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Tra i braccianti di Saluzzo

Ogni estate vengono in provincia di Cuneo per raccogliere la frutta. Originari del Burkina Faso, Costa d’Avorio e del Mali, da quattro anni vengono attirati dalla piana cuneese, famosa soprattutto per le sue mele IGP (Indicazione Geografica Protetta). Quest’anno sono arrivati a essere quasi 600 ma solo un centinaio di loro hanno ottenuto un lavoro con contratto stagionale. Gli altri circolano in bici per le campagne in cerca di un impiego e di una chiamata dai datori di lavoro.
 

La Fiera delle macchine agricole di Saluzzo (Cuneo) è una delle più importanti d’Italia nel settore. Quest’anno si è svolta a cavallo tra agosto e settembre presso lo spazio del Foro Boario e ha richiamato migliaia di persone, soprattutto agricoltori e allevatori. Il padiglione che attrae di più è sicuramente quello delle “frisone”, le mucche da latte preferite dai contadini per via della loro resa: ogni frisona è capace da sola di produrre 30 litri di latte al giorno. Sarà per questo che vengono pettinate e tirate a lucido: per loro la fiera ha dedicato anche un concorso di bellezza.

Accanto a questi animali ben curati, ogni anno sorgono decine e decine di tende di fortuna, vere e proprie baracche costruite in cartone e coperte da teli di plastica. Sono le “abitazioni” dei braccianti agricoli africani che ogni estate vengono a Saluzzo per raccogliere la frutta e che fanno di questa cittadina una vera e propria “Rosarno del Nord”. Originari del Burkina Faso, Costa d’Avorio e del Mali, da quattro anni vengono attirati dalla piana cuneese, famosa soprattutto per le sue mele IGP (Indicazione Geografica Protetta). Quest’anno sono arrivati a essere quasi 600 ma solo un centinaio di loro hanno ottenuto un lavoro con contratto stagionale. Gli altri circolano in bici per le campagne in cerca di un impiego e di una chiamata dai datori di lavoro. Quelli con contratto regolare sono stati accolti in container adibiti dalla Coldiretti, attivatasi per gestire l’accoglienza di queste persone. «Non tutti» precisa Emanuela Cischino, avvocato dell’ASGI (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione) che segue il campo da vicino occupandosi delle continue richieste di documentazione da parte dei lavoratori. «Molti di quelli con contratto vivono nelle baracche. È inaccettabile. E per di più, in violazione dei diritti umani espressi dalla Corte Europea, il Comune ha imposto a giugno il divieto di bivacco e non ha autorizzato il trasferimento del campo al parcheggio del campo sportivo dove le associazioni caritatevoli si sarebbero fatte carico dell’accoglienza, pure dell’aspetto economico. Il problema viene approcciato come un rischio per la sicurezza pubblica impedendo qualunque forma di dialogo tra le parti». 

Le condizioni igienico-sanitarie del campo al Foro Boario di difficile gestione. I braccianti hanno spiegato in una lettera, scritta insieme al Comitato Antirazzista, in che condizioni sono costretti ad abitare: “Nei container – c’è scritto – la vita non è affatto facile: si dorme in 6 per container, ci sono solo pochi bagni a disposizione e la sera alle 23 vengono chiusi a chiave nel campo. In più i responsabili della Coldiretti hanno deciso di staccare la corrente e farci chiudere a chiave i container mentre siamo a lavoro perché non vogliono che vive fuori (cioè nelle baraccopoli, nda) venga a caricare il cellulare e a fare la doccia dentro il campo». Infatti fuori dall’area container le condizioni sono ancora peggiori: tre bagni a disposizione e una doccia (più due messe a disposizione dall’associazione “Monviso Solidale”). Per richiedere l’accesso all’acqua si è dovuto fare una manifestazione.

Il problema è chiaro per l’amministrazione. Solo che «il modello di gestione è incentrato su domanda e offerta» spiega Paolo Allemano, sindaco di Saluzzo. «Al momento non c’è lavoro per tutti. Quelli a rischio di non trovare lavoro sono stati dissuasi dal fermarsi qui ma abbiamo preso atto che ci sono. Purtroppo non abbiamo le forze per gestire un flusso così incontrollato. È un problema che a macchia di leopardo interesserà sempre più Comuni».
«Abbiamo allestito tre campi di accoglienza in tre paesi diversi» aggiunge Michele Mallano, responsabile di Coldiretti Saluzzo «dando ospitalità e servizi per 66 persone, 24 persone a Lagnasco e altrettante a Verzuolo. Sono stati assunti dalle nostre aziende consociate. Questo è quello che si poteva fare: dalle istituzioni regionali e nazionali quella di Saluzzo è stata considerata un’emergenza di tipo B, quindi meno pressante di quelle analoghe nel sud Italia. Non sono stati allestiti campi umanitari e il Comune non ha potuto mettere a disposizione le palestre perché tra poco riaprono le scuole. L’ideale sarebbe far arrivare al massimo 200 lavoratori l’anno ma è difficile controllare il flusso».

