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Transizione ecologica: il costo dell’estrazione del manganese in Sudafrica

Una manifestazione di protesta organizzata dall'associazione Mining affected communities united in action (Macua) © Macua

Il minerale è fondamentale per la produzione di turbine o batterie delle auto elettriche. L’estrazione si concentra soprattutto in Sudafrica, dove i giacimenti hanno un rilevante impatto sulla salute e sul rispetto dei diritti delle comunità locali. “La transizione giusta non può essere costruita sullo sfruttamento”, denunciano in un report SOMO e ActionAid

La transizione non può fare a meno del manganese, un minerale essenziale per la produzione di ferro e acciaio, e che trova ampio impiego anche nella produzione di batterie delle auto elettriche e ibride, in particolare per quelle di nuova generazione. La costruzione di una singola turbina eolica, ad esempio, richiede tra i 1.350 e i 2.565 chilogrammi di manganese. E nel caso di turbine particolarmente alte o da installare offshore la quantità di manganese necessarie per la produzione cresce ulteriormente (fino a 4mila chilogrammi per una singola turbina) all’aumentare della quantità di acciaio necessario per la produzione. E la domanda di questo minerale è destinata a crescere nei prossimi anni, con l’avvicinarsi delle scadenze fissate dai singoli governi e dall’Unione europea per diminuire la dipendenza da fonti fossili. La sola Olanda avrà bisogno di una quantità di manganese compresa tra le 11.520 e le 23mila tonnellate con cui costruire turbine per produrre elettricità da fonti rinnovabili entro il 2030. Un quantitativo destinato a quadruplicarsi (tra le 41mila e le 84mila tonnellate) entro il 2050.

Le stime sono contenute nel report “Manganese matters” un nuovo report curato dal centro per le ricerche sulle multinazionali olandese SOMO e da ActionAid. Che non si limita a fotografare la “fame” globale di questo minerale, ma analizza l’impatto che l’estrazione di questo minerale ha sulle comunità locali che vivono nella provincia del Capo Settentrionale in Sudafrica. Il report si concentra sul Paese che detiene i principali giacimenti mondiali di manganese (circa il 75% del totale) e che nel 2019 ne ha esportate circa 20 milioni di tonnellate per un valore di quattro miliardi di dollari. La ricchezza del sottosuolo però, come spesso accade, non va a beneficio degli abitanti della regione: “Le compagnie minerarie esportano grandi quantità di ricchezza mineraria ma contribuiscono solo in minima parte alle comunità locali. L’industria del manganese contribuisce solo per l’8,3% al Pil del Sudafrica, nonostante rappresenti il 25% delle esportazioni”, denuncia ActionAid.

I giacimenti si concentrano in particolare nella provincia del Capo Settentrionale che, pur essendo la quarta provincia più ricca di siti del Paese, ha uno dei più alti livelli di povertà e di disoccupazione del Sudafrica, oltre a un basso livello di istruzione, si legge nel report. All’interno delle comunità è la componente femminile a pagare il prezzo più alto: nel 2015 il 56,5% delle donne nella provincia viveva al di sotto della soglia di povertà rispetto al 51,8% degli uomini.

“Minerali come il manganese sono cruciali per la decarbonizzazione delle nostre economie e per contrastare la crisi climatica. Ma una transizione giusta non può essere costruita sullo sfruttamento e sulla violazione dei diritti umani -commenta Julia Sanchez, segretario generale di ActionAid International-. Le famiglie che vivono vicino alle miniere soffrono di una povertà estrema e di livelli di disoccupazione vertiginosi. Le loro comunità mancano di servizi di base, compresi centri sanitari e scuole. Il tutto in una zona considerata inadatta all’insediamento umano a causa dei rischi per la salute. Le aziende -dai giganti delle compagnie minerarie ad alcune delle più importanti case automobilistiche del mondo- devono assumersi la responsabilità dell’impatto che la transizione energetica sta avendo sulle comunità vulnerabili”.

L’inchiesta condotta da SOMO e ActionAid all’interno di tre comunità, Magojaneng, Maipeng e Vergenoeg, che vivono nei pressi dei bacini minerari, ha evidenziato una serie di criticità, a partire dall’accesso all’acqua: le miniere di manganese, infatti, riducono la già scarsa quantità di acqua potabile a disposizione, mentre quella ancora disponibile spesso è inquinata o contaminata. Il 57% delle persone intervistate ha affermato di non avere accesso all’acqua o di dover percorrere lunghe distanze per riuscire a trovarla. Il 62% si è poi detto preoccupato per la qualità dell’acqua.

Molti degli intervistati (il 75%) soffrono di malattie respiratorie legate in particolare all’elevatissima presenza di amianto: molte delle case e degli edifici, comprese le scuole, nella zona sono costruiti con questo materiale che, prima dell’apertura delle miniere di manganese, veniva estratto nella zona. Inoltre, le esplosioni delle miniere scuotono la terra e gli edifici realizzati in amianto, liberando continuamente nell’aria fibre che vengono respirate dagli abitanti.

“Donne e ragazze sono le più colpite dalle attività delle miniere e sono particolarmente a rischio di subire violenze di genere -si legge nel report-. Sono costrette a percorrere a piedi lunghe distanze per trovare acqua pulita o per recarsi in una clinica”. Condizioni che le espongono al rischio di subire abusi e violenze. Inoltre, per le donne che vivono in quest’area è difficile trovare un lavoro e mantenere la propria famiglia: la prostituzione, spesso, è l’unica opzione possibile per sopravvivere. Matlhogonolo Mochware è un’attivista locale dell’associazione “Women affected by mining united in action” (Wamua) ed è stata vittima di violenze da parte di un minatore e oggi aiuta le donne della comunità a sfuggire sfruttamento e abusi. “In molte miniere i lavoratori operano come contractors e arrivano qui da altre province. Le donne che hanno bisogno di guadagnare finiscono con il prostituirsi. Pensano che alcuni lavori paghino poco, mentre con il sesso a pagamento possono fare più soldi. E di conseguenza altri impieghi sono una perdita di tempo”, spiega.

“ActionAid e SOMO esortano gli Stati dell’Unione europea ad approvare una legislazione forte e applicabile sul rispetto dei diritti umani, che dovrebbe essere discussa dalla Commissione a settembre -concludono le due organizzazioni-. La normativa coprirebbe l’intera catena di approvvigionamento. Ciò significa, per esempio, che le aziende dell’Ue potrebbero rifornirsi di manganese solo da aziende che rispettano i diritti umani e l’ambiente nelle loro operazioni”.

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