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Tutto sul tè, dalle piantagioni alle nostre tazze – Ae 11

Numero 11, novembre 2000Il tè è il tipico prodotto “coloniale”: arriva nei nostri supermercati da Paesi del Sud dove un tempo l’Europa era padrona, (salvo eccezioni, come la Cina). Oggi la dipendenza di questi Paesi dal Nord ricco ha cambiato…

Tratto da Altreconomia 11 — Agosto 2000

Numero 11, novembre 2000

Il tè è il tipico prodotto “coloniale”: arriva nei nostri supermercati da Paesi del Sud dove un tempo l’Europa era padrona, (salvo eccezioni, come la Cina). Oggi la dipendenza di questi Paesi dal Nord ricco ha cambiato faccia, ma non sostanza. Esiste una nuova colonizzazione: è quella delle aziende private che controllano la commercializzazione dei coloniali per soddisfare i nostri gusti e i propri bilanci. Le loro scelte influenzano pesantemente l’andamento del mercato, a partire dalla determinazione dei prezzi delle materie prime.
Nel caso del tè i prezzi vengono stabiliti in aste pubbliche (una delle principali è la Borsa del tè di Londra) e possono fluttuare a seconda della qualità, della domanda e dell’offerta. Ma nelle aste la spuntano spesso tre o quattro grandi nomi multinazionali.
I giganti produttori di tè sono due: l’India con 870 mila tonnellate prodotte nel 1998 e la Cina con 687 mila tonnellate. E poi, staccati nettamente, gli altri: Kenya (294 mila), Sri Lanka (280 mila), Indonesia (152 mila).
Ma i due giganti destinano la maggior parte della produzione al mercato interno: la Cina esporta solo il 31,8% di quanto produce (e cioè quasi 220 mila tonnellate), l’India il 25,8% (225 mila). Chi sul commercio internazionale del tè punta molto sono invece Sri Lanka e Kenya: il 95% e l’89% delle rispettive produzioni finiscono oltre confine.
La meta principale è l’Europa che importa 508 mila tonnellate di tè all’anno, quasi metˆ del totale mondiale. Anche i bevitori più accaniti in assoluto sono europei: irlandesi e inglesi consumano tra 2,5 e 3 chili di tè a testa ogni anno.

La catena del tè è lunga e, come accade sempre per le materie prime del Sud del mondo, i produttori guadagnano molto meno degli ultimi anelli della catena: le tappe più redditizie del viaggio del tè sono infatti la miscelazione e il confezionamento, che arrivano a pesare anche per il 50% sul prezzo finale del prodotto. Queste fasi sono in mano ad aziende multinazionali (vedi pagina 16). La più grande è Unilever Plc, che nel mondo del tè è conosciuta con i nomi di due sue controllate: Brooke Bond e Lipton.

Il tè viene coltivato prevalentemente in grandi piantagioni che possono essere aziende private, come quelle indiane, o di proprietà dello Stato come in Indonesia e Sri Lanka. Una volta raccolto, il tè deve essere lavorato subito perchè si conserva molto poco. Per questo gli stabilimenti si trovano vicino alla piantagione se non nella piantagione stessa. Ma proprio questo aspetto penalizza i piccoli produttori (che sono numerosi in Sri Lanka, India meridionale e Africa): non possono trasformare il prodotto e sono costretti a venderlo subito a intermediari, piantagioni o direttamente agli stabilimenti per la lavorazione. Il tempo di trasporto, però, ne peggiora la qualità e ne fa scendere il prezzo.
Le condizioni di lavoro variano a seconda del Paese e di regola nelle piantagioni sono migliori di quelle dei piccoli produttori. Ma in generale le rivendicazioni dei lavoratori per l’applicazione delle leggi sul lavoro e del salario minimo non hanno grande successo.
In India per esempio: qui, dopo l’indipendenza, le piantagioni sono state regolarizzate dal Plantations labour act  del 1951, che prevede salari fissi giornalieri, case per i lavoratori, scuole, luoghi di ricreazione. Ma l’applicazione della legge, denuncia la Eurpean fair trade association (Efta), “è debole e le sanzioni per chi la infrange sono così basse che i prorpietari della piantagione sono difficilmente colpiti”.
Le condizioni di vita restano molto povere. I compensi sono bassi e vengono integrati con straordinari a cottimo: i dipendenti della piantagione (soprattuto donne) sanno che più raccolgono più guadagnano.
Le case fornite dai proprietari non sono altro che baracche, gli ospedali mancano delle attrezzature necessarie a un buon funzionamento. E le scuole non sempre sono frequentate: far studiare i figli significa sottarre alla famiglia una fonte di reddito.
La situazione peggiore è quella delle donne, impiegate nella fase di raccolta, l’attività più produttiva di una piantagione: salari più bassi degli uomini, abusi sessuali, scarsa considerazione nelle organizzazioni sindacali nonostante costituiscano la maggior parte della forza lavoro.

Anche il commercio equo, che di norma privilegia le piccole realtà produttive, ha dovuto affrontare il problema.
Risultato: la Fairtrade labelling organizations (Flo), l’ombrello dei marchi di garanzia dell’equo, ha dovuto modificare i propri criteri di certificazione per permettere alle organizzazioni di commercio alternativo di acquistare il tè dalle grandi piantagioni (e non, come avviene normalmente per altre merci, da piccoli produttori in genere raggruppati in cooperative).

