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Transgenico Far West – Ae 70

Le multinazionali biotech cercano di entrare in Africa Occidentale -nuova terra di conquista- a partire dal cotone ogm. Sfruttando l’immagine del continente affamato, dei bambini con il pancione e ricorrendo a dosi massicce di propaganda. Ma i contadini locali si…

Tratto da Altreconomia 70 — Marzo 2006

Le multinazionali biotech cercano di entrare in Africa Occidentale -nuova terra di conquista- a partire dal cotone ogm. Sfruttando l’immagine del continente affamato, dei bambini con il pancione e ricorrendo a dosi massicce di propaganda. Ma i contadini locali si organizzano e fanno muro

I sostenitori più accaniti ti promettono meno pesticidi e raccolti più abbondanti. Ti raccontano di Paesi africani che “vedono nel transgenico una soluzione per lottare contro la fame e la povertà”. Come Cyr Payim Ouédraogo, giornalista del Burkina Faso che a novembre ha partecipato a una tre-giorni a Niemey, in Niger, sulla “copertura mediatica delle biotecnologie agricole in Africa Occidentale: vincoli e opportunità per la stampa in Africa Occidentale”. Un vero e proprio corso per giornalisti (con 33 partecipanti da Burkina Faso, Costa d’Avorio, Mali, Niger e Senegal) con l’obiettivo esplicito di formare i rappresentanti della stampa saheliana sul potenziale dell’ingegneria genetica in una regione dove “il ritardo dei ricercatori e dei Paesi africani nel campo delle biotecnologie moderne non facilita una comprensione di questa pratica scientifica di precisione”, come ha poi riportato lo stesso Cyr Payim Ouédraogo sul quotidiano burkinabé L’Observateur Paalga.

Si fa sempre più forte la pressione sui Paesi dell’Africa Occidentale perché sposino gli ogm in agricoltura, e investe i più alti livelli istituzionali della regione, come dimostrano tra l’altro le conferenze ministeriali sull’agricoltura transgenica del 2004 in Burkina Faso e del 2005 a Bamako, in Mali, cui dovrebbe seguire l’appuntamento di Accra, in Ghana, nel giugno del 2006. Il binomio ogm-Africa è stato costruito sfruttando l’immagine del continente affamato, dei bambini neri con il pancione, giocando sull’idea che il cibo manchi per l’impossibilità di produrlo a condizioni ordinarie, mentre l’ingegneria genetica avrebbe un’intrinseca aura di “straordinarietà”, cercando in questo modo di riscattare l’industria biotech dall’immagine di un’imprenditoria multinazionale egoista e vocata al mero profitto.

Una partita che si gioca a livello politico, sfruttando apposite organizzazioni di lobby pro-ogm (vedi pag. 10)- e grazie a tanta propaganda. Propaganda che va alimentata anche in loco, come dimostra il corso di Niamey per i giornalisti, che tra i relatori vantava anche Josette Lewis a capo dell’agricultural biotechnology effort di Usaid, l’agenzia statunitense di cooperazione allo sviluppo considerata da molti la faccia istituzionale dietro cui operano le principali multinazionali del settore, Monsanto e Syngenta su tutte. Il Burkina Faso, dove è iniziato il ciclo delle conferenze ministeriali, si è finora dimostrato come il più sensibile all’offerta transgenica tra i Paesi di quest’area. A partire dal cotone, per il quale è stata approvata la prima coltivazione sperimentale dell’area. L’autorizzazione è stata concessa a varietà biotech di Monsanto e Syngenta nel 2003 e prorogata nel 2004 senza però estendersi anche a coltivazioni realizzate a scopo commerciale. Il cotone è la principale coltura (in valore) dell’Africa Occidentale e nel Burkina è coltivato da 2,5 degli 11 milioni di abitanti del Paese, per i quali costituisce la principale fonte di reddito familiare; rappresenta il 35% circa del prodotto interno lordo ed è il primo prodotto d’esportazione per circa 500 milioni di dollari (nel 2004), equivalenti al 60% dell’entrate del Paese. Dunque un settore strategico dal punto di vista economico, sia per le famiglie che per lo Stato.

