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Economia

Trenta milioni di schiavi nel mondo

Il rapporto di Walk Free Foundation stima il numero di persone sottoposte a regimi coercitivi: non solo lavoro, ma anche matrimoni precoci e sfruttamento commerciale e sessuale. Il Paese dove il fenomeno è maggiore in assoluto è l’India, quello dove il tasso è più alto la Mauritania.
Non mancano i Paesi più "ricchi"
 

La schiavitù è un problema globale tutt’altro che superato. Lavoro forzato, matrimoni precoci e sfruttamento commerciale e sessuale di minori sono solo alcune fra le forme moderne che la schiavitù assume. WFF – Walk Free Foundation, movimento globale contro la schiavitù, ha tentato di offrire una mappatura della situazione globale pubblicando il primo Indice globale della schiavitù.
Secondo il rapporto, sono quasi 30 milioni le persone schiavizzate nel mondo. Combinando tre fattori -il numero di persone schiavizzate, il matrimonio precoce e il traffico di esseri umani– il rapporto stila una classifica mondiale dei 162 Paesi analizzati per poi suggerire ai governi degli Stati interessati quali possono essere le azioni efficaci per combattere la schiavitù moderna.
Se il primo dei tre fattori è un dato inedito, e cioè la percentuale di persone schiavizzate stimata direttamente da WFF, gli altri due risultano dai dati sui matrimoni precoci forniti dall’Unicef -Fondo delle nazioni unite per l’infanzia- e dal rapporto statunitense Trafficking in Person sulla tratta degli esseri umani.
Secondo le stime della Walk Free Foundation, il Paese più schiavizzato è la Mauritania, regione dell’Africa occidentale in cui la schiavitù ereditaria è profondamente radicata. In questa regione, circa 150mila persone subiscono lo sfruttamento, su una popolazione totale di appena 3,8 milioni. Segue Haiti, nazione caraibica con più di 200mila schiavi. A incidere sul numero complessivo è, in questo Stato, l’alta diffusione di schiavitù infantile e del traffico di esseri umani.
In Pakistan, Paese che occupa il secondo posto nella classifica globale, più di 2 milioni di persone vivono in condizioni di sfruttamento. Come si legge nel rapporto, “un’economia debole, il deterioramento dello Stato di diritto, e una popolazione in continua crescita hanno contribuito ad aumentare il numero di persone schiavizzate, in particolare di bambini e persone costretta al lavoro coatto”.

Se però si considera il numero di “schiavi” in termini assoluti, la classifica globale cambia. Al primo posto c’è infatti l’India, Paese in cui circa 14 milioni di persone –quasi la metà del numero totale di esseri umani schiavizzati- vivono in condizione di schiavitù. Cause principali di questo sfruttamento sono il lavoro coatto e la schiavitù per debiti. Insieme all’India, gli Stati che occupano i primi dieci posti per il numero di persone schiavizzate in termini assoluti sono, in ordine, Cina, Pakistan, Nigeria, Etiopia, Russia, Thailandia, Repubblica Democratica del Congo, Birmania e Bangladesh: in questi Paesi si concentra il 76% della stima totale.
WFF raccomanda ali governi degli Stati afflitti dall’emergenza schiavitù di elaborare un piano d’azione nazionale, lanciare campagne di sensibilizzazione, realizzare stime nazionali e pubblicare relazioni annuali sulle misure adottate per combattere la schiavitù moderna.
Dal rapporto emerge inoltre tutti i Paesi analizzati, anche quelli più sviluppati, sono interessati al fenomeno di sfruttamento di essere umani.

In Italia, ad esempio, WFF stima che ci siano circa 8mila persone schiavizzate. In fondo all’Indice si trovano Regno Unito (con più di 4mila persone), Irlanda (circa 300) e Islanda (meno di 100). “Come succede anche nel vicino Regno Unito –scrivono i relatori della WFF- i bambini vengono costretti a lavorare in Irlanda nelle fattorie di cannabis. Ci sono stati anche casi di bambini sfruttati sessualmente e costretti in una condizione di servitù domestica”, ma anche casi di “rimozione illegale di organi, adozioni illegali, accattonaggio e borseggi forzati”. Il fenomeno principale di schiavitù islandese riguarda “l’industria del sesso”.
L’Indice è stato approvato dall’ex segretario di Stato statunitense Hillary Clinton, dall’ex primo ministro inglese Tony Blair e da quello australiano Julia Gillard, oltre che da imprenditori tra  cui Bill Gates, Richard Branson e Mo Ibrahim.

 

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