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Torino, la bancarella del mercato che riduce lo spreco alimentare

Alcuni momenti della raccolta di cibo invenduto, e destinato a divenire rifiuto, operata dagli Ecomori. Il nome aggiunge il prefisso “eco” a “moro”, espressione tipicamente piemontese per indicare migranti dalla pelle scura - Luigi Vendola

Da novembre 2016 a Porta Palazzo l’esperimento degli “Ecomori”, volontari profughi e richiedenti asilo che raccolgono il cibo ancora buono che verrebbe buttato via e lo distribuiscono gratis a chi ne ha bisogno

Tratto da Altreconomia 193 — Maggio 2017

Tra le bancarelle del mercato di Porta Palazzo, a Torino, ce n’è una che invece di vendere, regala frutta e verdura. E gli esercenti dietro questa bancarella sono volontari profughi e richiedenti asilo. Si fanno chiamare “Ecomori” perché sono la dimostrazione di come si possano coniugare buone pratiche ecologiche e accoglienza dei migranti. Infatti,  la frutta e la verdura che viene regalata dagli “Ecomori” viene raccolta al mercato per evitare che venga buttata via. Sono alimenti assolutamente commestibili ma un po’ ammaccati o troppo maturi, quindi difficilmente vendibili. Invece di prendere la strada dei rifiuti, questi alimenti senza mercato vengono raccolti e omaggiati a chiunque ne faccia richiesta.

L’idea degli “Ecomori” (chiamati così ironicamente accostando il prefisso “eco” di ecologico con “moro”, ovvero il modo che storicamente hanno usato i piemontesi per indicare l’immigrato dalla pelle scura) è venuta per primo a Paolo Hutter, giornalista e ambientalista, direttore del portale Eco dalle città. L’iniziativa nasce a partire da un progetto sulla raccolta differenziata della frazione organica al mercato di Porta Palazzo: con il sostegno finanziario del Comune -tramite l’azienda di smaltimento rifiuti Amiat- e di Novamont,  Hutter inizia a coordinare un gruppo di volontari, chiamati “Sentinelle dei rifiuti” (insieme a Erica Carnevale, Marianna Lopriore, Gigi Vendola, Rocchina Cericola) con il compito di raccogliere e separare la frazione organica: “La scelta è ricaduta su Porta Palazzo perché rappresenta un punto nevralgico del commercio di Torino.

Qui abbiamo cercato di fare quello che fino ad allora non era stato mai fatto per bene”, racconta Hutter ad Altreconomia. “Con le Sentinelle si voleva evitare che i rifiuti prodotti dai banchi, in gran parte scarti alimentari, venissero lasciati indiscriminatamente a terra e raccolti a fine giornata insieme a carta, legno, plastica e qualsiasi altra cosa”. Dall’osservazione dei soggetti che “spontaneamente” rovistano tra le cassette di frutta e verdura (anziani indigenti ma anche giovani universitari sensibili alle campagne antispreco), nasce l’idea ulteriore di recuperare il cibo ancora consumabile. Così Hutter recluta nuovi volontari grazie all’aiuto dell’organizzazione no-profit ERI (che sta per European Research Institute), associazione dedita al miglioramento delle condizioni sociali tra cittadini. I nuovi volontari sono profughi politici in attesa di asilo: i primi a prendere parte al progetto sono quattro ragazzi pakistani, due ghanesi e due gambiani. Vengono battezzati “Ecomori”, affinché questa forzatura linguistica possa attirare l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica. Sentinelle ed Ecomori danno vita a una vera e propria postazione improvvisata con cassette di legno al mercato, presso la quale viene trasportata su di un carrellino tutta la frutta e la verdura recuperata dagli altri banchi. Il progetto debutta a novembre 2016, durante la Settimana Europea per la Riduzione dei Rifiuti (SERR), l’iniziativa di sensibilizzazione sulla prevenzione dei rifiuti voluta dalla Commissione europea.