Il cotone geneticamente modificato potrebbe essere l’avanguardia di un’agricoltura biotech saheliana, che rischia però di fermarsi qui, visto che ricerca e sperimentazione su piante o animali transgenici appositamente studiati per gli ambienti aridi e di interesse per le comunità contadine locali sono assai limitate. Lo ha sottolineato anche la Fao che, in occasione della sua conferenza ministeriale africana di Bamako a fine gennaio ha denunciato l’assenza, nella maggior parte dei Paesi del continente, di norme di biosicurezza, ovvero di un quadro normativo che regoli l’introduzione di ogm nell’ambiente e salvaguardi dalla contaminazione genetica la biodiversità, in particolare quella di interesse agrario.

Cotone transgenico, dunque: le varietà da introdurre nella regione sono del tipo “Bt”, realizzate per resistere alle larve di insetti che si nutrono della pianta, uccidendola; una tecnologia la cui commercializzazione è stata salutata con interesse dai coltivatori statunitensi, australiani, cinesi e indiani che nei primi anni di coltivazione hanno riscontrato risposte agronomiche positive, ma che ha dimostrato lacune alla prova del tempo. Come in India, dove le autorità dell’Andhra Pradesh hanno vietato, con un provvedimento che non ha precedenti, la commercializzazione di varietà di cotone ogm già autorizzate, a causa del loro fallimento colturale e del rifiuto di Monsanto-Mahyco (la joint venture che commercializza i semi) di risarcire i coltivatori per circa 450 milioni di rupie (quasi 8,6 milioni di euro): un indennizzo che avrebbe dovuto compensare le perdite per i maggiori costi delle sementi, per il ricorso imprevisto ad alte dosi di insetticidi chimici contro i parassiti, e per il raccolto inferiore al previsto.

Ma se da un lato le corporation del transgenico cercano di entrare in Africa Occidentale, dall’altro le organizzazioni di base dei contadini fanno muro. A partire da una considerazione: in questo periodo il valore del cotone è in storico ribasso e il mercato internazionale è condizionato dal dumping. La situazione accomuna sia contadini indiani che africani, questi ultimi “protagonisti” delle Conferenze della Wto, a partire dal Vertice di Cancun, quando il cotone africano è stato al centro di un duro e infruttuoso negoziato a causa del protezionismo esasperato degli Stati Uniti a vantaggio della filiera nazionale della fibra. Un dato che non sfugge ai coltivatori del Mali, che polemicamente domandano: “Se il cotone Bt è così vantaggioso dal punto di vista dei profitti, perché gli Stati Uniti continuano a sovvenzionare con miliardi di dollari i loro coltivatori di cotone?”.

In effetti, secondo le associazioni contadine africane sempre più e sempre meglio organizzate, la potenziale mancanza di efficacia agronomica non è l’unico limite alla realizzazione della panacea biotecnologica: come ha ricordato il Roppa (la Rete delle organizzazioni contadine dell’Africa Occidentale) ai ministri riuniti a Bamako per il secondo incontro sulle agrobiotecnologie, gli ostacoli per i produttori saheliani si chiamano siccità ricorrente, pressione parassitaria (malattie, insetti, infestanti), scarsa fertilità dei suoli, acidità e salinità dei terreni, erosione idrica ed eolica, difficoltà di commercializzazione dei raccolti, volatilità dei prezzi, concorrenza sleale sui mercati nazionali, regionali e internazionali. “Quello che ci sconcerta -dicono i rappresentanti del Roppa- è che ci si faccia credere che con gli ogm i nostri problemi siano finiti”.

Ma la fame non è modificata

L’Africa non vuole aiuti alimentari geneticamente modificati: gli ogm incrociano il dramma delle emergenze umanitarie a partire dal 2002, quando 13 milioni di persone cadono vittime della fame nell’Africa Australe e i governi di Zambia, Zimbabwe e Mozambico decidono di respingere mais transgenico sotto forma di aiuto alimentare. Un fatto analogo si è ripetuto anche in tempi più recenti, nel 2004, quando Sudan e Angola hanno rifiutato aiuti transgenici (e per questo sono stati criticati dal Pam, il Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite, e da Usaid). Al rischio di contaminazioni da ogm si aggiungono altre gravi conseguenze: si introduce un prodotto non desiderato nel Paese in un momento di alta vulnerabilità; si creano le condizioni per la diffusione nell’ambiente di organismi transgenici; si inquinano le produzioni ogm-free danneggiando il potenziale di esportazione verso l’Europa (come avviene in anni non calamitosi).

