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Tempi di recessione: per fortuna c’è la guerra – Ae 24

Numero 24, gennaio 2002La prima conferma che l'industria degli armamenti avrebbe voltato pagina la si è avuta il 17 settembre, il giorno della riapertura della Borsa di New York: Wall Street non era mai stata chiusa così a lungo dalla…

Tratto da Altreconomia 24 — Gennaio 2002

Numero 24, gennaio 2002

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a prima conferma che l'industria degli armamenti avrebbe voltato pagina la si è avuta il 17 settembre, il giorno della riapertura della Borsa di New York: Wall Street non era mai stata chiusa così a lungo dalla crisi del 1929 e mentre gli assicurativi e i titoli delle compagnie aeree cominciavano a valere come carta straccia (Continental e Delta per esempio perdevano il 49 e il 44% del loro valore) le azioni delle società del settore difesa sono schizzate verso l'alto. Bene in particolare le società fornitrici del Pentagono: Lockheed Martin (che produce tra gli altri gli aerei F16) quel giorno ha guadagnato il 15%; addirittura il 27% Raytheon (elettronica per la difesa e missilistica) e, ancora, il 16% Northrop Grumman (aeronautica).

All'appello dei 4 grandi fornitori del Pentagono manca solo Boeing (che alla riapertura perdeva il 18%, ma, tra tutti, è il gruppo più fortemente fortemente dual: civile/miliare).

Sono loro che rappresentano oggi i magnifici quattro dell'industria bellica americana, dopo una serie di acquisizioni e fusioni tra le 21 società prima esistenti.

Boeing ha un fatturato (dati relativi al 1998, produzione civile e militare) di 55 miliardi di dollari. (Si consideri che il valore delle esportazioni mondiali relative ai grandi sistemi d'armi è di circa 30 miliardi di dollari).

Dopo l'11 settembre quindi l'industria bellica rischia di tornare sugli scudi in tutto il mondo e di essere il volàno di una ripresa della produzione e dell'economia occidentale che già prima degli attentati di New York e di Washington avevano dato pesanti segni di recessione. Anche Confindustria, in un documento sulle previsioni macroeconomiche e le tendenze dell'industria dopo i fatti dell'11 settembre, scrive che “vi sarà verosimilmente un cospicuo aumento in tutti i Paesi delle spese civili e militari, pubbliche e private, per la sicurezza delle persone, delle cose, dei sistemi informatici e di telecomunicazioni”.

“Addio alla new economy, stiamo entrando nella war economy” scriveva già in settembre il Los Angeles Times. D'altra parte si capisce bene che ruolo può giocare l'industria degli armamenti quando Bush annuncia che questa è la prima “guerra del XXI secolo e che sarà lunga e difficile”.

Una guerra diversa dalle altre (ma già nella guerra del Golfo e soprattutto nei Balcani se ne erano avuti i segnali: una guerra tecnologica, attenta come non mai a limitare le perdite in vite umane nel proprio esercito, e quindi, per quanto possibile, spazio ai bombardamenti dall'alto, alle bombe intelligenti e al ruolo dei corpi speciali e dell'intelligence). E qui torniamo ai 4 principali fornitori del Pentagono: oggi il 90% della produzione mondiale di armamenti è concentrato in 10 Paesi e metà della produzione è localizzata negli Stati Uniti. E sono gli Usa ad avere sviluppato più di qualsiasi altro Paese le tecnologie più sofisticate per i grandi sistemi d'arma.

Non soltanto quindi gli Stati Uniti sono i big spender in questo settore (il 37% delle spese militari mondiali), ma sono anche quelli che in questi anni hanno continuato a investire in ricerca e sviluppo di nuove armi.

Il 14 dicembre il Congresso Usa ha approvato un bilancio della Difesa 2002 da 344 miliardi di dollari. Si tenga conto che, negli ultimi cinque anni, secondo il Sipri, l'Istituto di ricerche sulla pace di Stoccolma, la spesa militare statunitense non aveva mai superato i 300 miliardi di dollari. Il progetto National Missile Defense -lo “scudo spaziale”- costerà -secondo uno studio del Council for a Livable World Education Fund-economico- 273 miliardi di dollari, sia pur in vent'anni.

