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Tra follia e normalità – Ae 94

Trent’anni fa la legge che chiuse i manicomi italiani. E mise al centro dell’intervento psichiatrico la persona coi suoi bisogni, non la malattia coi suoi sintomi Lo scorso novembre arrivai a Buenos Aires: in questa città dalle mille contraddizioni si…

Tratto da Altreconomia 94 — Maggio 2008

Trent’anni fa la legge che chiuse i manicomi italiani. E mise al centro dell’intervento psichiatrico la persona coi suoi bisogni, non la malattia coi suoi sintomi


Lo scorso novembre arrivai a Buenos Aires: in questa città dalle mille contraddizioni si teneva un convegno dal titolo “Salute mentale e diritti umani”. Ero uno dei relatori, e tutti si avvicinavano chiedendomi notizie di Franco Basaglia, lo psichiatra che ha fatto chiudere i manicomi in Italia.

Da queste parti, come del resto in Brasile e in tutta l’America latina, Basaglia è un simbolo, e qui i simboli sono importanti: hanno sempre nutrito le speranze delle tante lotte contro le dittature, le ingiustizie e i soprusi.

Provo a raccontare l’eredità che Basaglia ci ha lasciato, a trent’ anni dall’approvazione della legge, la 180, che porta il suo nome.

I principi che hanno ispirato la legge 180 sono sostanzialmente cinque.

Il primo è la chiusura dei manicomi, famigerati luoghi non di cura, ma di segregazione, ispirati da una legge del 1904. Il secondo, l’idea che la malattia mentale deve essere presa in cura a livello sanitario, ma anche sociale, contrapponendosi all’idea “custodialistica” per cui la società deve essere difesa dal malato mentale. Da qui derivava l’idea di pericolosità del malato mentale, che viene cancellata da questa legge anche in osservanza alle statistiche dell’Organizzazione mondiale della sanità, che dimostrano come reati gravi commessi da malati psichiatrici sono percentualmente assai inferiori a quelli commessi dai cosiddetti normali. Per questo, ed è il terzo principio ispiratore della legge, si deve sempre cercare il consenso alla cura da parte del paziente. Da qui deriva anche (quarto principio) l’eccezionalità del trattamento sanitario obbligatorio (tso), previsto non per la pericolosità quanto per il rifiuto alle cure, la non coscienza della malattia e l’impossibilità di effettuare presidi terapeutici extra ospedalieri.

Infine la legge introduce i concetti di decentramento, cure territoriali in ambulatori di zona, visite domiciliari, lavoro in équipe multiprofessionale (medici, infermieri, psicologi, educatori, assistenti sociali) e l’idea fondamentale di continuità terapeutica.

La legge 180, straordinariamente innovativa nel porre al centro dell’intervento la persona e i suoi bisogni e non più la malattia e i suoi sintomi, deve essere difesa a oltranza da rigidità ideologiche di detrattori e sostenitori aprioristici.

Inutile negare l’utilità degli psicofarmaci, ma non si può dimenticare che la persona deve essere informata e coinvolta nei suoi percorsi di cura. Inutile pensare di curare i sintomi senza occuparsi del contesto e della saldatura dei servizi pubblici con la comunità locale.

Se oggi possiamo farci un augurio è quello di evitare che il dibattito si sclerotizzi in una sterile contrapposizione fra “180 sì” e “180 no”, per tentare

di recuperare sulla base dei valori fondanti della legge quella creatività, quella passione civile e quella curiosità scientifica ed intellettuale che sono stati terreno di grandi conquiste.

Nella crisi di valori di una società dove tutto è una merce in vendita, dove le differenze sono viste come fonte di resistenza su base identitaria a fronte dell’omologazione, anche l’intervento in psichiatria rischia di impoverirsi e semplificarsi secondo schemi troppo “biologistici”. Tale assunto di base penalizza sia il cittadino che fruisce della cura -i cui bisogni rischiano di essere ridotti a circuiti neurotrasmettitoriali e recettori biochimici-, ma anche l’operatore sanitario, che perde il senso globale del suo intervento in cui il focus è anche sulla qualità della vita e non solo sull’eliminazione del sintomo.

La solitudine dell’operatore non deve colludere con l’isolamento del paziente e dei suoi familiari, ma mirare all’allargamento dell’esperienza attraverso la comunità locale e le sue risorse, eliminando il pregiudizio che esclude la persona considerandola pericolosa e imprevedibile, favorendo nel contempo, attraverso la prossimità e la conoscenza reciproca, processi di appartenenza e solidarietà che portano all’inclusione.



* Ugo Zamburru, psichiatra, è fondatore del Caffè Basaglia di Torino

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