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Un fair trade senza marchio

La conferenza mondiale del commercio equo, riunitasi a maggio in Nepal, non ha votato la proposta di una nuova certificazione. Come avevano chiesto, compatte, le organizzazioni italiane Il Natale 2009 poteva presentare una grossa novità ai consumatori di prodotti di…

Tratto da Altreconomia 108 — Settembre 2009

La conferenza mondiale del commercio equo, riunitasi a maggio in Nepal, non ha votato la proposta di una nuova certificazione. Come avevano chiesto, compatte, le organizzazioni italiane

Il Natale 2009 poteva presentare una grossa novità ai consumatori di prodotti di commercio equo: un marchio di certificazione delle organizzazioni fair trade uguale sia sui prodotti venduti nelle Botteghe del mondo, sia nel supermercato. Questa era la prospettiva su cui la World Fair Trade Organisation (Wfto) lavorava da due anni, e che doveva tradursi in una decisione finale alla Conferenza mondiale (si tiene ogni due anni) del maggio scorso, in Nepal. Wfto non è altro che l’Associazione mondiale del commercio equo, ex “Ifat”; il cambio di nome, deciso nell’ottobre 2008, è avvenuto per proporsi come alternativi all’organizzazione principe del commercio internazionale, la World Trade Organization.
A causa critiche e perplessità interne -pienamente condivise dalla delegazione italiana- non vedremo nessun nuovo marchio: dopo un dibattito appassionato la Conferenza del Wfto ha votato a grande maggioranza la proposta europea di riaprire la discussione sui punti più controversi della proposta di certificazione, e decidere non prima della fine del 2010.
C’era molta attesa, ed anche un po’ di tensione, per questa Conferenza, causa le forti pressioni di settori del Wfto (a partire dal Direttivo) per decidere in fretta, e le speculari forti resistenze in tal senso di alcuni membri (in prima fila tutti gli italiani, presentatisi con un documento comune) ed aree geografiche (Europa, America Latina). Principali sponsor della proposta di certificazione: gruppi di produttori (principalmente asiatici) che vedono in essa un modo per aumentare l’accesso al mercato ed alla grande distribuzione, in particolare dell’artigianato (le cui vendite, in stagnazione o calo, sono il 5% del fair trade mondiale, ed effettuate, a differenza dei prodotti alimentari, quasi solo nelle Botteghe del mondo). Presupposti ed obiettivi riconosciuti veri e importanti da tutti, ma con forti dubbi su come la certificazione possa di per sé aprire un mercato complesso quale la grande distribuzione ad un prodotto difficile quale l’artigianato. Dubbi che, per alcuni, sono diventati contrasto aperto rispetto ad alcuni contenuti specifici della proposta, che richiamano visioni diverse sul futuro del commercio equo. La prima: il Wfto deve avere più un ruolo tecnico teso a favorire l’accesso al mercato dei prodotti equi, o più di autogoverno, rappresentanza e supporto delle organizzazioni eque? La seconda: tutti d’accordo sulla necessità di aumentare le vendite, ma come contemporaneamente promuovere protagonismo e riconoscibilità delle organizzazioni di commercio equo, il cui ruolo non è solo economico? Di fronte a tali quesiti il commercio equo italiano ha confermato la sua unità ed originalità, producendo documenti fortemente critici col contenuto della proposta di certificazione, a favore della conferma degli attuali criteri fair trade, della tutela dell’identità delle organizzazioni eque, e proponendo di non votare la proposta di certificazione. Posizione derivata certamente dalla forte capacità di dialogo interna (favorita dall’esistenza di Agices, l’associazione italiana del commercio equo), da radicamento e protagonismo del movimento delle Botteghe del mondo, dall’ostinata valorizzazione dell’identità sociale del fair trade. Posizione solitaria fino ad una settimana prima della Conferenza, ma che poi, grazie anche al lavoro di lobby, disseminazione e contatti, in Nepal è risultata importante nel determinare il risultato finale: i membri Wfto dell’America Latina si sono dichiarati contrari alla proposta di certificazione; la grande maggioranza degli europei ha sollevato critiche radicali; i rappresentanti indiani e africani hanno proposto di sperimentare una certificazione rivolta solo ai membri Wfto (una delle nostre principali richieste) e di continuare a discutere. Da qui il risultato finale, che ci soddisfa in pieno. Cosa tutto ciò racconta al consumatore di commercio equo o al lettore di Ae? E quali sono le prospettive future? Primo: se è vero che nel commercio equo esistono priorità differenti rispetto agli scenari futuri, la discussione interna dimostra la volontà unitaria del movimento e la vitalità del nostro mondo, fattori che rimangono a garanzia del rispetto degli obiettivi e dell’identità del fair trade. Secondo: la questione su come riconoscere i prodotti del commercio equo e promuovere l’identità delle Organizzazioni Fair Trade continua e viene approfondita, il che è un bene onde evitare scelte errate, ma anche per poter dare risposte alle giustissime esigenze dei produttori. Terzo: il sostegno che i consumatori danno al commercio equo italiano, e particolarmente alle Botteghe del mondo, si traduce non soltanto nel rafforzamento dei piccoli produttori e di un’economia di giustizia, ma anche nella capacità di incidere sullo scenario internazionale del fair trade.

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