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Diritti / Attualità

Tra gli sgomberati bersaglio delle politiche europee. Dalla Bosnia alla Grecia

Le persone accerchiate dalla polizia bosniaca appena fuori dal Dom Penzionera di Bihać. Febbraio 2021 - © Ivan Furlan Cano

A fine febbraio nella cittadina bosniaca di Bihać si è verificato l’ennesimo sgombero di decine di persone in transito alloggiate negli squat o in fabbriche diroccate. Azioni simili vengono condotte in Serbia e in Grecia. Ad Atene e Corinto per centinaia di rifugiati sono scaduti i termini dell’accoglienza

L’intervento delle forze dell’ordine era nell’aria da giorni tanto che a Bihać, in Bosnia ed Erzegovina, si respirava un innaturale clima di calma apparente. Ciclicamente è ciò che sempre avviene sia qui sia a Velika Kladuša quando da troppi mesi gli squat sono occupati.

Al tempo del primo sgombero, nell’estate 2018, lo studentato di Borići, divenuto poi campo ufficiale, aveva ancora le facciate spoglie, era privo di porte e finestre ed ospitava circa mille persone, mentre all’interno del Dom Penzionera, edificio diroccato sulle rive della Una, vivevano in più di cinquecento. In quell’occasione l’azione della polizia portò alla creazione di una tendopoli sulla collina di fronte allo stadio di calcio del NK Jedinstvo Bihać. Quasi due anni dopo, con l’inizio dell’emergenza Covid-19 nel marzo 2020, chi risiedeva nelle strutture informali fu prelevato e portato forzatamente al campo di Lipa appena costruito a 30 chilometri dal capoluogo del Cantone Una-Sana.

Il prato di Borići dopo lo sgombero del Dom Penzionera nel 2018 – © Diego Saccora

Il 24 febbraio scorso ecco l’ultimo capitolo di una storia in divenire. Ancora una volta gli abitanti del Dom Penzionera e della Krajna Metal, ex fabbrica vicina al vecchio campo di Bira e al quotidiano presidio di protesta cittadina, sono stati evacuati all’alba e trasferiti a Lipa, a pochi giorni dall’inaugurazione delle nuove tensostrutture montate a due mesi dall’incendio che lo aveva in buona parte distrutto.

Nelle settimane precedenti, complice l’innalzamento delle temperature e lo scioglimento delle nevi, più persone stavano arrivando a Bihać da Sarajevo dove il campo di Blažuj nel mese di gennaio aveva superato le tremila presenze oltrepassando ampiamente la massima capacità standard. Le condizioni, già a priori invivibili, erano ulteriormente peggiorate e si era assistito a diversi momenti di tensione, cavalcati dai media per evidenziare la pericolosità degli ospiti anziché denunciarne lo stato di concentramento e la violazione dei diritti, soprattutto in considerazione delle restrizioni e l’obbligo di distanziamento in vigore. Per questo alla prima possibilità molti sono ripartiti dalla capitale verso Nord-Ovest, al prezzo di centinaia di euro spesi a bordo di taxi, essendo loro preclusi i più economici mezzi pubblici. Ed è in tale scenario che si è arrivati agli sgomberi di questi giorni.

Chi giunge a Bihać, dopo una breve sosta, si avvia zaino in spalla in direzione delle montagne circostanti. Ma passate trentasei o quarantotto ore al massimo, gli stessi volti più stanchi e affannati si rivedono nuovamente al punto di partenza. Squat sempre più affollati e racconti di persone riportate indietro dalla polizia croata schierata ovunque a ridosso delle linee di confine. Settanta in una notte, cinquanta in quella successiva, qualcuno parla di colpi di arma da fuoco sparati in aria, vestiti sottratti, telefoni sequestrati.

Il pomeriggio di mercoledì 24 febbraio, dopo l’evacuazione, sono in pochi a camminare dentro al Dom Penzionera e alla Krajna Metal. Un paio di fotografi, qualche sciacallo a rovistare tra ciò che è stato lasciato. Perché se arrivano alle 6 del mattino e ti caricano in degli autobus non hai modo di prendere quasi nulla. A terra si trovano scatoloni di aiuti portati da volontari, giacche, coperte probabilmente piene di scabbia, scatolami, pentole e cibo avanzato. Qualcuno non ha avuto il tempo di fare colazione ma già la stava preparando o forse era da poco rientrato. “Brother, yesterday deport me from Croatia, today early morning this. Why? Where we can go? They want me disappear?”, dice tra lacrime e polvere Sami, un ragazzo di ventidue anni afghano, il più giovane di un gruppo di otto a condividere la stanza, l’unico a non essere stato preso e portato a Lipa perché assente all’appello: era tra i numerosi respinti quella notte nell’area di Velika Kladuša e ancora non aveva fatto ritorno.

Solo pochi giorni prima la responsabile degli Affari Interni della Commissione europea Ylva Johannson aveva visitato le fatiscenti strutture e il campo di Lipa complimentadosi con il Servizio per gli Affari esteri per le migliorie apportate ma dichiarando come fosse stato un grave errore la chiusura del Bira a fine settembre 2020. Secondo la portavoce europea il problema sembrerebbe quindi solo la collocazione del campo, non lo stato di ammassamento e confinamento cui sono costrette centinaia di persone, consegnando una volta ancora la totale responsabilità delle condizioni in cui versano nelle mani delle autorità bosniache. È “interessante” notare la trasversalità e la quasi contemporaneità di determinate azioni anche in altri Paesi, sebbene con motivazioni differenti.