Anche il bilancio della difesa italiano crescerà nel 2002 almeno del 10%. La spesa militare nel nostro Paese, secondo il Sipri, si stava attestando negli ultimi anni sui 24 miliardi di dollari, dopo essere vistosamente cresciuta a metà degli anni '90.

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Tutto ciò potrebbe far invertire la tendenza dell'ultimo decennio per quel che riguarda la spesa militare mondiale che nel 2000 è stata di 798 miliardi di dollari (il che, sia detto tra parentesi, significa una spesa pro capite di 130 dollari) ma che si mantiene su questi livelli dalla fine della guerra fredda (era invece di 1.200 miliardi in dollari correnti nel 1985). Con Enduring freedom molto sembra destinato a cambiare anche perché il ruolo dell'economia di guerra può essere determinante oltre che nella lotta al terrorismo anche nella lotta alla recessione se si considera che la produzione industriale negli Stati Uniti è in calo da 13 mesi consecutivi.

Il che potrebbe valere anche per l'Unione Europea che, con grandi difficoltà, ha però conosciuto gli stessi processi di fusione e accorpamento dell'industria bellica americana (un processo sostenuto e finanziato spesso dagli Stati).

Sei i Paesi più interessati da questi cambiamenti finalizzati a competere su un mercato sempre più globale: Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia, Spagna e Svezia. Ma per un'industria degli armamenti sempre più sofisticata c'è bisogno di un mercato globale, cioè di un mercato abbastanza grande per assorbire i costi di ricerca e sviluppo industriali. E questo è appunto lo scenario che apre Enduring freedom. Il che significa quindi che ci dobbiamo aspettare nuovi cambiamenti anche per l'industria degli armamenti italiana: l'Agusta per esempio (che in base al valore contrattuale delle esportazioni autorizzate dallo Stato è al primo posto tra le aziende italiane con 582 miliardi di lire nel 2000) ha ormai un fatturato che è costituito per il 50% da produzione civile (contro una media storica del 20%) e dal 50% di militare.

Ma la gran parte della produzione di elicotteri per usi civili (nel segmento di mercato degli elicotteri medi l'Agusta è leader mondiale) può essere riconvertita con facilità per usi militari. Ed è chiaro che dopo 10 anni in cui il mercato ha chiesto modelli per i vip e per le grandi aziende tutto ciò non è più vero in tempi di recessione e crisi economica. E i committenti più interessanti tornano ad essere gli eserciti.

E qui val la pena di una piccola nota a margine: gli stessi processi di fusione e di accorpamento che hanno reso più “efficiente” l'industria bellica europea rendono oggi più difficile il controllo delle esportazioni e quindi dei flussi dei grandi sistemi d'arma nei confronti di Stati dittatoriali e, perché no?, di terrorismi vari. Se si vuole mantenere un controllo sul business delle armi è urgente ripensare anche questi strumenti.

Se anche il tonno imbraccia il fucile
L'attacco micidiale e spettacolare dell'11 settembre ha impresso un'accelerazione forte alle dinamiche del capitalismo globalizzato. Avevamo dimenticato che la storia umana procede spesso per salti e shock, avevamo dimenticato che gli “eventi” hanno sovente impresso delle brusche sterzate alla storia di una città (per esempio un terremoto), di una nazione (una guerra) o del mondo (come la seconda Guerra mondiale). Come nella vita di una singola persona, così nella storia dell'umanità l'evento irrompe nel quotidiano, nella sua banalità e normalità (sia pure aberrante), richiedendo scelte coraggiose e strategie di adattamento.

