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Diritti / Opinioni

Forze dell’ordine e trasparenza: il decreto Minniti è un’altra occasione mancata

Il ministro dell'Interno, Marco Minniti - © flickr Palazzo Chigi

Dal dispositivo sulla sicurezza del ministro dell’Interno sono stati tolti i “codici di reparto” per gli agenti in divisa. Una misura comunque inutile visto che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato il nostro Paese per non aver introdotto i codici personali di riconoscimento dopo gli abusi del G8 di Genova. Il commento di Lorenzo Guadagnucci

Il nuovo “decreto sicurezza” firmato dal ministro Marco Minniti -ultimo di una serie cominciata con il governo Prodi- ha suscitato un’imprevista polemica per l’intervento critico di Roberto Saviano, che in un articolo sul quotidiano la Repubblica è andato subito al sodo, dicendo che il decreto “ha toni razzisti e classisti”, visto che si propone di tutelare il “decoro” affidando poteri discrezionali ai sindaci, col risultato di portare alla “criminalizzazione” di clochard, migranti, emarginati. Minniti ha risposto a stretto giro di posta con un pezzo-intervista uscito sullo stesso giornale nel quale cerca di sostenere che il suo decreto “non è di destra”, senza tuttavia fornire risposte convincenti ai punti indicati da Saviano (e da altri): la pericolosa insistenza sul decoro, l’arma messa in mano a tutti gli aspiranti sindaci-sceriffo, un’idea di sicurezza dalla forte tensione autoritaria e nutrita di ricerca di consenso sul mercato della paura.

Ma non ha molto senso buttare la croce addosso a Minniti, che in fondo arriva buon ultimo nelle politiche neosecuritarie dei governi di centrosinistra (dall’ordinanza sui lavavetri del Comune di Firenze e dal decreto sicurezza del governo Prodi in poi, anno di grazia 2007) e semmai fornisce l’ennesima dimostrazione di una vecchia massima attribuita all’avvocato Agnelli, secondo la quale per far passare le misure più pesanti (più pesanti per gli altri, non per l’avvocato e il suo ceto sociale d’appartenenza) occorre un governo di sinistra (oggi più modestamente diciamo di centrosinistra), con il che l’affanno con il quale Minniti allontana da sé lo spettro dell’etichetta “destra” pare uno sforzo superfluo.

Nella discussione su decoro e sindaci-sceriffo ha fatto capolino anche una vecchia, irrisolta questione: l’introduzione dei codici di riconoscimento per gli agenti in servizio di ordine pubblico. Nella versione originaria del decreto era prevista una norma ad hoc poi cancellata, ma il ministro ha garantito che sarà oggetto di un provvedimento specifico. Pare che i codici sulle divise siano considerati una misura “di sinistra” e forse per questo Minniti intende metterla sul piatto (sinistro) della bilancia. Si tratta tuttavia di un inganno, per usare un termine gentile, visto che il ministro non parla di un codice di riconoscimento personale bensì di un codice di reparto, quindi uno strumento inservibile per i magistrati che dovessero indagare per abusi commessi da uomini in divisa.

Al ministro dell’Interno, di destra o di sinistra che sia, dev’essere sfuggito un episodio chiave della storia recente delle nostre forze dell’ordine: l’irruzione alla scuola Diaz il 21 luglio del 2001. L’operazione -ufficialmente una perquisizione– si risolse in un pestaggio sistematico qualificato come tortura dalla Corte europea per i diritti umani (sentenza Cestaro contro Italia del 7 aprile 2015) e fu condito da un’interminabile serie di falsi. Ebbene, nessuno dei picchiatori è stato condannato per quel fatto e non a caso la Corte di Strasburgo ha chiesto all’Italia di introdurre codici personali di riconoscimento sulle divise: se gli agenti entrati alla Diaz e autori dei pestaggi li avessero indossati, sarebbero stati probabilmente riconosciuti e quindi condannati, risparmiando fra l’altro all’Italia la pessima figura davanti all’alta Corte.

I codici di Minniti, invece, non sarebbero serviti a niente: i pubblici ministeri impegnati nel processo Diaz sono riusciti per conto loro a individuare i reparti entrati nella scuola, sono mancati invece i riconoscimenti personali. Viene da chiedersi allora a quale gioco stiamo giocando. Il ministro pensa forse che il suo decreto sui codici -se e quando arriverà- possa essere considerato una risposta alla richieste di Strasburgo? Minniti non è uno sciocco e sa bene che non è così. Perché dunque pensa di mettere la firma in calce a un provvedimento così poco serio?

È difficile comprendere certe logiche, ma è possibile che il ministro ritenga i codici di reparto il massimo impegno di trasparenza che si possa imporre a forze di polizia recalcitranti di fronte a tutte le misure di responsabilità indicate dalla Corte europea: dalla previsione di un crimine di tortura specifico del pubblico ufficiale e imprescrittibile alla necessità di sanzionare per via disciplinare (con sospensioni e in ultima istanza radiazioni) gli agenti colpevoli di gravi abusi. È una logica politica minimalista e distruttiva, che accompagna le nostre forze di polizia, ma si può dire l’intero sistema istituzionale, fuori dai binari tracciati dalla Convenzione europea per i diritti umani, che è come dire verso un radicale indebolimento di ciò che chiamiamo democrazia.

E dire che all’indomani del G8 di Genova il primo a chiedere l’introduzione dei codici di riconoscimento personale sulle divise non fu un esponente del movimento altermondialista, bensì un personaggio che il ministro Minniti conosce bene, ossia Pippo Micalizio, braccio destro del capo della polizia Gianni De Gennaro, inviato in città per un’ispezione sul caso Diaz. La relazione di Micalizio fu subito chiusa in un cassetto e lì è rimasta.

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