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Diritti / Opinioni

Tornare umani per non meritare la fine

© Roberto Ortiz - Flickr

Abbiamo chiamato progresso ciò che distrugge, guastato l’ambiente e dimenticato la solidarietà. Ma non tutto è perduto per la nostra civiltà. La rubrica di Tomaso Montanari

Tratto da Altreconomia 226 — Maggio 2020

“Tornerà la terra /Follemente bella /Dopo l’estinzione della razza umana /Senza di noi /Un’era disumana sarà /Nessuna pestilenza verrà /Ad inquinarci mai /Ci spazzerà /La nostra proverbiale viltà /Saremmo avvolti dalla foschia /E poi l’oblio ci coprirà”. Versi terribilmente profetici, questi scritti da Francesco Bianconi dei Baustelle, in una canzone del 2013 che ha un titolo che non lascia spazio all’immaginazione: “L’estinzione della razza umana”. Ognuno di noi, lungo questa interminabile quarantena, ha potuto vedere con i propri occhi ciò che mai avevamo pensato di poter vedere da vivi, come quando si immagina o si sogna il proprio funerale: le nostre città senza di noi. Follemente belle, in questa primavera di crudelissima, straziante bellezza.

L’aria e l’acqua pulite come mai, il silenzio, gli animali che tornano: delfini nel porto di Cagliari, anatre a Piazza di Spagna, scoiattoli nelle vie del centro di Firenze. Una bellezza disumana: che è davvero una insopportabile contraddizione in termini per chi è cresciuto in un Paese in cui, ha scritto Piero Calamandrei, “non si riesce più a capire dove finisca la roccia inanimata e dove cominci il segno lasciato dai viventi; uno stesso senso di pietà, come se si trattasse di parentela, abbraccia le cose e le creature”. Come può essere disumana, la bellezza? Senza occhi, cuore, mente capace di concepirne il senso, il concetto? Ma il punto è proprio questo: siamo noi umani a esser diventati disumani. Abbiamo abbandonato ogni umanità nei confronti degli altri esseri umani (i più poveri, i diversi, i deboli, i migranti) fino a concepire noi stessi come padroni del mondo. Abbiamo dimenticato in un colpo solo la fraternità tra uomo e natura e la fraternità tra uomo e uomo, quella orizzontale (tra i vivi ora) e quella verticale (tra le generazioni). Abbiamo cominciato a divorare contemporaneamente passato e futuro, concependo solo un presente in cui dominare, consumare, distruggere. Abbiamo chiamato progresso ciò che ci conduce verso la morte: la morte del Pianeta, la morte della giustizia e della nostra interiore umanità. Abbiamo dimenticato cosa significa, davvero, progresso: “L’oggetto dell’obbligo, nel campo delle cose umane, è sempre l’essere umano in quanto tale. C’è obbligo verso ogni essere umano, per il solo fatto che è un essere umano, senza che alcun’altra condizione abbia a intervenire: e persino quando non gli si riconoscesse alcun diritto. […] Il progresso si misura su di esso” (Simone Weil).

È dimenticando tutto questo che siamo arrivati a un punto in cui un poeta può immaginare che “tornerà la terra/Follemente bella/Dopo l’estinzione della razza umana”. Ora, se è vero che ci sono molti indizi di una correlazione tra la diffusione e la letalità del Coronavirus e il nostro progresso (inquinamento, globalizzazione, tagli allo stato sociale, riduzione dei vecchi a rifiuti, corruzione della politica, nazionalismi) non possiamo dire, scientificamente, che la pandemia sia stata causata dal nostro esser diventati disumani. Prendiamola però come un avvertimento: stiamo assaggiando cosa potrebbe essere una peste che distrugga le persone umane lasciando intatto -e follemente bello- il mondo. Sarà forse un po’ animistico pensarlo ma la fortissima sensazione è che Gaia, la nostra madre Terra, ne abbia le scatole piene della razza umana: e che ci stia dicendo che non le sarebbe difficile, né particolarmente penoso, distruggerci. La civiltà umana può finire: tornare davvero umani è forse l’unico modo di evitarlo. Perché è anche l’unico modo di non meritare la fine.

Tomaso Montanari è professore ordinario presso l’Università per stranieri di Siena. Ha vinto il Premio Giorgio Bassani di Italia Nostra

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