È vero: le istituzioni dei piani alti poco si sono interessate al caso di Saluzzo. Ma non se n’è parlato molto quando Cecile Kyenge, attuale Ministro dell’Integrazione, ha fatto visita alla città per tenere un discorso sul lavoro dei migranti nel nostro Paese. Ci si è limitati a ribadire concetti del tipo “il lavoro dei braccianti è importante perché contribuisce alla ripresa dell’economia italiana” oppure “il flusso migratorio va visto nel suo insieme perché qualunque semplificazione è pericolosa”. Concetti importanti, ma poco pratici.

Intanto lavoratori come Abo e Adam continuano a vivere nelle baracche. Entrambi hanno 27 anni ed è la prima volta che vengono in Italia. Il primo è ivoriano, il secondo burkinabé. Abo ha addirittura una laurea in sociologia, in quattro mesi ha imparato perfettamente l’italiano. Mi spiega come le aziende prendono a lavorare i braccianti come lui: «Noi gli lasciamo il nostro numero di telefono e poi sono loro a chiamarci quando serviamo. Il fatto è che qui i campi sono piccoli e si lavora per pochi giorni, a intermittenza». Adam è arrabbiato con le istituzioni: non capisce perché non vengano mai a controllare le loro condizioni. È stato l’unico ad alzare la mano e chiedere al Ministro Kyenge di visitare il campo. Il Ministro non poteva per via dei troppi impegni istituzionali. Allora, dopo questo intervento, è andato a chiederlo al sindaco direttamente. «Ero qui prima che arrivaste voi: conosco perfettamente la situazione» ha risposto Allemano. 

Per guardare il fenomeno nel suo complesso chiediamo a Domenico Paschetta, titolare di un’impresa ortofrutticola e presidente di Confcooperative Piemonte, di delinearci i confini del mercato saluzzese: «È un periodo di forte crisi per il nostro settore, derivante da quello della grande distribuzione.  La merce ci viene pagata pochissimo. Viviamo grazie alle esportazioni: più della metà delle mele viene esportata in America e ora stiamo intensificando le esportazioni verso l’Estremo Oriente». Non solo sono cambiati i destinatari ma anche la manodopera: «quando ero giovane io si organizzavano pullman di studenti che andassero a raccogliere la frutta in zona. Poi negli anni ’80 sono arrivate le prime ondate di immigrazione dal sud Italia: un paese come Lagnasco che fa 300 abitanti, in periodo di raccolta contava 1500 persone. Erano tempi in cui c’era lavoro e ai dipendenti veniva trovata una struttura alberghiera. Poi dai ’90 fino ai giorni nostri si sono alternati prima lavoratori di origine polacca e albanese, poi rumeni, cinesi e infine i braccianti africani. Oggi le aziende non possono permettersi grandi spese e poi l’offerta di manodopera è eccessiva».

Di diverso avviso Fabrizio Garbarino del Coordinamento Europeo di Via Campesina, sindacato impegnato a sostenere le lotte dei contadini in tutto il mondo e che è stato recentemente a Saluzzo nel campo dei lavoratori assieme a una delegazione di contadini francesi: «Qui siamo di fronte all’espressione di un sistema agricolo non redditizio che porta i contadini locali a rifarsi sui soggetti più svantaggiati. Quasi nessuno tra questi ultimi hanno una visione politica della loro condizione. Non possiamo continuare a trattare come un’emergenza qualcosa che ormai si ripete uguale da quattro anni. Questi sono lavoratori con regolare permesso di soggiorno: direi che è arrivato il momento di rivedere la Bossi-Fini e far vivere queste persone in un stato di diritto».

Come dimostra l’esempio delle buste paga, tema che viene spiegato bene nella lettera scritta dai lavoratori: “Le forze dell’ordine sanno benissimo che lavoriamo ben oltre il limite dell’orario massimo, che le paghe sono basse (5,5 euro l’ora, ndr) e che ormai è abitudine segnarci in busta paga pochissime giornate di lavoro rispetto a quelle davvero fatte».  Questo comporta due tipi di problema: da una parte non vengono versati tutti i contributi e dall’altra i lavoratori non riescono a richiedere il sussidio di disoccupazione. Oppure, nel migliore dei casi, dal momento che l’erogazione della disoccupazione viene calcolata sulle due ultime buste paga, ne ottengono una bassissima, inutile per la sopravvivenza.

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