Una voce indipendente su economia, stili di vita, ambiente, cultura
Altre Economie / Reportage

La scommessa della Tunisia: dopo la dittatura fiorisce l’economia solidale

Donne e giovani di quattro regioni svantaggiate del Paese sono i protagonisti dei progetti di riscatto sociale sostenuti anche dall’ong italiana Cospe. Il nostro viaggio, da Tunisi a Jendouba, tra laboratori artigianali e campi agricoli

Tratto da Altreconomia 198 — Novembre 2017
Leila Horchani, 27 anni, sta stdiando per conseguire una specializzazione sull’agricoltura biologica © Paola di Salvo

Madame Baja Hizaoui ha sessant’anni e quattro figli. Si siede a terra, la schiena dritta e la pesante macina di pietra posata davanti a sé. Con la mano sinistra gira velocemente il disco superiore, con l’altra versa manciate di orzo. Separa la pula dai chicchi fino a ottenere una farina grezza che mostra con orgoglio. “Sono l’unica donna in tutta la regione di Jendouba che ancora fa questo tipo di lavorazione”, spiega. Questa tecnica permette di conservare intatto il gusto e le proprietà dei cereali.

Per lungo tempo Baja ha venduto i suoi prodotti solo ai familiari e agli abitanti del suo villaggio, nel Nord-Ovest della Tunisia, con un guadagno minimo. Ma da quando ha iniziato a frequentare “Maison Rahyana” -uno spazio di aggregazione per le donne di Jenduoba e dei villaggi limitrofi- la sua vita è cambiata: non solo ha la possibilità di incontrare altre donne, discutere dei problemi quotidiani, trovare supporto e assistenza. Ora può vendere i suoi prodotti a un pubblico molto più ampio. Mentre Baja illustra le qualità dei suoi prodotti, Nacyb Allouchi, 26 anni, presidente dell’associazione, rifinisce la grafica per le etichette di “Friga” (l’antico nome della regione di Jendouba), un marchio che riunirà i prodotti alimentari trasformati dalle donne che orbitano attorno a “Maison Rahyana”. “Stiamo portando avanti un percorso di riscoperta e valorizzazione della filiera agroalimentare di questi territori -spiega Nacyb-. Sulle etichette dei prodotti Friga verrà raccontato non solo il prodotto, ma anche la storia di chi lo ha realizzato e trasformato”.

Ma “Maison Rayhana” non è solo uno spazio imprenditoriale. La casa delle donne di Jendouba è nata sull’onda della rivoluzione del 2011, grazie all’impegno di un gruppo di ragazze che si sono aggregate attorno a un’esigenza: dare alle donne uno spazio dove trovarsi, parlare, confrontarsi e progettare. Oggi l’associazione ha sede in una bella villetta con giardino: la grande sala serve come spazio per le riunioni e le attività di formazione, una sala più piccola e dotata di pc viene messa a disposizione delle studentesse della zona, che possono accedere a internet a un prezzo contenuto. In un altro locale è stata ricavata una piccola palestra riservata alle donne. “Attualmente sono circa un centinaio quelle che frequentano le nostre attività”, spiega Nacyb.

“Maison Rahyana” è uno dei progetti che l’ong italiana Cospe, presente in Tunisia dagli anni Novanta, sostiene oggi attraverso il progetto “Initiative d’emploi en economie sociale et solidaire en Tunisie” (Iess), lanciato nel 2014 e finanziato dall’Unione europea. L’obiettivo è promuovere l’occupazione attraverso lo sviluppo dell’economia sociale, con un’attenzione particolare alle iniziative imprenditoriali dei giovani e delle donne. Fra agricoltura e turismo, trasformazione dei prodotti alimentari e artigianato, il progetto Iess si concentra in quattro regioni particolarmente svantaggiate della Tunisia: i governatorati di Jendouba, Kasserine, Sidi Bouzid e Mahdia. Proprio a Sidi Bouzid, nel dicembre 2010, sono scoppiate le proteste che hanno innescato la primavera araba, la caduta del regime di Ben Alì e l’avvio di un processo democratico nel Paese.

