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Diritti / Reportage

Nel futuro della Terra del Fuoco ci sono lingua e cultura indigena

Mentre il Parlamento cileno va verso il riconoscimento formale del genocidio compiuto nei confronti di quattro popoli patagonici, alcune municipalità avviano progetti di ripopolamento, concedendo terra a titolo gratuito

Tratto da Altreconomia 191 — Marzo 2017
I gommoni dell’ammiraglia Stella Australis, l’unico mezzo che raggiunge le baie del frastagliato Fiordo De Agostini, il cui nome omaggia il grande esploratore italiano di fine Ottocento. Fra le loro insenature si spinge il ghiacciaio Aguila - foto di Alberto Caspani

La Terra del Fuoco non è la Fine del mondo, ma l’inizio di uno nuovo. Grazie a una petizione di quasi 5mila firme lanciata su change.org da due storici cileni, Alberto Harambour Ross e Nicolas Gomez Baeza, il 2017 restituirà un futuro ai discendenti degli indigeni che sino al XX secolo abitavano l’appendice più meridionale delle Americhe.
Il Parlamento di Santiago, dopo quasi un decennio di tentennamenti e tabù, ha infatti deciso di dar seguito all’ultima mobilitazione popolare finalizzata al riconoscimento del genocidio delle popolazioni Selk’nam, Hausch, Alacauf e Yamana. Se il percorso di legge avviato a gennaio dalla senatrice Carolina Goic non subirà blocchi, le comunità fueghine avranno presto diritto alla restituzione delle loro testimonianze storiche disperse per musei e istituzioni internazionali, in vista di un’epocale redistribuzione delle antiche terre d’appartenenza.

Proprietà che verranno concesse a titolo del tutto gratuito, nella speranza di evitare nuovi fallimenti nelle politiche di ripopolamento, che solo lo scorso anno hanno riconsegnato al fisco cileno 500 chilometri quadrati di appezzamenti in affitto o in franchising, per la chiusura anticipata delle attività avviate. Nella regione, infatti, il 60% di chi intraprende un progetto autonomo finisce per abbandonarlo, nonostante occorrano appena 600 euro per aggiudicarsi un lotto di 500 metri quadrati qua alla Fine del Mondo.

Un nome che è tragicamente profetico: nel tempo non è servito a indicare solo l’estremo lembo dell’America Latina, ma anche la desolata tomba di oltre diecimila marinai e di poche migliaia in meno di cacciatori semi-stanziali, i cui volti rassegnati impallidiscono ancora sulle foto di Alberto Maria De Agostini: il padre salesiano di Pollone (Biella), nonché rinomato geografo ed esploratore, che fu testimone privilegiato di quel fragile mondo spazzato via dall’avanzata dei latifonderos.

A quanti abbiano oggi il coraggio di sbarcare sull’ultimo avamposto del Continente, ubicato a 55 gradi Sud di latitudine e a 67 gradi Ovest di longitudine, non può infatti sfuggire un tragico paradosso: dopo aver sfidato onde assassine e venti capaci di raggiungere i 100 chilometri orari, arrancato su una scaletta a rischio d’inabissamento e camminato in equilibrio instabile verso l’unico rilievo visibile, gli impavidi lupi di mare finiscono per imbattersi in un’invocazione sorprendentemente mutilata sotto una lamina a forma di uccello in volo. “Sono l’Albatros, che ti aspetta alla fine della Terra. Sono l’anima dimenticata dei marinai scomparsi, mentre navigavano attorno a Capo Hoorn da ogni mare del mondo. Loro non sono morti nella furia delle onde, però: oggi volano sulle mie ali, verso l’eternità, nell’ultima fessura dei venti antartici”.

Lo sbarco sull’impervia isola di Capo Hoorn: qui sorge il memoriale dedicato ai marinai naufragati nel tentativo di doppiare la pericolosissima appendice del continente sudamericano - foto di Alberto Caspani
Lo sbarco sull’impervia isola di Capo Hoorn: qui sorge il memoriale dedicato ai marinai naufragati nel tentativo di doppiare la pericolosissima appendice del continente sudamericano – foto di Alberto Caspani

È questo, forse, il più ironico degli affronti per gli antichi abitanti della Patagonia: vittime proprio di quella sete mercantile che il 24 gennaio 1616, a costo d’innumerevoli naufragi, aveva permesso a una nave olandese di doppiare il leggendario capo, dando di fatto avvio alla conquista dei territori descritti da Pigafetta nella prima circumnavigazione attorno al mondo, fra il 1519 e il 1522. Una “pacificazione” -come da molti è ancora conosciuta- conclusasi solo agli inizi del Novecento, quando il governatore argentino Pedro Godoy e il suo omologo cileno Oscar Viel chiusero gli indigeni nella morsa fatale dei loro eserciti di frontiera.