E la pizza rischia grosso

E se pane, pasta e pizza in Italia fossero geneticamente modificati? L’interrogativo, nato dopo la richiesta di Monsanto di immettere sul mercato frumento transgenico, è stato girato dal Consiglio dei diritti genetici (Cdg) a imprese e organizzazioni di categoria del sistema agroalimentare italiano e a istituti pubblici di ricerca nell’ambito dell’iniziativa “Grano o Grane” avviata dallo stesso Cdg e promossa da Coldiretti, AssoCap, Cna Alimentare, Flai-Cgil e Coop, e sostenuta finanziariamente da molte aziende del settore. Il frutto di questo lavoro è ora raccolto nel libro omonimo: Grano o grane. La sfida ogm in Italia (a cura di Luca Colombo-Cdg, Manni Editori, 240 pagine, 16 euro), che ricostruisce le tappe della mobilitazione italiana e planetaria anti-ogm, le ragioni della fallita introduzione sul mercato di frumento biotech e, attraverso una raccolta di saggi monografici, affronta il caso del grano ogm nelle sue ricadute in campo economico, nutrizionale, agricolo e culturale. Info: www.mannieditori.it

La faccia presentabile della lobby biotech

La propaganda pro-ogm ha bisogno di un volto credibile, rassicurante, e di una buona dose di slogan facili da ricordare. Cosa potrebbe esserci di meglio di una donna africana, scienziata, nata per di più in una famiglia numerosa e poverissima? Verrebbe quasi da pensare a un copione scritto a tavolino se questa non fosse, in realtà, la storia di Florence Wambugu, 53 anni, nota ricercatrice kenyana legata a Monsanto e a organizzazioni formalmente non profit (ma sostenute dall’industria biotech), nate per “portare i benefici delle nuove biotecnologie agricole ai poveri nei Paesi in via di sviluppo”.

Da quasi quindici anni a questa parte, il piatto forte della dottoressa Wambugu è la patata dolce modificata. Un progetto nato nei laboratori di Saint Louis della Monsanto, dove la ricercatrice mette piede nel 1992 grazie a una borsa di studio del Dipartimento dell’agricoltura statunitense, in collaborazione con la Washington University e la stessa multinazionale. Da allora Wambugu decanta i prodigi della sweet potato transgenica: resistente ai parassiti, dovrebbe garantire raccolti più abbondanti ed essere anche più nutriente. Insomma, una vera e propria manna per un continente affamato come l’Africa, dove la patata dolce è tra gli alimenti di base.

Il lavoro di Florence Wambugu è stato a lungo veicolato come la dimostrazione di un’attività di ricerca transgenica endogena, “pro-poor” e dal traguardo imminente. Non importa se in realtà, dopo tanti anni, il progetto della sweet potato è ancora fermo alla sperimentazione, né che nel 2004 la tecnologia sia stata definita un fallimento dal Kenya Agricoltural Research Institute.

Quello che conta davvero è che di ogm se ne parli, e che se ne parli bene. Oggi, tra l’altro, la dottoressa Wambugu ha dato vita a una sua struttura pro-ogm, (la Africa Harvest Biotech Foundation) e non perde occasione per intervenire a conferenze e panel internazionali di promozione dell’ingegneria genetica.

Ma il sostegno incondizionato di Florence Wambugu agli ogm (grazie alla “rivoluzione biotech”, dice, l’Africa potrebbe uscire da “decenni di disperazione economica e sociale”) punta su un argomentare semplicistico, che sposta l’attenzione dalle questioni reali, come sottolinea Dominic Glover dell’Institute of Development Studies dell’Università del Sussex: gli ogm, infatti, non risolvono i principali problemi dei contadini africani, “come la povertà, il diritto alla terra, la mancanza di accesso al credito, e la fragile rete dei servizi”. La lobby pro-biotech in Africa non però è un’esclusiva della Wambugu: in questo settore nascono sempre più organizzazioni (spesso legate a multinazionali straniere), come AfricaBio in Sudafrica, l’African Agricultural Technology Foundation in Kenya, la Burkina Biotech Association in Burkina Faso o la Biotechnology Outreach Society of Zambia.

Info:
http://www.gmwatch.org/p1temp.asp?pid=37&page=1

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