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Tutti a scuola. Che cosa abbiamo imparato dall’emergenza

Una scuola elementare di Collegno, Torino © Cristina Renzoni

Gli studenti rientrano in aula: una ricerca sul campo, realizzata dalle ricercatrici del Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano, racconta come è andata e da dove provare a ripartire con nuovi spazi, vincoli e alleanze territoriali

Tratto da Altreconomia 233 — Gennaio 2021

Dai primi di marzo sono trascorsi dieci mesi durante i quali l’emergenza sanitaria ha prodotto dentro e attorno al mondo della scuola alcuni cambiamenti che hanno modificato prepotentemente non solo la vita quotidiana di milioni di studenti, insegnanti, personale educativo e famiglie, ma anche i modi di pensare la scuola. Certo, l’augurio è che si possa tornare presto e stabilmente alla normalità, tuttavia si profila all’orizzonte un periodo di assestamento tutt’altro che breve e proprio per questo è importante osservare i cambiamenti in atto nelle scuole, perché potrebbero rivelare dei tratti persistenti da accompagnare e sostenere.

Negli ultimi mesi ci sono stati due momenti importanti per la scuola. Il primo, tra il 7 e il 24 settembre 2020, quando tutti gli studenti sono tornati in aula dopo mesi di chiusura prolungata. Il secondo, due mesi più tardi, con il riacutizzarsi dei contagi, quando un nuovo decreto del presidente del Consiglio ha reintrodotto la didattica a distanza per la totalità delle scuole del secondo ciclo e parte delle secondarie di primo grado. Nella gran parte delle Regioni, asili nido, scuole d’infanzia, scuole primarie e le classi del primo anno delle scuole medie proseguono, invece, le attività in presenza, sebbene con alcune significative e controverse eccezioni.

Che cosa è successo in questi mesi nelle scuole italiane? Come urbaniste e ricercatrici del Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano, da alcuni anni ci interroghiamo sul ruolo delle scuole nei processi di trasformazione urbana e territoriale. Nelle scorse settimane ci siamo chieste come le autonomie scolastiche abbiano fatto fronte all’emergenza per rendere possibile il ritorno a scuola, nel rispetto dei vincoli di distanziamento fisico e delle scelte educative operate dalla comunità scolastica, e come gli enti locali abbiano gestito e supportato la riapertura. Abbiamo così deciso di osservare alcune esperienze locali, dialogando direttamente con amministratori e dirigenti scolastici.

Il quadro non è omogeneo, ma un tratto comune emerge: mai come in questi mesi è parsa evidente l’importanza dello spazio fisico delle scuole in relazione a condizioni, tempi e modi d’uso. Dirigenti scolastici, insegnanti e amministratori si sono trovati, nelle scuole chiuse, a far sopralluoghi con il metro in mano. È un’immagine emblematica. I dibattiti pubblici, la stima delle superfici disponibili ad accogliere di nuovo gli studenti in classe hanno dimostrato quanto i luoghi della scuola siano legati a doppio filo con questioni che fanno quotidianamente i conti con lo spazio, mescolando le variabili metriche con tre variabili decisive per il funzionamento della scuola: gli stili educativi e il ruolo demandato agli ambienti di apprendimento, dentro e fuori le aule; l’organico della scuola, con la presenza e la disponibilità di personale docente, educativo, amministrativo, tecnico e ausiliario; i confini delle competenze, da un lato, e delle responsabilità, dall’altro, riguardo agli spazi, nella distinzione tra soggetti deputati all’organizzazione e gestione delle attività scolastiche e dei servizi educativi, dentro e fuori la scuola, tra la scuola e la città, tra la scuola e i territori di cui è parte.

Le soluzioni approntate in questi mesi in Italia si sono confrontate con il patrimonio dell’edilizia scolastica: 39.079 edifici attivi per circa 150 milioni di metri quadrati

Tutte le soluzioni approntate in questi mesi hanno dovuto confrontarsi con il patrimonio dell’edilizia scolastica: un patrimonio ampio ed eterogeneo, stimabile in 39.079 edifici attivi (per circa 150 milioni di metri quadrati) che accolgono ogni giorno più di otto milioni di studenti, un milione di insegnanti e 200.000 dipendenti. Tale patrimonio oggi più che mai chiede di essere messo al centro del dibattito pubblico in relazione al mutamento di alcune importanti condizioni strutturali. Fra queste, ad esempio, il fattore demografico (-13% della popolazione italiana tra i sei e i 18 anni nei prossimi dieci anni) che libererà quasi due milioni di metri quadrati. Ciò significa ripensare la distribuzione territoriale delle scuole e l’organizzazione degli spazi di apprendimento in un’ottica di maggiore flessibilità e adattabilità, sicurezza e sostenibilità, con benefici su qualità degli spazi, costi di gestione e benessere di chi quegli spazi li usa.