“I pochi sopravvissuti dei quattro popoli fueghini non si sono mai dati per vinti -urla controvento Mauricio Alvarez Ruiz, capo spedizione delle navi esplorative Australis- tant’è che al progetto di legge cileno è stato chiesto di ricompensare persino quest’ennesimo torto”. Lasciati alle spalle gli affioramenti del Canale di Beagle, lungo il quale pinguini ed elefanti marini borbottano ancora del passaggio di Charles Darwin a bordo della suo famoso brigantino, è sull’isola di Navarino che la coscienza indigena resta oggi più viva. Mauricio ha l’aria sicura dell’alpinista navigato, ma sa benissimo che i passi da compiere potranno creare nuove tensioni anche nel resto della Patagonia. “A Porvenir -spiega indicando sulla cartina una località nel Sud del Cile, opposta a Punta Arenas-, ovvero nell’unico Comune dove nel 2004 si era riusciti a far erigere una decina di sculture raffiguranti i cacciatori di guanaco Selk’nam (noti come Ona, ‘i figli del vento’), verranno ora installate altre statue, cosicché tutte le minoranze indigene possano essere rappresentate e ricordate. I nomi stessi degli indigeni, in Cile, saranno riscritti per legge secondo la dizione originale della loro lingua, anziché nell’adattamento spagnolo. Il progetto più interessante, tuttavia, sta prendendo piede nel remoto villaggio di Timaukel, 500 chilometri a Sud di Punta Arenas. Lì abitano appena 450 persone, di cui solo 47 donne, ma gli annali demografici dovranno essere presto aggiornati”.
Specializzato nella produzione di documentari audiovisivi, con un occhio particolarmente attento alle rarità florofaunistiche ed etnografiche della Patagonia, Mauricio si è speso per anni in iniziative di tutela della cultura territoriale fueghina, benché l’unico progetto consolidatosi nel tempo sia stato quello di Ukaikawaia, sulla sponda occidentale dell’Isola di Navarino. Sino alla fine dell’Ottocento, l’ultimo frammento di America Latina era stato il principale centro d’aggregazione degli Yamana, “gli indios che vivevano nelle canoe”, tant’è che nei suoi strati sedimentari si sono conservati alcuni dei più notevoli reperti della loro cultura, oltre a specie botaniche che rendevano la dieta yamana unica al mondo. L’Unesco si accorse della straordinarietà del suo ambiente nel 2005, quando dichiarò l’isola biosfera protetta, riconoscendola fra le ultime 24 ecoregioni della Terra realmente selvagge. Esattamente nello stesso anno Mauricio entrò in servizio su Stella Australis, l’ammiraglia che permette di circumnavigare la lunga appendice cileno-argentino fra Punta Arenas e Ushuaia, ma da allora a oggi i progetti di valorizzazione delle culture indigene a Navarino hanno potuto contare sul supporto quasi esclusivo della sua compagnia di navigazione. Eppure il vento pare proprio cambiato.
Dopo il bando lanciato dal sindaco di Timaukel, Alfonso Simunovic, un ottimismo insolito ha preso a diffondersi per tutto il Sud della Patagonia: a liste chiuse, sono risultati oltre tremila i nominativi dei volontari pronti a trasferirsi nel suo villaggio e a inaugurare una nuova stagione d’insediamento, ben più consapevole e sostenibile rispetto al passato coloniale. Alcuni di loro, non a caso, fanno parte della comunità di Navarino, benché l’isola stessa non conti più di tremila abitanti.
Resta però da verificare quale voglia essere davvero il modello di ripopolamento dei territori, visto che l’area prescelta a Timaukel -chiamata Pampa Guanaco- è ricchissima di pecore e guanachi, appunto: due specie che in passato furono fra loro in conflitto, avendo i latifondisti anteposto l’allevamento delle prime a discapito dei secondi, fonte alimentare degli indigeni settentrionali della Terra del Fuoco. Benché il progetto preveda di assegnare gratis 145 appezzamenti di 450 metri quadrati l’uno, senza obbligo specifico di convertirli a pastorizia, il rischio di dar vita a una seconda colonizzazione di latifonderos esiste, oltre a quello di produrre scompensi ambientali (come capitato proprio a Navarino, con l’introduzione infestante dei castori per sviluppare la lavorazione delle pellicce).