La rivoluzione ha portato cambiamenti epocali nella società tunisina: nel volgere di pochi mesi si sono aperte nuove opportunità di dibattito e di confronto, la società civile -prima immobile e repressa- è rinata, in pochi anni sono state fondate migliaia di associazioni. Parallelamente, si è avviato un processo democratico che ha portato all’elezione di un’assemblea costituente, alla scrittura di una nuova Carta fondamentale e all’alternanza democratica di governo.

Questo però non è bastato ad avviare una svolta economica nel Paese, segnato anche da due gravi attentati terroristici che hanno colpito il settore turistico. Nel 2012 in Tunisia il tasso di disoccupazione ufficiale è arrivato al 17,6% per poi scendere al 15% nel primo trimestre del 2017. E la mancanza di lavoro resta un problema particolarmente grave per i giovani (spesso altamente scolarizzati) e per le donne. “Una delle parole chiave della rivoluzione del 2011 è dignità”, ricorda Alessia Tibollo, referente Cospe in Tunisia e coordinatrice del progetto Iess. “L’economia sociale mira a dare una risposta alle istanze della rivoluzione, una possibilità di impiego duraturo, adeguatamente retribuito e dignitoso -spiega Tibollo-. Con il progetto Iess sosteniamo movimenti di giovani produttori e donne che vogliono fare economia in modo diverso, mettendo al centro la persona, la comunità e il territorio”.

L’interno di Maison Rahyana, a destra la fondatrice e presidente dell’associazione Nacyb Allouchi
L’interno di Maison Rahyana, a destra la fondatrice e presidente dell’associazione Nacyb Allouchi

Donne come Wahida Saadi, artigiana, attivista per i diritti delle donne e anima del progetto “Artisan Solidaire”, nato nel 2014. L’atelier occupa tutto il primo piano di una piccola palazzina nel cuore di Kasserine: una stanza con due grossi telai è adibita a laboratorio, mentre in una stanza più piccola vengono messi in mostra tappeti colorati, tessuti ricamati a mano di ogni colore, cestini e tappeti realizzati con l’alfa, una fibra vegetale resistente che cresce nella regione. “Il problema principale per le donne artigiane della regione di Kasserine sono gli intermediari. Sfruttano il loro lavoro, pagandolo a cottimo e senza riconoscere il giusto valore”, spiega Wahida. Costrette a lavorare da casa, in una situazione di isolamento, le donne sono costrette ad accettare i prezzi e le condizioni di lavoro imposte dagli intermediari. Che poi rivendono i loro prodotti con un ampio margine.

Il costo reale per un metro quadrato di tappeto, ad esempio, è di circa 50 dinari (17 euro): all’artigiana che lo realizza solitamente viene pagato meno del suo valore reale (circa 30 dinari) mentre il ricarico applicato dall’intermediario può arrivare fino a 80 euro. “Sono le donne, con il loro lavoro, a mandare avanti le famiglie. Ma sono sfruttate e spesso non possono uscire di casa -spiega Wahida-. Con il progetto Artisan Solidaire diamo loro la possibilità di uscire di casa e rendersi autonome da un punto di vista economico: un lavoro degno e adeguatamente retribuito è essenziale per la liberazione della donna”.

