova referenza -spiega Enrico  Reggio, vicepresidente di Ctm-. Stiamo realizzando invece un percorso che affonda le proprie radici  nello statuto della nostra organizzazione”. I primi in arrivo saranno i prodotti dell’economia carceraria: si  parte coi taralli all’olio e ai semi di finocchio realizzati presso il forno che opera all’interno della casa circondariale maschile di Trani grazie alla cooperativa sociale Campo dei Miracoli di Gravina di Puglia.  La cooperativa, fra le prime in Italia ad entrare nelle carceri, gestisce anche la mensa interna alla casa circondariale. Le mandorle da agricoltura biologica tostate, nelle versioni al naturale e salate, sono  confezionate invece nella Casa Circondariale di Siracusa, dove opera la cooperativa L’Arcolaio,  conosciuta anche per il marchio “Dolci Evasioni” con cui distribuisce i propri prodotti. Dall’Umbria arrivano i tozzetti, dolcetti tipici del centro Italia da gustare a fine pasto, accompagnati dal vinsanto. Sono realizzati dai detenuti che lavorano presso il laboratorio di pasticceria “Forno Solidale” nella Casa  Circondariale di Terni con la cooperativa Gulliver di Perugia. Sono piemontesi, invece, i Damotti e le  Polentine della “Banda Biscotti”, un progetto realizzato dalla cooperativa Divieto di Sosta col  coinvolgimento dei detenuti della Casa Circondariale di Verbania e della Casa di Reclusione di Saluzzo.

Un elenco completo delle cooperative che producono lacvoro per i detenuti è anche nel nuovo libro di Altreconomia "Il mestiere delle libertà"

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