 

Playground scolastici a Torino © Cristina Renzoni

In alcuni casi, le esperienze avviate a fronte dell’emergenza sanitaria hanno aperto a processi di apprendimento e di innovazione in queste direzioni. Le implicazioni potranno andare oltre la fase emergenziale, a condizione di mettere a fuoco contenuti e procedure per renderne possibile la socializzazione in una prospettiva più ordinaria, in tempi in cui la salute pubblica sarà una condizione meno minacciata. Proviamo dunque a farlo fin d’ora, anticipando alcune delle testimonianze raccolte in un viaggio tra diverse città d’Italia (che verrà più ampiamente restituito in un volume di Altreconomia di prossima pubblicazione), privilegiando il punto di vista degli attori pubblici che a vario titolo sono coinvolti nella riapertura della scuola e nella costruzione di un progetto per il suo futuro.

Quando la città è capace di ospitare le scuole
Luglio 2020, Milano. Il dirigente scolastico di un istituto comprensivo fa un sopralluogo presso gli spazi di un oratorio da poco ristrutturato, con una grande sala al pianterreno dotata di pareti mobili che permettono di modularne l’organizzazione in ambienti distinti; al piano primo, le aule si distribuiscono lungo un corridoio. Il dirigente e il viceparroco, insegnante di religione della scuola, coinvolto in una serie di attività rivolte ai ragazzi del quartiere, prendono le misure: la metà delle aule è abbastanza grande da accogliere alcune classi. A settembre, tuttavia, la scuola si organizza al meglio entro i propri spazi, rinunciando a fare ricorso ai locali parrocchiali. Uscire dalle aule e ampliare gli spazi della scuola implica, infatti, uno “sconfinamento” al di fuori dei propri spazi di responsabilità, oltre la soglia del plesso scolastico (un ostacolo che il dirigente era pronto a risolvere con un buon patto di corresponsabilità tra scuole, genitori e soggetti terzi, ovvero parrocchia e diocesi). Non solo: ampliare gli spazi al di fuori della scuola impone di poter disporre di un organico più ampio: sia insegnanti (a settembre ancora nominati solo in parte), sia personale ausiliario a supporto di studenti e docenti.

1,57 miliardi di bambini e giovani in oltre 190 Paesi, ovvero il 90% della popolazione studentesca globale secondo l’Unesco, hanno subìto l’interruzione delle attività scolastiche tra marzo e aprile 2020

Sull’ipotesi di rendere la città capace di ospitare le scuole si è concentrata molta attenzione in questi mesi. Il Piano scuola 2021, adottato dal ministro dell’Istruzione il 26 giugno scorso, infatti, invita a identificare spazi “altri” rispetto a quelli scolastici “attraverso idonei atti convenzionali”, con riferimento all’istituto dei “Patti educativi di comunità” come forme di accordo tra soggetti pubblici e attori privati. Tra gli obiettivi dei “Patti” vi è anche la possibilità di “favorire la messa a disposizione di altre strutture o spazi, come parchi, teatri, biblioteche, archivi, cinema, musei, al fine di potervi svolgere attività didattiche complementari a quelle tradizionali, comunque volte a finalità educative”.

I casi concreti sono tuttavia limitati. Tra questi, il progetto “Scuola diffusa” avviato dal Comune di Reggio Emilia: “Siamo partiti per tempo -racconta Raffaella Curioni, assessora a Educazione, conoscenza, città universitaria e sport- abbiamo cominciato a lavorare tra aprile e maggio, quando ancora non sapevamo se e come la scuola sarebbe ripartita. Non avevamo all’epoca nessun tipo di linee guida su cui lavorare. Siamo così andati a fare 54 sopralluoghi per capire che tipo di spazi avevamo a disposizione”. Giocando d’anticipo sulla richiesta di personale aggiuntivo presso il ministero da parte dei dirigenti scolastici e con una ricognizione attenta del patrimonio e degli spazi a disposizione, è stato possibile estendere i confini di pertinenza delle scuole, organizzando attività didattiche in diversi luoghi cittadini: musei, biblioteche, centri sociali, agriturismi. “Ci è venuto in mente -prosegue Curioni- che forse andavano cercati luoghi che potevano portare anche un contributo pedagogico ed educativo. E siamo arrivati a individuare 19 spazi che hanno dato ristoro a scuole primarie e medie”.