Grazie alla bancarella degli Ecomori la clientela si porta a casa peperoni, melanzane, banane, pomodori, finocchi, kiwi, cachi ancora commestibili. Alcuni si servono con un po’ di timidezza, come alcuni signori marocchini che non capiscono cosa siano tutte quelle cassette piene di cibo gratis, altri ci mettono più disinvoltura. Una di loro si ferma a raccontare di aver lavorato in campagna per trent’anni e che adesso che è in pensione e suo marito è morto, riuscire a “fare la spesa” in questo modo è un grandissimo aiuto per arrivare tranquilla alla fine del mese. Anche Carlos si ferma a chiacchierare: lui è un distinto signore portoricano di mezza età, e mentre sceglie con cura quali pomodori prendere dice che è un’iniziativa ottima perché evita che le persone che vengono qui a cercare da mangiare si mettano a rovistare per terra in mezzo all’immondizia. Viola, invece, ha saputo del progetto ed è lì con i suoi amici per cercare un po’ di verdura per delle persone bisognose da cui si recano un paio di volte a settimana a cucinare. Ogni giorno si recupera quasi un quintale di cibo. “Il sabato (giorno principale di mercato, ndr) arriviamo a 250 chili” spiega Hutter. “Un giorno abbiamo raccolto 165 chili di cibo di cui 40 erano solo fragole”. La raccolta differenziata a Porta Palazzo è ferma al 14 per cento. Per questo l’iniziativa di Hutter ha suscitato l’interesse di Amiat, che oltre a sostenere il progetto nel principale mercato torinese ha ora intenzione di estendere l’iniziativa anche agli altri mercati rionali della città. Il progetto intanto continua a inserire nuovi volontari: a gennaio si è unito agli Ecomori un gruppo di ragazze che coabitano in un appartamento di accoglienza a Torino, gestito dall’associazione Tampep che si occupa di progetti con persone socialmente discriminate. “Non ne possiamo più di stare a casa a far niente, tranne quei tre mezzi pomeriggi che abbiamo di scuola” diceva Dalla Djallo, 24enne maliana, prima di prendere parte al progetto. “Mi è piaciuta l’idea di venire qui con gli altri volontari per fare qualcosa, per conoscere gente e per avere occasione di parlare italiano”. Ora le ragazze sono affacendate tutti i giorni a portare al banchetto del recupero le cassette con frutta e verdura avanzate. La affiancano in questa mansione Kadidja Traorè, 27 anni, sua connazionale, e Bintu Diaby, 30 anni, della Costa d’Avorio. “Quando mi sono collegata con la mia famiglia in Mali” prosegue Dalla “ho raccontato che sto facendo qualcosa al mercato e ho spiegato che aiutiamo gli italiani poveri a procurarsi verdura e frutta. Quello che troviamo  marcio, lo gettiamo nel bidone, quello che è ancora buono lo distribuiamo al banchetto”. Così logica del riuso e riciclo vanno a braccetto.

“Porta Palazzo rappresenta un punto nevralgico del commercio di Torino. Abbiamo cercato di fare quello che fino a ora non era stato mai fatto per bene” (Paolo Hutter)

In generale, purtroppo, la lotta allo spreco alimentare sta fallendo. A confermarlo è un rapporto pubblicato a gennaio dalla Corte dei Conti europea in cui si bacchettano i Paesi dell’Unione affinché si impegnino di più nella lotta per debellare questa cattiva abitudine. L’organo europeo riporta un dato drammatico: un terzo del cibo prodotto per il consumo umano viene buttato via. Per essere più precisi, secondo i dati pubblicati a settembre 2016 della Commissione europea, ogni anno nell’UE sono sprecati circa 88 milioni di tonnellate di cibo. Si stima che lo spreco alimentare complessivo europeo salirà a circa 126 milioni di tonnellate entro il 2020 a meno che non vengano prese ulteriori azioni o misure preventive. Tutto questo ha un enorme costo ambientale (che include sfruttamento dell’acqua, dei fertilizzanti utilizzati nel processo produttivo, progressiva scarsità delle risorse ecc.) che va a sommarsi a quello economico: lo spreco costa 1.500 miliardi di euro a livello globale, che Wwf ha stimato in 250 euro a famiglia -europea- ogni anno. E sono proprio le famiglie le prime a doversi impegnare di più, dato che il 42% del cibo sprecato avviene tra le mura di casa (dati Wwf del 2013). Questo succede mentre un nono della popolazione mondiale soffre la fame e l’80% di ciò che gettiamo via risulta ancora commestibile. Sempre secondo la Corte europea, le istituzioni devono allineare le proprie programmazioni: la politica agricola, la politica della pesca, la politica in materia di sicurezza dei prodotti alimentari, la politica in tema di rifiuti sono tutti settori che ancora non operano congiuntamente. Basti pensare che non esiste nemmeno una definizione comune di “spreco alimentare”: questo dimostra che tra le istituzioni europee il problema non viene preso ancora abbastanza in considerazione.

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