“Gli Yamana di Navarino -ricorda il mezzosangue Marcos Marino, assistente di navigazione a bordo della Stella Australis- vivevano tendenzialmente di caccia alle foche e al guanaco, abitando in capanne provvisorie di arbusti chiamate akharh: le stesse che abbiamo ripristinato qui sull’isola, nei pressi di Puerto Williams, riaprendo i loro vecchi sentieri, dando nuova linfa alle tecniche artigianali utilizzate un tempo e, in sostanza, recuperandone l’autentico stile di vita. La vecchia stazione in cui pernottarono Darwin e Fitzroy è stata convertita nel centro ricerche di Baia Wulaia, al pari di quanto fatto col museo antropologico “Martin Gusind”, mentre con l’aiuto di mia nonna Cristina Calderon -l’unica al mondo a parlare ancora yamana- siamo riusciti a imparare nuovamente la lingua originale dei nostri avi: abbiamo ricostruito la nostra identità non fondandola più sui legami di sangue, ma sulla cultura vivente. È questo modo di operare che ci ha permesso di tornare in possesso di oltre il 30% dei terreni sull’isola e che, a mio avviso, dovrebbe essere preso a modello in ogni nuovo progetto di ripopolamento”.

“Con l’aiuto di mia nonna, l’unica al mondo a parlare ancora yamana, siamo riusciti a imparare nuovamente la lingua originale dei nostri avi” (Marcos Marino)

Eppure l’interesse per gli aspetti genetici e il vizio di considerare la pastorizia come attività “tradizionale” della Patagonia addensano nubi darwiniste all’orizzonte: anziché concentrarsi sullo stile di vita degli indigeni, scienziati e imprese alimentari in visita a Navarino sembrano più ossessionati dal comprendere quale fossero i segreti di una dieta a base di bacche Calafate o funghi noti come Cyttaria Darwinii, non riuscendo a spiegarsi le sbalorditive differenze d’altezza fra gli indigeni della Terra del Fuoco rispetto a quelle degli altri amerindi, o dei visitatori stessi europei: i Selk’nam, insieme ai Tehuelche -ma a differenza dei minuti Yamana- potevano raggiungere i due metri d’altezza, laddove i naviganti spagnoli e portoghesi non superavano il metro e cinquanta o sessanta: furono loro ad alimentare il mito e lo spettro dei Giganti Patagonici, poi confermato anche dai ritrovamenti di ossa enormi descritti dall’esploratore italiano Giacomo Bove.

I muri di Ushuaia, estremo avamposto argentino in cui fu costruita una delle carceri più temute del Sud America, Parlano ancor oggi del fatale scontro fra le popolazioni indigene e gli ex prigionieri - foto di Alberto Caspani
I muri di Ushuaia, estremo avamposto argentino in cui fu costruita una delle carceri più temute del Sud America, Parlano ancor oggi del fatale scontro fra le popolazioni indigene e gli ex prigionieri – foto di Alberto Caspani

“Ogni progetto di popolamento in Patagonia -evidenzia Gabriela Nacach, ricercatrice dell’Istituto di scienze antropologiche dell’Università di Buenos Aires- si è tradizionalmente accompagnato alla creazione di un modello ideale di uomo nuovo: non a caso, in assenza di coloni ‘di qualità’, il governo argentino di fine Ottocento elaborò un piano di sostituzione della componente etnica indigena, nomade e cacciatrice, con gli ex prigionieri ‘stanziali’ del carcere di Ushuaia, l’ultimo centro abitato orientale nella Terra del Fuoco. Analogo contenimento vivono oggi i Mapuche nei territori patagonici più a Nord. Per preservare le reali opportunità di sviluppo insite nei nuovi progetti di popolamento, è dunque essenziale che la spinta organizzativa venga dal basso e si strutturi attraverso forme di autogestione territoriale”.

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