Uscire dalle aule e ampliare gli spazi della scuola implica, infatti, uno “sconfinamento” al di fuori dei propri spazi di responsabilità, oltre la soglia del plesso scolastico

La taglia della città, il numero degli istituti comprensivi, la tempestività nel prefigurare e tentare soluzioni, oltre che una lunga e solida tradizione nell’ambito dei servizi educativi, spiegano il successo di questa iniziativa, che rappresenta un esempio significativo anche dei modi in cui i contenuti educativi possano articolarsi e integrarsi con una pluralità di contenitori urbani.

L’uscita dallo spazio dell’aula, verso la città
Settembre, periferia di Torino. Le scuole hanno riaperto da poco i battenti. In due plessi scolastici, una scuola primaria e una scuola media, gli spazi sono generosi, ma i vincoli di distanziamento impongono alcuni cambiamenti. Già in passato i grandi corridoi sono diventati vere e proprie sale espositive: la scuola ha ospitato una manifestazione artistica che nell’arco di una intera giornata ha coinvolto studenti ed artisti, negli spazi interni e nel grande cortile comune. Per gli studenti è stato come abitare in un piccolo quartiere, completamente liberi di muoversi, in luoghi consueti, ma in modo nuovo. “Questo momento ha portato a un ripensamento della scuola, anche dal punto di vista dell’uso degli spazi, che spero possa continuare a lungo”, racconta Elena Cappai, dirigente scolastica, ora ispettrice presso l’Ufficio scolastico territoriale per il Piemonte. Come allora, l’esperienza dello spostamento dei confini è possibile anche oggi, proprio nel momento in cui tutti i movimenti sembrano essere rigorosamente regolati: una diversa organizzazione spaziale delle attività scolastiche diventa così occasione per costruire nuove esperienze di apprendimento. All’ora del pranzo alcuni studenti mangiano in aula e sono costretti a uscire per i successivi 40 minuti, per consentire le operazioni di sanificazione. Questo tempo può essere impiegato all’interno della scuola, in spazi tematici, allestiti in modo semplice, o andando a rotazione, alla scoperta del quartiere.

65% degli edifici scolastici italiani sono stati costruiti prima del 1976

“In questo modo si rendono questi spazi parte della scuola, dandogli una struttura, un quotidiano”, continua Cappai. Accade così che anche gli insegnanti si trovino coinvolti in un processo progettuale aperto, che prevede non la gita occasionale, ma la quotidiana uscita dallo spazio dell’aula verso la città. Si sono verificate condizioni sorprendenti, in questi mesi. Infatti, se da un lato la didattica a distanza ha messo fortemente in discussione l’approccio educativo più tradizionale, dall’altro il ritorno in presenza, a settembre, è stato un momento complesso: il rispetto dei vincoli rischia di provocare il ritorno a una didattica esclusivamente frontale. “Stiamo vivendo, ora, un periodo molto difficile: adesso si gestisce l’emergenza, alcune cose non si possono fare, alcuni fili educativi e di comunità si stanno indebolendo, ma la vera sfida della scuola sarà il prossimo anno scolastico: allora, la scuola dovrà mettere in campo tutte le migliori energie”.

Banchi e sedie lungo i corridoi in un istituto di Bergamo © Paola Savoldi

Le alleanze territoriali
Novembre, Napoli. tutte le scuole della Campania sono chiuse dal 16 ottobre e tornano a farsi sentire disparità e disuguaglianze tra chi segue la scuola a distanza. “La scuola è più democratica delle case” ha scritto di recente Franco Lorenzoni. E così è, non solo rispetto ai mezzi a disposizione (avere o non avere accesso a un dispositivo e a una connessione internet stabile), ma anche rispetto alle condizioni di contesto in cui si segue e si partecipa (o non si partecipa) alla didattica a distanza (Dad). La città si mobilita e costruisce un’alleanza per la scuola promossa dagli assessorati all’Educazione e alle Politiche sociali, insieme ad associazioni, enti del Terzo settore e autonomie scolastiche, coinvolgendo un numero sempre più ampio di studenti e scuole. Si consente quindi a tutti di seguire le lezioni a distanza nelle migliori condizioni possibili: in ambienti di apprendimento messi a disposizione da cooperative e associazioni, ben connessi e accoglienti, dove sono presenti educatori. Si costruisce così un progetto di “Dad solidale”: “Non fanno tutti la stessa cosa, ma tutti hanno lo stesso obiettivo: far sì che la Dad non diventi uno strumento di esclusione”, racconta l’assessora alla Scuola e all’istruzione Annamaria Palmieri.

