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Un anno dopo il crollo, giustizia non è fatta

Un anno dopo il collasso della Spectrum Sweater di Dhaka dove morirono 64 persone, più di 70 rimasero ferite e centinaia persero il lavoro, gli attivisti della Clean Clothes Campaign in Europa e in Bangladesh denunciano il fallimento delle richieste di risarcimento per le famiglie dei deceduti e dei sopravvissuti e lanciano una azione di pressione verso le ambasciate del Bangladesh in Europa per le persistenti e critiche condizioni di lavoro nelle fabbriche del settore tessile, dove nuovi incidenti nelle scorse sei settimane hanno causato morti e feriti. 

Un anno dopo la tragedia gravissima che colpì i lavoratori e le lavoratrici della Spectrum, solo tre imprese clienti della fabbrica – Inditex (Spagna), New Wave Group (Svezia) e Solo Invest (Francia) – hanno accettato di contribuire al fondo di compensazione per i sopravvisssuti e per le famiglie delle vittime che cucivano i vestiti per loro. Cambiamenti strutturali ad ampio raggio per quanto riguarda la sicurezza e la salute dei lavoratori e delle lavoratrici devono invece ancora essere attivati, nonostante le numerose e puntuali richieste delle ong e dei sindacati. 

La Spectrum insieme alla Shariyar Fabric, acquisiva ordini da un vasto gruppo di imprese europee; quelle che non si sono ancora impegnate per la costituzione del fondo includono: Carrefour, Cmt Windfield (Francia), Cotton Group (Belgio), KarstadtQuelle, New Yorker, Bluhmod (Germania) e Scapino (Olanda). Le imprese italiane segnalate al momento del crollo come committenti – la Titanus di San Marino e la Frabo di Padova – non hanno mai confermato rapporti commerciali con la fabbrica della morte ma neppure hanno reso pubblica la lista dei loro fornitori. Sappiamo però che molte imprese italiane lavorano con imprese del Bangladesh e sappiamo bene quanto le condizioni di sfruttamento siano generalizzate; e come la Spectrum, moltissime altre fabbiche sono a rischio quotidiano di grave violazione dei diritti e di incidenti mortali e questo è noto ai marchi internazionali che si riforniscono in quel paese. 

La situazione che ha portato la Spectrum al collasso, come testimoniano i recentissimi nuovi incidenti mortali, non è casuale né isolata; in Bangladesh, come in molti altri Paesi del mondo, esiste una sistema generalizzato di sfruttamento e insalubrità che costringe i lavoratori e le lavoratrici a lavorare in condizione inaccettabili. “Le uscite sono bloccate con le scatole, i cancelli chiusi a chiave, oppure c’è appena una uscita stretta per migliaia di lavoratori “in caso di incendio questo significa morte certa per i giovani lavoratori e lavoratrici delle fabbriche bengalesi dove sono cuciti i vestiti per i negozi europei”, dichiara Amirul Haque Amin del National Garment Workers Federation in Bangladesh. 

“Molte imprese italiane vanno a produrre in Bangladesh e molti marchi noti di vestiti che indossiamo sono prodotti in condizioni che sarebbero considerate illegali in Italia, come, ad esempio, il gruppo Coin con il marchio Oviesse, il gruppo Tessival con i marchi Herod e Greenland (con cui stiamo lavorando per la risoluzione del caso di violazioni avvenute alla A-One di Dhaka),  il gruppo Teddy con i marchi Rinascimento, Calliope, Terranova” continua Deborah Lucchetti della Campagna Abiti Puliti. “In questa giornata vogliamo rilanciare con forza alle imprese italiane che si riforniscono in Bangladesh, la richiesta di assunzione di responsabilità affinché si facciano sensibili passi in avanti per l’implementazione di un programma di sicurezza credibile insieme alle istituzioni locali, al sindacato e alle ong; un programma concreto che metta la parola fine a tragedie come quella della Spectrum”.

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