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Diritti / Opinioni

Rohingya, la triste estate dei bambini

Sono migliaia le donne vittime delle violenze perpetrate dai soldati del Myanmar. Stupro e gravidanza sono visti come colpe. Ma non è così. La rubrica di Luigi Montagnini

Tratto da Altreconomia 207 — Settembre 2018

È presto per fare un bilancio dell’estate. Provo a seguire il suggerimento di Vittorio Zucconi, che su la Repubblica dell’11 luglio ha battezzato questa come “l’estate terribile dei bambini”, riferendosi ai drammi di quelli separati dai genitori alle frontiere meridionali degli Stati Uniti e di quelli annegati al largo delle coste libiche nelle loro magliettine rosse. Hannah Beech sul New York Times di pochi giorni prima aveva presentato un’altra “terribile” storia estiva di bambini: “When a baby is an everyday reminder of Rohingya horror” racconta delle madri rohingya fuggite in Bangladesh e rifugiate nel campo di Kutupalong, dove danno alla luce i figli degli stupri subiti dai militari del Myanmar.

Sono migliaia le donne rohingya vittime della violenza genocida perpetrata dai soldati, spesso di fronte alle loro madri, alle sorelle o alle figlie. Alcune sono state tenute prigioniere nella foresta e violentate a rotazione, per settimane. Molte di coloro che sono sopravvissute e sono riuscite a raggiungere il Bangladesh, hanno lì scoperto di essere incinta. Le più giovani, anche più piccole di 10 anni, non sapevano neppure che la tortura potesse generare dei figli. Dramma nel dramma, anche tra i rohingya la violenza sessuale è motivo di disonore per molte famiglie. Anche per questo in molte hanno deciso di abortire, spesso clandestinamente, rischiando infezioni gravissime, talvolta mortali.

Altre, a nove mesi di distanza dal picco di violenza registrato gli scorsi mesi di agosto e settembre, sono ora costrette a partorire di nascosto, nelle loro tende, senza alcuna assistenza. Tutti sanno l’origine di questo “baby boom”, nessuno ammette che riguardi la propria famiglia. Il pregiudizio è soffocante. Parti nascosti, madri traumatizzate e sole, famiglie imbarazzate, bambini non registrati: lo scenario migliore in cui sanno muoversi con abilità i trafficanti di bambini, la cui attività è cresciuta attorno al campo di Kutupalong. È lo stesso campo in cui a giugno MSF ha aperto una nuova clinica ostetrica. La struttura è fatta per rimanere asciutta nella stagione delle piogge, quando il campo diventa un’enorme palude ed è dotata di stanze singole, per permettere alle mamme di rimanere anonime: almeno quattro parti su dieci infatti sono di donne vittime di violenza e anche ora che i militari del Myanmar sono lontani, il primo ostacolo per poter ricevere assistenza sanitaria rimane la paura. Queste mamme hanno bisogno, prima di ogni altra cosa, di essere rassicurate che lo stupro e la gravidanza non sono una colpa.

MSF lavora insieme ad altre organizzazioni e a volontarie per offrire assistenza psicologica oltre che medica. Anche così, quattro donne rohingya su cinque partoriscono comunque a casa: sono per questo motivo frequenti i ricoveri successivi al parto, per emorragie e infezioni. Anche i bimbi che ce la fanno non avranno mai un certificato di nascita: no status di rifugiato, nessuna cittadinanza, zero istruzione. La loro libertà di movimento finirà al primo posto di blocco appena a Nord dei campi. “Brutto segno, bruttissimo, quando i bambini irrompono sulla scena dei drammi e delle tragedie del mondo e la occupano, perché è sempre da loro, dai più deboli, che si manifestano la crudeltà e l’impazzimento del tempo”, conclude Zucconi. Sì, anche se sappiamo bene che anche quando non la occupano la scena, i bambini del mondo, non per questo smettono di soffrire.

Luigi Montagnini è un medico anestesista-rianimatore. Dopo aver vissuto a Varese, Londra e Genova, oggi vive e lavora ad Alessandria, presso l’ospedale pediatrico “Cesare Arrigo”. Da diversi anni collabora con Medici Senza Frontiere.

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