Alcune attività a sostegno degli studenti più fragili sono state rimodulate: “Abbiamo una tale disuguaglianza in questa città che pensare di applicare un metodo unitario, cioè la Dad, su contesti così diversi è una follia assoluta. I ragazzi sono accolti nei centri in cui si fanno le attività, comprese le scuole. Non il pomeriggio, ma la mattina. Lì si sentono supportati, possono accendere il microfono, il loro telefono o il computer messo a disposizione”. Ragionando di scuola, il tema dei soggetti, dei ruoli e delle competenze è fondamentale, e va affiancato alla capacità di fare rete: “Questa ripresa educativa della scuola deve esser presa in mano da tutte le strutture che se ne occupano -auspica Milena Piscozzo- non solo le scuole, gli uffici scolastici, il ministero, ma anche le università, le associazioni. È una vera e propria chiamata all’educazione”. Inoltre, si tratta di inserire tale rete dentro una cornice, un progetto di futuro capace di mettere sul tavolo una visione strategica per tessere collaborazioni di lungo periodo, come suggerisce Loredana Poli, assessora all’Istruzione del Comune di Bergamo: “Quest’estate sia i Comuni, sia le autonomie scolastiche hanno ricevuto risorse dal ministero dell’Istruzione, per fare quasi le stesse cose. Se e dove non ci si è messi d’accordo, è stata un’esperienza fallimentare. Dove si è deciso chi fa che cosa, è stato invece più facile ottenere risultati significativi”.

 

Primo giorno di scuola materna, Milano © Paola Savoldi

Questi mesi non sono passati invano
Le criticità provocate dalla pandemia hanno confermato non solo l’importanza dell’intervento sull’edilizia scolastica, ma anche prefigurato un ruolo rinnovato delle istituzioni scolastiche, in relazione con enti e parti importanti della società civile. Le esperienze che abbiamo parzialmente ricostruito svelano elementi di forza e margini d’azione nella costruzione di nuovi “contratti sociali” capaci di regolare e calibrare l’intervento delle autonomie scolastiche e le capacità di governo degli enti locali.

Un “Contratto di scuola” propone progetti di rigenerazione urbana che partono dalla scuola, mettendo spazi e soggetti al centro di una visione strategica per il territorio

Tra le esperienze maturate in Europa negli ultimi anni, il programma Contrat École promosso dalla Regione di Bruxelles Capitale è uno dei riferimenti possibili per immaginare alcune sperimentazioni nel contesto italiano. Un “Contratto di scuola” propone progetti di rigenerazione urbana che partono dalla scuola, mettendo spazi e soggetti al centro di una visione strategica per il territorio. Grazie ad azioni materiali e immateriali, la scuola diventa centralità locale ed epicentro di quartiere, si apre al territorio e alla comunità locale, favorendo interazioni più strutturate con le altre attrezzature pubbliche (teatri, musei, biblioteche, parchi), potenziando così le reti territoriali e le relazioni scuola-quartiere.

Le condizioni per progetti di questo tipo riguardano due dimensioni, spesso distinte. La prima è la connessione degli spazi delle scuole agli spazi del loro intorno (marciapiedi, piste ciclabili, accessi, spazi della sosta, spazi aperti) per creare una sequenza di spazi pubblici tra scuola e città fatta di luoghi e servizi, spazi che sono oggi governati secondo competenze distinte e settorializzate, talvolta estranee e in competizione tra loro. In questo aspetto risiede la seconda dimensione, che riguarda il coordinamento di politiche dell’istruzione, della mobilità, politiche sociali, culturali e urbane, sia nel disegno di progetti formativi, sia nella programmazione e organizzazione degli spazi in cui tali politiche possano dispiegarsi.

Questi mesi non sono passati invano. Si sono verificate alcune accelerazioni, tanto rispetto ai possibili scenari futuri, quanto a soluzioni operative: alcuni cambiamenti non sono solo auspicabili, ma sono già realtà. E se sono stati possibili in un momento drammaticamente difficile, a maggior ragione potranno esserlo quando l’emergenza sarà almeno in parte superata.

Questo articolo anticipa parte di un viaggio tra le scuole di diverse città d’Italia che Cristiana Mattioli, Cristina Renzoni e Paola Savoldi hanno condotto insieme a Federica Patti e Anna Evangelisti e che verrà più ampiamente restituito in un volume di Altreconomia di prossima pubblicazione.

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