Chi mangia la foglia
Il destino finale del tè si gioca all’asta. È il regno dei broker, gli intermediari tra i produttori e gli importatori, che tentano di piazzare i diversi lotti di tè al miglior offerente. Negli ultimi anni è aumentata l’importanza delle aste di alcuni Paesi esportatori (India, Bangladesh, Sri Lanka, Kenya, Singapore e Indonesia), ma da sempre la storia del tè è legata alla Borsa del tè di Londra. Fondata nel 1834, si tiene una volta alla settimana. È pubblica, ma è dominata da quattro tra le maggiori aziende del tè: Brooke Bond (che è una controllata di Unilever), Premier Brands, Allied Lyons, Cooperative Wholesale Society. Una volta acquistato, il tè passa alla miscelazione e al confezionamento, per arrivare nelle nostre case con i marchi più noti.

Il commercio mondiale è dominato dalla Unilever, che produce di tutto: alimentari, cosmetici, detersivi. Nel settore tè è presente con i marchi Lipton e Ati. Possiede 76 mila ettari di piantagioni in 13 Paesi del Sud del mondo, tra cui India, Kenya, Malawi. Da queste piantagioni ricava tè, ma anche cacao, noci di cocco, palma da olio, gomma e fiori. Oltre a essere il primo commerciante al mondo di tè, quindi, attraverso la Brooke Bond Unilever si assicura anche la fase di produzione.

Altra firma nota e prestigiosa delle tazze di tè è Twinings, dell’inglese Associated British Food che a sua volta fa capo alla britannica Wittington Investment Ltd. In Italia è presente direttamente attraverso la Twinings e controlla il 21% del mercato nazionale. Tra i marchi italiani troviamo Star e Infrè della famiglia Seragnoli (forte nel settore camomille, dove controlla il 14% del mercato italiano). Entrambe, come i più grandi gruppi multinazionali, comprano il tè attraverso canali commerciali che non garantiscono salari dignitosi ai contadini che lo producono.
Particolare è il caso della tedesca Pompadour Teakanne: il 4% del fatturato arriva da tè a marchio TransFair: In Italia la Pompadour, insieme con le cooperative Coind e Conapi, ha fondato il brand Mondovero: tè, caffè, miele, zucchero e cacao acquistati dai produttori a prezzi equi a certificati Tansfair Italia. Mondovero è venduto solo nel circuito della grande distribuzione.

Così lo devono in India
Si chiamaTchai il tè che trovate ovunque in India. A ogni angolo di strada, ma basta anche meno: dove ci sono tre case di sicuro spunta un baracchino per la vendita del Tchai. Il nome non indica la qualitˆ di tè (di solito un tè nero piuttosto forte) ma distingue la particolare preparazione. Acqua e tè vengono fatti bollire in una grossa pentola su stufette a petrolio per diversi minuti, poi vengono aggiunti latte zucchero e spezie. L’ebollizione continua ancora per qualche minuto, poi il tè può essere servito.
La bevanda è comunissima -come da noi il caffè espresso- e costa 2-3 rupie a tazza, circa 150 lire. Fino a qualche anno fa il Tchai veniva venduto in tazze di terracotta a forma di tulipano. Curiosa usanza nelle stazioni ferroviarie: i venditori di tè si avvicinano al treno e ti offrono il Tchai; dopo averlo bevuto la tazza viene buttata dal finestrino. Negli ultimi tempi la terracotta è stata sostituito da bicchieri di plastica, ma è rimasta l’usanza di buttarli dal finestrino…

Un bonus equo va ai produttori
I piccoli produttori di tè scarseggiano nel commercio equo. I progetti di importazione hanno i nomi di grandi piantagioni: Stassen in Sri lanka, Ambootia in India, Luponde in Tanzania.
Olaf Paulsen, che per Flo coordina il Registro dei produttori di tè, è chiaro: è il mercato dei Paesi consumatori che non “permette di acquistare il tè dai piccoli produttori. Ci sono problemi di qualità, ma anche di logistica”. In alcune regioni, spiega, i piccoli produttori non sono molti, ma più spesso “non hanno lo stabilimento per la lavorazione e si appoggiano alle piantagioni vicine”.
Così la stessa Flo, che raggruppa i marchi di garanzia del commercio equo, ha dovuto adattare i propri criteri alla situazione. Per gli altri prodotti Flo (caffè, cacao, miele, zucchero, succo di frutta, banane) viene stabilito un prezzo superiore a quello di mercato. Nel caso del tè, visto che i produttori non vendono solo al circuito equo specie se si tratta di grandi piantagioni, il prezzo pagato dalle Alternative trade organizations (Atos) è proprio quello di mercato. A questo Flo aggiunge un “fair trade premium” di mezzo dollaro al chilo per il tè in polvere e di un dollaro al chilo per quello in foglie. Il bonus confluisce in un fondo gestito da un “joint body” (un organo interno alla piantagione che rappresenta lavoratori e proprietari) per garantire ai dipendenti dei benefici aggiuntivi: borse di studio, fondi pensione, miglioramento delle strutture scolastiche.
Le differenze più importanti rispetto ai normali criteri: per il tè, continua Paulsen, “ci si concentra di più sulle condizioni di vita e di lavoro nelle piantagioni, che devono essere quelle previste dall’Organizzazione internazionale del lavoro”.
La situazione per certi versi è anomala: il fair trade da sempre privilegia le esperienze piccole e autogestite. “Nei nostri registri ci anche delle cooperative e alcune lavorano bene, come le quattro ugandesi per esempio. Ma comunque continuiamo a cercare partner commerciali adeguati, che sappiano raggiungere un’alta qualità nei prodotti”.

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