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Opinioni

Tutti i rischi per un Paese in svendita

Guardando oltre programmi elettorali che promettono la crescita, tre incognite pesano sul futuro dell’Italia: il rafforzamento dell’euro, con relativo blocco dell’export, la mancanza di credito alle imprese, il rischio legato alla privatizzazione di asset strategici come imprese energetiche e istituti di credito

I programmi elettorali dei partiti italiani hanno individuato una serie più o meno definita di soluzioni finalizzate a far ripartire l’economia del Paese. Tutti quanti, in generale, concordano sulla possibilità che le varie misure contenute nel proprio programma siano in grado di riportare il Pil in territorio positivo a partire dal 2014 e di stabilizzarlo con una crescita media di poco più di un punto percentuale l’anno nei prossimi sei anni. Su queste ipotesi, al di là del reale grado di realizzabilità delle singole proposte, gravano tuttavia almeno tre incognite assai pesanti.

1) Esiste il rischio concreto di un significativo rafforzamento dell’euro, dovuto alla debolezza delle altre monete internazionali; un apprezzamento che, qualora divenisse superiore ad un rapporto di 1,4 sul dollaro, costituirebbe un serio impedimento alle esportazioni italiane, oggi il pressoché unico motore trainante di un’economia in aperta recessione.
L’export di vino e cibo made in Italy ha raggiunto nel 2012 i 31 miliardi di euro, il doppio del valore delle esportazioni di automobili. Finora il mercato ha retto il peso del cambio, tanto che i principali Paesi di destinazione del complesso delle merci italiane sono stati quello statunitense, con un incremento anno su anno del 16,8%, e quello giapponese, con una crescita del 19,1%. Nel caso dei prodotti dell’agroalimentare sono risultati positivi anche i dati dei mercati cinese e indiano, con percentuali di crescita stratosferiche per il formaggio, per il prosciutto e per la pasta.
È difficile, però, che un simile trend non risenta della maggior forza dell’euro, che potrebbe rivelarsi decisamente marcata a fronte di una situazione di deflazione interna ai vari Paesi europei per la caduta dei consumi e per il rigore della Bce, a cui stanno riaffluendo peraltro una parte dei prestiti concessi al sistema bancario. Il rigore in questo senso rischia di soffocare dopo il mercato interno anche quello internazionale, con una patologica oscillazione tra momenti di grande paura per eventuali default e repentini consolidamenti della valuta unica; una preoccupazione resa ancora più marcata, tra le altre cose, dalla nuova versione della Tobin Tax europea, che colpirà anche i titoli del debito pubblico rimasti invenduti alle aste e finiti sul mercato secondario, con un aggravio di costi in termini di interessi da pagare da parte dei Paesi più indebitati.

2) Appare sempre più evidente che la grande liquidità garantita dalla Bce alle banche europee non riesce in alcun modo a tradursi in credito alle imprese, e neppure il parziale congelamento degli spread sta producendo un significativo abbassamento del costo del finanziamento bancario. Dalla condizione di grande espansione dell’offerta creditizia che aveva caratterizzato l’ultimo scorcio del 2007, quando i volumi del credito ad opera delle banche italiane crescevano del 12%, si è passati al vero e proprio credit crunch del dicembre del 2012, con una riduzione del 5% dei prestiti erogati e soprattutto con un costo sempre più alto, tanto che le operazioni di finanziamento più sicure e di maggiore qualità pagano oltre due punti in più di quanto non avvenga in Germania. Sarebbe molto opportuno, in tale ottica, lavorare sul versante delle garanzie; la Bce potrebbe infatti accettare come garanzia da parte delle banche i prestiti concessi alle imprese magari utilizzando questo strumento per favorire il processo di integrazione tra le imprese stesse.

3) I recenti scandali che stanno colpendo alcune imprese partecipate dallo Stato e banche in mano alle fondazioni potrebbero generare fenomeni di rapida cessione di partecipazione azionarie con pericoli di “spezzatini” più o meno indigesti di settori di rilevante valore strategico.
Si corre il rischio, in altre parole, di acquisizioni da parte di investitori di pezzi del Pil italiano in un’ottica non sempre caratterizzata da reali piani industriali. Certo, la gestione pubblica dei pacchetti azionari in molti casi ha dato risultati assai deludenti, ma cedere asset di Finmeccanica o di Eni senza adeguate garanzie in termini produttivi oppure immaginare scalate ostili di banche sotto capitalizzate e in svendita può seriamente costituire un impoverimento nazionale, ben al di là delle già fallimentari difese della italianità in quanto tale.
Essere un Paese in svendita e bisognoso di coperture europee per il proprio debito, non tranquillizzato neppure dall’euro forte, non è il futuro da auspicare se l’Italia vuole avere un avvenire.

* Università di Pisa

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