Lo sfruttamento della manodopera femminile è ugualmente diffuso in agricoltura: le donne sono pagate a giornata (15 dinari per otto-nove ore di lavoro) o a cottimo dai proprietari dei campi. Leila Horchani, 27 anni e un master nel settore agroalimentare all’università di Monastir, ha sfidato questo sistema dando vita a un progetto che oggi permette a lei e ad altre tre donne di vivere di agricoltura e allevamento. “Non è stato facile, non abbiamo trovato molto supporto”, spiega Leila, figlia di contadini di Sidi Bouzid. Grazie al supporto di Cospe, Leila ha messo a punto il proprio progetto imprenditoriale, ha fatto una valutazione sulla qualità del terreno per individuali quali ortaggi si adattavano meglio e ha ricevuto i finanziamenti per acquistare cinque capre (oggi ha un gregge di 35 animali) e il necessario per un impianto di irrigazione “a goccia” che riduce al minimo gli sprechi d’acqua. Dopo due anni di accompagnamento, oggi il progetto di Leila è ben avviato e lei sogna di crescere ancora. “Ci sono tante donne nella zona che vorrebbero entrare a far parte del progetto, ma in questo momento non possiamo farlo, non abbiamo abbastanza terra -spiega-. Abbiamo affittato un campo di tre ettari, che avvieremo l’anno prossimo. Purtroppo comprare i terreni qui in Tunisia è molto difficile”.

L’ambiente interno dell’atelier di “Tili Tanit”, dove lavorano cinque ricamatrici.
L’ambiente interno dell’atelier di “Tili Tanit”, dove lavorano cinque ricamatrici.

Non solo l’accesso alla terra, ma anche quello al credito è particolarmente complicato per gli imprenditori sociali tunisini. Zaafouri Mohamed Fadhel, un giovane ingegnere, ha avviato assieme a due colleghi un progetto di economia sociale per il riciclaggio della plastica a Sidi Bouzid. “Non c’è una forma giuridica che ci permetta di presentarci alle banche come impresa sociale per chiedere un finanziamento -spiega Fadhel-. Così in questa prima fase l’ho chiesto a nome mio”. “Manca una legge quadro che regoli l’economia sociale”, spiega Dalia Mabrouk, direttrice esecutiva del “Polo Citess” di Mahdia. La struttura che dirige è stata creata nel marzo 2017 e ha come obiettivo quello di fornire agli imprenditori sociali servizi di consulenza e attività di formazione coinvolgendo le istituzioni del territorio.

La situazione potrebbe cambiare in tempi brevi: il governo tunisino, infatti, ha inserito l’economia sociale nella sua “Strategia nazionale di sviluppo 2016-2020” e ha avviato un percorso che dovrebbe portare all’approvazione di una legge quadro nei primi mesi del 2018. “Entro fine 2017 inizierà la discussione in Parlamento -spiega Nawel Jabbes, incaricata per l’economia sociale presso il ministero delle Politiche agricole ed ex sindacalista-. Questa legge permetterà di dare una definizione di economia sociale, definisce il perimetro delle realtà che ne possono far parte e dei settori in cui può agire. Inoltre istituisce una serie di agevolazioni fiscali e, in prospettiva, si parla anche di una sorta di ‘banca etica’ dedicata al finanziamento di questi progetti”.

Nell’attesa che la legge diventi realtà, gli imprenditori tunisini continuano a rimboccarsi le maniche. “Ho imparato l’arte del ricamo da mia madre. Lei, le sue sorelle e sua madre erano ricamatrici. Amo quest’arte perché è un patrimonio del mio Paese”, spiega il giovane designer Najib Belhadj, creatore del marchio “Tili Tanit”. Il suo atelier impiega cinque sarte che guadagnano 300 dinari al mese oltre ai contributi sociali (che molte aziende invece non pagano). Mentre parla, Najib espone un lungo abito nuziale interamente ricamato a mano e ricco di colori accompagnato da un gilet ricamato con filo d’argento: un abito meraviglioso il cui prezzo sfiora i mille dinari. “Quando propongo i miei capi ai clienti mi sento spesso dire che i miei prodotti sono cari. Ma non posso abbassare i prezzi -conclude Najib-. Non possono sfruttare le mie lavoratrici. Sarebbe come sfruttare mia madre o mia nonna”.

© riproduzione riservata

Scarica la versione integrale del reportage

Newsletter

Iscriviti alla newsletter di Altreconomia per non perderti le nostre inchieste, le novità editoriali e gli eventi.