Una voce indipendente su economia, stili di vita, ambiente, cultura
Interni

Un affare di Stato sulla pelle dei migranti

La sanatoria 2012 si chiuderà con due richieste bocciate ogni tre: il “rischio truffa” è insito nel meccanismo. Le statistiche raccolte dal Naga aiutano a capirlo —

Tratto da Altreconomia 151 — Luglio/Agosto 2013

La pratica MI4703542055 è stata spedita il 28 settembre 2012, alle 18.33. Il datore di lavoro George Clooney, da Cernobbio, sul lago di Como, ha inviato al ministero dell’Interno la domanda per regolarizzare il suo colf irregolare, Usain Bolt. Sì, il velocista giamaicano. È scritto  su un foglio con il logo della Repubblica italiana. Il documento è a Milano, sulla scrivania dell’ufficio legale del Naga Har (www.naga.it), che aiuta stranieri regolari e non, a monito di quanto sia facile fingere quando si comincia la regolarizzazione via web per colf e badanti.
La sanatoria s’è chiusa a inizio ottobre 2012: è l’ultimo appiglio per migliaia di lavoratori in nero che aspirano ad ottenere un regolare permesso di soggiorno, ma anche il primo stadio del “mercato dell’immigrazione clandestina”, dove a fare affari non sono solo per grandi organizzazioni criminali ma anche insospettabili truffatori, più o meno improvvisati. Le carte false sono un business d’oro: in Italia vale almeno 250 milioni di euro. Diecimila per ognuno dei 250mila immigrati irregolari che si presume abbiano già pagato per arrivare nel Paese.

“Chiunque può truffare, non serve nemmeno conoscere i passaggi burocratici”, commenta Nadia Bovino, volontaria dell’ufficio legale del Naga. La stima dell’associazione, sulle sanatorie scorse, è che circa la metà dei rigetti sia dovuta a truffe. E in quest’edizione le domande respinte saranno due su tre, quasi 90mila delle 134.747 presentate. A fine aprile 2013, su 23.255 vagliate erano 13.471 quelle a cui le Prefetture hanno detto no. Secondo uno studio del Viminale in nove casi su dieci la causa del rigetto è stata la mancanza di una documentazione adeguata a provare il soggiorno in Italia a decorrere dal 31 dicembre 2011. “La prova è sicuramente uno degli elementi dirimenti che ha messo in crisi alcune nazionalità -commenta Maurizio Bove responsabile Dipartimento politiche migratorie della Cisl Milano-. Non sappiamo se le prove presentate sono considerate inadeguate oppure false. C’erano comunque tutte le avvisaglie di un florido mercato, con siti ad hoc e agenzie che offrivano servizi particolari”. Le regolarizzazioni non funzionano perché si basano -il più delle volte- su autocertificazioni fasulle. In buona fede, se chi regolarizza lo fa con l’intento di garantire un pezzo di carta per stare in Italia ad amici o conoscenti, o a un dipendente per il quale spera di contenere un minimo i costi. Oppure in mala fede, se a fingersi datori di lavoro sono persone che intendono incassare parte del denaro richiesto per la pratica. Nella schiera dei truffatori si trovano personaggi insospettabili: pensionati, parenti di anziani con invalidità (i più ricercati del mercato, perché possono regolarizzare quanti dipendenti vogliono senza limiti di reddito, come accade per gli altri) o membri della stessa comunità straniera. Chiedono circa 3-4mila euro a pratica, mille ne versavano allo Stato per cominciare la trafila e si intascano gli altri. “Non conta il titolo di studio né la formazione culturale: chiunque abbia bisogno di un documento è disposto a pagare qualunque cifra”, afferma Bovino.

I procacciatori di “carte false” non sono difficili da trovare. Le voci girano: come quella su un egiziano, titolare di un internet point a Turro, periferia Nord di Milano, che per 2mila euro ti trova un datore di lavoro e ti compila le carte per avere un permesso di soggiorno. O sulle agenzie d’intermediazione che fioccano in via Imbonati, sempre a Milano. Locali che aprono e chiudono nel giro di un mese: il tempo della sanatoria. Allo Stato lasciare in piedi un meccanismo così farraginoso quasi conviene. In fondo, le regolarizzazioni sono una mini-manovra: solo con la prima tranche del pagamento, il forfait iniziale di 1.000 euro, l’erario ha incamerato 134 milioni di euro, a cui andranno aggiunte altri 3mila di tasse per colf e badanti e 13mila per gli altri lavoratori. Peccato che sia altrettanto florido il mercato del sommerso: sanatoria 2009 docet. Secondo il rapporto “Truffasi” del Naga, all’epoca valeva tra i 53 e i 106 milioni di euro. Oggi potrebbe aggirarsi attorno ai 90milioni euro.

