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Diritti / Attualità

Tortura, il reato che non c’è

Trent’anni di proposte, appelli e Convenzioni disattese. Il codice penale italiano è ancora sprovvisto degli strumenti giuridici necessari per punire trattamenti inumani e degradanti. E la Corte europea dei diritti dell’uomo potrebbe presto condannare di nuovo l’Italia per i fatti del G8 2001

L’Italia rischia di essere nuovamente condannata nei prossimi mesi dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) per aver violato il divieto di tortura sancito all’articolo 3 della “Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”. Lo conferma l’avvocato genovese Emanuele Tambuscio, tra i legali che stanno curando i ricorsi presentati alla Corte dalle vittime delle violenze avvenute a Genova durante il summit “G8” del luglio 2001, presso la scuola Diaz-Pertini e la caserma Bolzaneto, per mano delle forze dell’ordine.

Il primo degli 80 casi giunto a sentenza, il 7 aprile 2015, è stato quello di Arnaldo Cestaro. Nella notte tra il 21 e il 22 luglio 2001, si trovava al piano terra della Diaz. Durante l’irruzione della polizia, fu colpito alla testa, alle braccia e alle gambe, subendo fratture multiple. Quattordici anni dopo, la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva riconosciuto che quei “maltrattamenti” dovessero essere “qualificati come tortura”, condannando lo Stato italiano al pagamento di 45mila euro per il “danno morale” inflitto all’allora sessantaduenne. Il motivo è semplice: “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”, come recita la Convenzione che il nostro Paese avrebbe violato.

La Corte non si era limitata ai fatti specifici di Genova ma aveva formulato alcune “valutazioni” sulla legislazione italiana in tema di tortura, definendola “inadeguata rispetto all’esigenza di sanzionare gli atti in questione e al tempo stesso priva dell’effetto dissuasivo necessario per prevenire altre violazioni simili”. “Da quella sentenza -commenta l’avvocato Tambuscio- non è cambiato nulla”. L’invito della Corte di dotarsi degli “strumenti giuridici” necessari è caduto nel vuoto. E il codice penale italiano si ritrova ancora sprovvisto di quel reato di tortura che, come chiarito dalla Cedu, impedirebbe alla prescrizione e all’indulto di vanificare “non soltanto la punizione dei responsabili degli atti di ‘tortura’, ma anche degli autori dei ‘trattamenti inumani’ e ‘degradanti’”. Questa mancanza non si riflette solo sui principi fondamentali della Costituzione (l’articolo 13 stabilisce che “È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”) ma anche sulle casse pubbliche, in vista delle imminenti sentenze sui ricorsi analoghi a quello di Cestaro.

Eppure sono trascorsi 29 anni da quando il Parlamento ha approvato la ratifica della “Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani e degradanti”, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel dicembre 1984 ed entrata in vigore nel giugno di tre anni dopo. Questa “obbliga” gli Stati (i sottoscrittori oggi sono 161) a “legiferare affinché qualsiasi atto di tortura sia contemplato come reato nel diritto penale interno” (art. 4). Secondo le Nazioni Unite, il reato deve essere “proprio” di quel pubblico ufficiale che abusa del suo potere ed esercita arbitrariamente e illegalmente una forza legittima. Gli ordinamenti di Francia, Regno Unito, Spagna e Germania -per citare casi europei- prevedono il reato. L’Italia è rimasta ferma alle intenzioni condivise nel 1988, quando il Parlamento votò la ratifica della Convenzione. Alla Camera dei Deputati la proposta fu approvata quasi all’unanimità: 353 voti favorevoli sui 372 presenti. Quel consenso largo, però, è un lontano ricordo.

Nel luglio 2016, infatti, l’esame parlamentare di una proposta di legge per l’introduzione del reato di tortura si è arenato di nuovo, questa volta per poter consentire “un ulteriore approfondimento del testo” (le parole del presidente del Senato, Pietro Grasso, durante la seduta del 19 luglio 2016). Non è una novità: i disegni di legge presentati e discussi dalla fine degli anni 80 sono stati oltre una decina. Il dibattito è viziato dal sospetto che l’iniziativa possa delegittimare le forze dell’ordine, come ha dichiarato in Senato al momento dell’ultimo rinvio del disegno di legge il capogruppo della Lega Nord, Stefano Centinaio, sostenuto poi dagli omologhi di Forza Italia, Conservatori e riformisti e Area popolare: “Questo è un oltraggio nei confronti delle forze dell’ordine e di polizia che quotidianamente garantiscono la nostra sicurezza a discapito della loro vita. Viene messa in dubbio la credibilità degli agenti delle forze dell’ordine, […] il disegno di legge non punisce il reato di tortura, ma limita l’operato delle forze dell’ordine”. Ma la “specificità” del reato -che neppure è prevista nella proposta di legge oggi accantonata– è un principio della Convenzione oltreché una raccomandazione della Corte europea dei diritti dell’uomo. La stessa che potrebbe tornare presto a condannare il nostro Paese per non essersi ancora adeguato al diritto internazionale. E per non aver accolto gli appelli che in questi anni sono stati rivolti da più parti -dalla famiglia di Stefano Cucchi ad Amnesty International- al Parlamento e, da ultimo, all’esecutivo guidato dall’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi.

Questo ritardo pluridecennale lega pezzi di storia distanti secoli. In una lettera destinata al fratello Pietro, Alessandro Verri, intellettuale e cofondatore del periodico “Il Caffè”, scrisse: “Bramo che sia abolita la tortura, alla quale ho preso un orrore anche più forte del comune, per aver letti i costituti criminali di tale atto inumano, che fa pietà e ribrezzo; il Senato però difficilmente entrerà in quelle mire”. Pietro Verri stava lavorando sulle sue “Osservazioni sulla tortura”, arringa a difesa di quella che definì la “parte più debole e infelice degli uomini”: i torturati. Era il 1777. 240 anni dopo non è cambiato nulla.

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