In Serbia, dove l’Unione europea finanzia ancora oggi diciotto campi, le politiche del governo di Aleksandar Vučić prevedono già dallo scorso anno lo sgombero costante delle aree informali a ridosso dei confini con Croazia, Ungheria e Romania, in particolare nei pressi delle città di Sombor, Horgoš e Kikinda. Da un lato le autorità stesse e l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) denunciano i respingimenti da parte dei tre citati Paesi dell’Unione europea verso il territorio serbo, dall’altro le medesime istituzioni si premurano di avallare manifestazioni per le vie di Belgrado e Subotica esplicitamente anti-migranti e con una simbologia di estrema destra, oltre a ordinare alle polizie locali il rastrellamento e il trasferimento coatto, come si può vedere anche dal sito dell’Organismo di coordinamento del governo serbo per i comuni di Presevo, Bujanovac e Medvedja dove si parla apertamente di deportazioni, per gruppi di due o trecento persone verso i campi a sud, al confine con la Macedonia del Nord e la Bulgaria.

In Grecia, hotel e altre strutture dove centinaia di persone risiedono, stanno per essere sgomberate. Il progetto Filoxenia, implementato nel 2018 dal governo e dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni con l’affitto di 79 alberghi per la “seconda accoglienza”, si è concluso proprio il 28 febbraio 2021: dopo anni passati nei campi nelle isole dell’Egeo e poi nella terraferma, migliaia di persone non sanno dove andare e vengono scaricate per la strada a Corinto e ad Atene. Come denunciato dalle ong italiane La Luna di Vasilika e One Bridge to Idomeni, attive con la gestione di centri aggregativi proprio nel capoluogo della Corinzia, già il 14 febbraio duecentotrentacinque persone, prevalentemente famiglie siriane e irachene, sono state cacciate dall’Hotel Iliochari nella municipalità di Agioi Theodoroi.

La situazione rimane molto tesa e le richieste di aiuto sono in aumento in tutta la Grecia. Rispetto a quanto accade negli altri Paesi la questione è diversa e da un lato anche più preoccupante, perché in questo caso si tratta di persone a cui è già stata accordata la protezione internazionale: sono solo scaduti i termini dell’accoglienza, soprattutto a causa delle modifiche alla legislazione in materia apportate nel 2020 dal primo ministro Kyriakos Mitsotakis che ne accorciano drasticamente la durata. Pertanto, fine del supporto economico e abitativo, tutti per la strada. Sono a migliaia a trovarsi in questo stato e già l’estate scorsa si erano visti in piazza Victoria ad Atene i primi effetti, con decine di famiglie afghane a dormire all’addiaccio. Altrettanto a breve vi si troveranno ed è verosimile pensare che, in assenza di alternative, queste persone saranno costrette a far ricorso al traffico per cercare di migliorare la propria condizione, anche perché ad oggi non hanno il passaporto o l’equipollente titolo di viaggio mai fornito dalle autorità greche per potersi muovere. Ancora una volta, si ritroveranno senza tutele, dovendo mettere a rischio le proprie esistenze e quelle dei propri familiari, di figli piccoli magari, intraprendendo le vie della rotta balcanica. Sarà questa la prossima emergenza?

Persone sgomberate in Grecia a fine febbraio 2021 – © La Luna di Vasilika

Nel frattempo in Bosnia ed Erzegovina, le persone trasportate dagli squat di Bihać verso Lipa, passato qualche giorno, sono state lasciate libere di restare o andarsene. Non tutte sono state registrate al campo, dove ad ogni modo non ci sarebbe attualmente lo spazio fisico per farle risiedere. E quindi trenta chilometri a piedi per poi fare ritorno alla stessa stanza polverosa, negli stessi edifici diroccati, con un rinnovato controllo di polizia in città e nei pressi delle strutture. Tutti sono stremati e si domandano increduli quale sia il senso di queste continue vessazioni, che non risolvono, affaticano e fanno spendere ulteriore energia e denaro. Ahmed, scampato allo sgombero del 24 febbraio, ride con i compagni di sventura, ricordando di essere ormai allenato alla fuga, dopo aver testato le polizie di Turchia, Grecia e Albania. Ma quando poi il sorriso torna ad essere amara smorfia si chiede: “Quando finiremo di subire questi trasferimenti, detenzioni, respingimenti, di sopportare attese in questi labirinti burocratici che non ci lasciano mai liberi di spostarci, di vivere in autonomia. Di ricominciare una nostra vita?”.

Diego Saccora, operatore sociale, è membro dell’associazione “Lungo La Rotta Balcanica”. È co-autore del libro “Lungo la rotta balcanica. Viaggio nella storia dell’umanità del nostro tempo”, infinito edizioni (2016) nonché del dossier “La rotta balcanica” a cura della rete “RiVolti ai Balcani”

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