La prima volta per A.B.e U. R. (entrambi italiani) è stata la sanatoria del 2002. Con gli anni sono diventati un punto di riferimento per gli stranieri a caccia di un pezzo di carta qualunque. Li hanno scovati solo nel febbraio 2013. Tra i migranti, qualcuno aveva dei sospetti, dato che di tanti che avevano provato a regolarizzarsi con loro solo una minoranza aveva ottenuto l’agognato permesso di soggiorno.Gli altri stavano nel limbo, in attesa della convocazione in Questura per concludere la pratica. E con -minimo- 2mila euro in meno in tasca. “Quando l’abbiamo interrogata in carcere, A. B. era ancora stupita dell’arresto. Era convinta di fare del bene ai migranti” spiega il capitano Francesco Cinquepalmi, della Municipale di Milano. La falsificazione dei documenti era molto banale: “I bollettini postali spediti in Prefettura hanno tutti lo stesso numero di serie -chiarisce Cinquepalmi- e le firme dei datori di lavoro, per quanto con nomi diversi, avevano tutte la stessa grafia”.

Al terzo stadio, la truffa delle carte false diventa un affare internazionale. Le organizzazioni criminali hanno reti in tutto il Mediterraneo e spesso si spingono fino al Nord Europa. Come nel caso dell’organizzazione di Hussein Mohamed Abdurahman detto “Banje”, di cui facevano parte più di 70 cittadini somali. L’indagine condotta dalla Direzione distrettuale antimafia di Catania è stata difficile: “Nemmeno gli interpreti volevano aiutarci -racconta il magistrato Lucio Setola-. Avevano paura: le persone coinvolte hanno un grande peso nella comunità somala”. Ci sono voluti 4 anni perché la magistratura italiana venisse a capo della struttura organizzativa. Gli affiliati erano divisi in cellule, analoghe a quelle della mafia cinese. Ma il loro leader era uno: Banje. L’uomo aveva rapporti privilegiati con l’ambasciata italiana di Nairobi (quella a cui fanno riferimento anche i cittadini somali) e questo permetteva alla consorteria di lavorare. Banje garantiva visti turistici, visti per ricongiungimento familiare o per visite mediche. Anche a giovani disoccupati con redditto bassissimo, a forte “rischio migratorio”, come dicono i funzionari dei consolati. Persone che quando raggiungono l’Europa non tornano più indietro.
A seconda di nazionalità e tratta, le tariffe andavano dai 10 ai 15mila euro, a cui si aggiungevano altri 1.500-2mila euro per arrivare in Nord Europa: Olanda, Inghilterra, Svezia, Norvegia e Finlandia. Una volta in Italia, i migranti si appoggiavano a “logisti” vicino agli aeroporti. Dormivano qualche notte poi ripartivano per il Nord Europa.

L’organizzazione era pressoché invisibile. Tutti i pagamenti a Banje erano irrintracciabili: “Usavano money transfer non registrati, illegali: è stato impossibile seguire i flussi di denaro”, precisa Setola. Le “banche informali” più diffuse si chiamano Hawala e Hundi, due sistemi diffusi in Asia e nei Paesi islamici. Funzionano esattamente come Money Gram e Western Union, solo che non esiste alcun documento da firmare, né normativa antiriciclaggio da seguire, né tracciabilità bancaria del flusso di denaro. Da qui che passa il denaro dei trafficanti, quelli che sanno con chi parlare per ottenere un visto, che non si sporcano le mani con le “carrette del mare”. Affaristi che hanno trasformato la burocrazia dell’immigrazione nella loro fonte di guadagno. —

Il limite e la decenza
Il 7 ottobre 2012, a Cosenza, Dhifalli Ali viene ammanettato mentre si reca a far la spesa con la sua compagna, incinta di tre mesi. Non ha i documenti e per lui si aprono le porte di un Centro di identificazione ed espulsione, in questo caso quello di Isola di Capo Rizzuto (Kr). Non se ne capacita, chiede spiegazioni, ma il tutto cade nel vuoto. 48 ore più tardi, salta sul tetto del Centro con altri due “trattenuti” (Aarrassi Hamza, artigiano fermato a Gioia Tauro, e Ababsa Abdelghani, cameriere bloccato a Viareggio). A chi si avvicina, i tre lanciano addosso di tutto (da pezzi di cemento a rubinetti, da cornici di finestre a grate). Dopo sei giorni di digiuno, lasciano stremati, consegnandosi. Toccata terra gli vengono contestate lesioni, resistenza a pubblico ufficiale e danneggiamenti.
Il pubblico ministero chiederà per ciascuno un anno e 8 mesi di reclusione. Il giudice del tribunale di Crotone, Edoardo D’Ambrosio, però, li assolve: non c’è reato, solo “legittima difesa”; “perché l’aggressione è ingiusta e la reazione legittima”.
I provvedimenti che avevano decretato la detenzione dei tre, infatti, erano illegittimi perché del tutto ingiustificati, e le condizioni del Centro, come riconosciuto dal giudice nella sentenza, “al limite della decenza” (esser costretti a consumare per terra i “pasti scarsi”) nonché “lesive della dignità umana”. C’è un giudice a Crotone. (df)

Newsletter

Iscriviti alla newsletter di Altreconomia per non perderti le nostre inchieste, le novità editoriali e gli eventi.