Finanza / Opinioni
Trump ha una visione della storia fondata sulla forza che non comprende gli “imbelli europei”

Il presidente statunitense ha radicalmente cambiato i toni sui dazi, trovando un accordo con il Partito comunista cinese. E in Medio Oriente, scortato dai grandi fondi e dalle Big Tech, punta a fare il pieno di investimenti (anche a fini personali). Chi ha sostenuto la natura positiva della globalizzazione dovrebbe assumersene le responsabilità di fronte al sempre più rapido declino europeo, caratterizzato dal trionfo delle disuguaglianze. L’analisi di Alessandro Volpi
L’accordo raggiunto a Ginevra tra Stati Uniti e Cina rappresenta la dimostrazione che il presidente Donald Trump e il suo ministro del Tesoro Scott Bessent hanno ben chiaro quanto la possibilità per i listini americani di mantenere la loro capitalizzazione passi dall’abbandono da parte della Cina di ogni ipotesi di disaccoppiamento.
Dunque, per convincere Xi Jinping a non accelerare nell’abbandono degli Stati Uniti l’amministrazione americana ha cambiato profondamente i toni, riducendo i dazi dal 145 al 30% e accettando dazi cinesi al 10%. Trump sembra aver compreso che ogni possibilità di contenere l’inflazione, di spingere la Fed a ridurre i tassi, di non far precipitare il debito federale e di non far scoppiare la bolla finanziaria tutta insieme dipende da un chiaro accordo, facilmente leggibile per il mondo, con il Partito comunista cinese.
La scelta degli Usa di accettare un bipolarismo “pacifico” con la Cina, a cui aggregare un multipolarismo con i Brics, segna la messa ai margini dell’Unione europea, contro cui si concentreranno gli strali americani. In fondo, Trump ha una visione della storia fondata sulla forza che, come accadeva per i vecchi neocon, non comprende gli “imbelli europei”. In questa prospettiva l’assenza di conflitti tra le grandi potenze dipende dalla deterrenza, come nella Guerra fredda, ma stavolta combinata a una interdipendenza economica e finanziaria generata dalla globalizzazione, di cui proprio l’Europa è stata la vittima principale, demolita da liberisti e progressisti senza grande distinzione.
Chi ha sostenuto la natura positiva della globalizzazione dovrebbe assumersene le responsabilità di fronte al sempre più rapido declino europeo, caratterizzato dal trionfo delle disuguaglianze. Cina e Stati Uniti, tuttavia, rappresentano due modelli del tutto distinti, come dimostrano le ultime “visite” compiute dalle due potenze in giro per il mondo.
Donald Trump è sbarcato in Arabia Saudita, da dove proseguirà per visitare gli altri paesi del Golfo, accompagnato dai vertici dei tre fondi egemoni (BlackRock, Vanguard e State Street), capitanati da un sorridente Larry Fink, amministratore delegato di BlackRock, da quelli delle Big Tech, con Sam Altman, Jensen Huang ed Elon Musk in bella vista, e da vari altri pezzi del capitalismo americano tra cui compare persino John Elkann.
L’obiettivo del presidente Usa è chiaro: ottenere circa 2.500 miliardi di dollari di investimenti in una decina di anni da questi Paesi per finanziare l’industria delle armi e quella delle tecnologie, garantendo, al contempo, a BlackRock e compagnia la gestione del ricco risparmio di sauditi ed emiratini. La politica estera diventa così per Trump lo strumento per superare le tensioni interne alla finanza domestica e, soprattutto, per compattarla sotto la sue insegne, magari, raccogliendo anche un paio di miliardi di investimenti nelle criptovalute di famiglia.
In sintesi, la più trita strategia statunitense, in cui rientra anche la costante ricerca del monopolio nella determinazione dei prezzi del petrolio, rigorosamente in dollari per rafforzare una dollarizzazione ora traballante. Naturalmente i colloqui saranno ufficialmente dedicati a discutere di Iran e della Striscia di Gaza. Negli stessi giorni, le delegazioni cinesi stanno impegnandosi in Brasile in una serie di incontri per ridurre la dipendenza della Cina dai cereali degli Stati Uniti.
Xi Jinping e i vertici del Partito comunista, infatti, non sembrano affatto intenzionati a mantenere in vita la centralità globale degli Stati Uniti, nonostante il temporaneo rasserenamento in tema daziario. I viaggi in Brasile, allora, hanno lo scopo di potenziare il porto di Santos, sulla costa atlantica, e di Paranaguà, nel Sud del Paese, attraverso gli investimenti di due società dello Stato cinese, Cofco e China Merchants Port Holdings.
Trump e i capitalisti Usa costruiscono la loro forza sulla finanza, accrescendo la propria dipendenza dall’estero, mentre la Cina investe nel Sud globale per creare nuove geografie commerciali e per ridurre la sua dipendenza dall’Occidente. E dal capitalismo.
Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento. Il suo ultimo libro è “Nelle mani dei fondi” (Altreconomia, 2024)
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