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Trump, Brexit e il “libero mercato” cinese segnano la fine della storia

Il magnate Donald Trump: il 20 gennaio ha giurato come presidente degli Stati Uniti - https://twitter.com/POTUS

Non esiste più il confine tra realtà e fantasia, tra vero e finzione, tra fattibile e impossibile da realizzare. La sindrome della sparata e dell’incoerenza caratterizza le proposte del nuovo presidente Usa ma anche le parole di Theresa May in relazione all’Ue e quelle dei leader cinesi a Davos

“Trump, o della fine della storia”. Questo potrebbe essere il titolo, forse un po’ stucchevole e fin troppo ambizioso, di un’opera che volesse rappresentare i nostri  tempi,  privi dei caratteri più tipici dei processi storici. L’attuale fase pare contraddistinta infatti solo da due elementi realmente ricorrenti: la celebrazione dell’incoerenza e la pervicace ricerca del consenso, fondata sull’idea che sia decisivo presentare come semplici anche le cose più complesse.
Trump è il paradigma di questi due elementi; la sua forza consiste nel dire tutto e il contrario di tutto. Predica l’isolazionismo americano come condizione della rinascita internazionale del Paese, criticando la Nato e l’Europa ma, al tempo stesso, non propone alcuna ipotesi di alleanze alternative, coltivando -non è ben chiaro con quale consapevolezza- la prospettiva della paradossale autosufficienza legata allo slogan del “produrre e comprare americano”. Una visione improponibile per un Paese che ha derivato la sua forza dall’essere stato il più grande mercato del pianeta.
La Cina ha, agli occhi del neopresidente, i segni del nemico assoluto, e l’Islam torna ad essere il grande Satana. In quest’ottica, la sola partnership possibile sembra essere quella con la Russia, che però viene riconosciuta colpevole  dallo stesso presidente di pesantissime intrusioni cibernetiche e di pericolosi dossieraggi persino nei suoi confronti.
Tutto ciò sembra destinato a trasformare la più grande potenza del mondo nella terra delle bufale -e non più dei bufali-, degli scandali e del gossip innalzato al ruolo di unico criterio di una discussione politica che si svolge nell’irreale contesto dominato dal soliloquio e dal turpiloquio presidenziale. In pratica, appunto, si profila la fine della storia sostituita dal trionfo della cronaca perenne forse narrabile solo a fumetti.
I temi del dibattito pubblico sono divenuti quelli delle sorti della famiglia Trump, di un incredibile muro con il Messico pagato dai messicani, di infinite storie rosa, di insostenibili proposte di riduzione fiscale e di paralleli aumenti della spesa pubblica, di stravaganti proposte di armare fino ai denti tutti gli americani per nascita, mentre molti elettori si dichiarano rapidamente pentiti della scelta fatta e il presidente uscente, Obama, erige condizioni di salvaguardia destinate a limitare l’azione del suo successore.

Non esiste più il confine tra realtà e fantasia, tra vero e finzione, tra fattibile e impossibile da realizzare, che si confondono nelle pieghe di un rudimentale linguaggio dell’“io voglio”. Emerge così un quadro davvero anomalo e sconosciuto anche ai peggiori b-movie. La sindrome della sparata e dell’incoerenza, però, non riguarda solo gli Stati Uniti.
In Inghilterra, dopo la Brexit, Theresa May ha imbracciato il lanciafiamme che rischia di incenerire la credibilità del suo Paese. Minacciare di trasformarlo in un colossale paradiso fiscale nel caso in cui gli europei non si rassegnassero all’egoismo british costituisce la perla di un messaggio politico pieno di incongruenze, caratterizzato dal rifiuto del mercato comune europeo ma dalla contemporanea ricerca di un accordo commerciale con l’Ue che escluda dazi doganali e che consenta all’Inghilterra di avere mani totalmente libere, chiedendo così agli ex partner europei di suicidarsi. Proporre una linea politica costruita sull’idea che tutti i vantaggi spettino all’Inghilterra e  agli altri tocchino le briciole significa rifiutare qualsiasi confronto con la realtà. Ancora più paradossale appare la pretesa di trasformare una delle realtà più multiculturali del mondo, di cui Londra è stata la felice capitale, in un territorio chiuso ad ogni forma di immigrazione, quasi fosse un villaggio celtico.
Suonano in maniera altrettanto stonate le lodi al libero mercato e alla turbo finanza professate a Davos dai leader cinesi, che paiono dimenticare la dichiarata natura comunista del loro Stato e vogliono nascondere le crisi di un Paese dal quale sono fuggiti in un solo anno 1.300 miliardi di dollari.

Sembrano davvero mancare, in questo panorama, i punti di riferimento ideali e programmatici in grado di definire le appartenenze e di dare un respiro non riducibile alla mera quotidianità. È paradossale che ciò avvenga in un mondo che sta celebrando la riscoperta delle identità autoctone, spesso alla ricerca di radici plurisecolari, e che sta consumando la deflagrazione delle grandi visioni, da quella di Occidente a quella di Europa, per riscoprire tante piccole patrie, fondate su tradizioni storiche. Lungo questa strada le geografie si rimpiccioliscono ma le loro storie, pur coltivate, vengo spazzate via dall’inconsistenza  dei messaggi che le animano. Sembra che l’unica dimensione globale sia quella della isterica difesa delle paure di un’infinita sommatoria di singoli, non più disponibile ad accettare la complessità, cancellata dalla volontà di tornare all’irragionevolezza infantile.
Michael Wolff ha individuato nell’“improvvisazione” il segno qualificante dell’azione di Trump; si tratta di una definizione che ben si adatta all’eterno presente dell’attuale quadro politico. Dopo l’elegia del passato, coltivata a lungo dai grandi partiti, si era entrati nell’era in cui “il futuro è il posto migliore” e ora siamo approdati alla fase del “tutto ora”, compreso l’impossibile, che rappresenta davvero la fine se non della storia, almeno di quella nata con l’illuminismo.

* Alessandro Volpi, Università di Pisa

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