L'evento dell'11 settembre ha impresso una svolta nella storia che riteniamo di lungo periodo. Da una parte, assistiamo ed assisteremo ad un'accelerazione di meccanismi già in atto da tempo quali: una ulteriore concentrazione dei capitali, megafusioni tra grandi imprese transnazionali, una accentuata polarizzazione sociale e spaziale (Nord-Sud, città-campagne, aree periferiche-centri residenziali, ecc.), una riduzione dei diritti civili e delle libertà conquistate nei due secoli precedenti.

Da un'altra parte, l'evento dell'11 settembre ha comportato una modificazione profonda nelle dinamiche economiche e politiche nella direzione di un nuovo modello di sviluppo che possiamo definire provvisoriamente: la nuova “economia di guerra”, espressione legittima in quanto sono le strategie militari, il livello del conflitto, che determinano i nuovi assetti dell'economia mondiale.

Il motore dell'economia mondiale, gli Usa, stanno velocemente modificando i rapporti di forza tra le industrie del Paese in base agli ingenti investimenti militari, alle nuove domande di sicurezza, al riassetto della produzione e distribuzione di beni. Anche la Borsa va in questa direzione: le imprese legate, direttamente o indirettamente, all'emergenza terrorismo ed alle strategie belliche sono in palese ascesa, mentre tutti i settori dell'industria e dei servizi che rimangono “esterni” al nuovo ciclo che si è aperto sono destinati a perdere profitti e quotazioni. Ma si tratta anche di una “nuova” economia di guerra nel senso che gli effetti, soprattutto per le popolazioni occidentali, sono e saranno diversi da quelli conosciuti durante il XX secolo. Diversa è la tecnologia bellica (pensiamo solo al bioterrorismo), diversa è la percezione del nemico, non più geograficamente delimitato, più instabili e precari gli scenari delle alleanze.

In comune con le esperienze passate c'è solo la forte ripresa del ruolo dello Stato nell'economia capitalistica che cancella con un colpo di spugna tutte le tesi neoliberiste e la relativa ideologia che ha governato il mondo negli ultimi vent'anni.

Questi scenari ci inducono a riflessioni che riguardano tutto il mondo dell'economia eticamente orientata e, nello specifico, la finanza etica e quindi Banca Etica. S'impone per tutto il mondo dell'economia solidale una scelta radicale. La costruzione di “un'altreconomia” non è più un'opzione ideale, ma una necessità per la salvezza dell'intero pianeta. È impensabile in questo quadro una qualunque partecipazione ai giochi della finanza internazionale quanto ai meccanismi della Borsa, in quanto i “capital gains” saranno determinati dal ciclo bellico e non ci saranno più margini di manovra tra capitali “buoni” e cattivi”. Anche l'impresa che produce scatole di tonno, per chiarire la questione, avrà chance profondamente diverse se entrerà nelle commesse pubbliche per la guerra o gli aiuti umanitari (che ormai vengono distribuiti insieme!) o resterà ai margini di questa nuova e succulenta domanda. Anche la più seria industria farmaceutica, per fare un altro esempio, riuscirà a crescere solo se entrerà, direttamente o indirettamente, in sintonia con la nuove domande di salute e sicurezza determinate dalla situazione di insicurezza globale.

In questo quadro pensare a “fondi etici” sfiora il ridicolo o l'ipocrisia. Le precedenti forme di rating etico perdono di senso. Non basta più sapere se un'impresa produce direttamente armi o merci pericolose, ma dovremmo studiare tutta la filiera bellica per capire come di volta in volta queste imprese possano essere agganciate o sganciate dall'economia di guerra. Ma, soprattutto, è evidente un fatto: le imprese che possono migliorare le loro performance in Borsa sono solo quelle che sono in qualche modo correlate al nuovo ciclo economico-militare. Anche il commercio equo dovrà fare i conti con nuovo scenario, dovrà scegliere una strategia per creare un legame forte con i Paesi del Sud del mondo che sono entrati, loro malgrado, nel conflitto globale. Pensiamo, ad esempio, al Mediterraneo dove ancora è molto debole la diffusione del commercio equo, e quindi la costruzioni di relazioni sociali Nord-Sud legate ad un'altra logica, mentre avanza il conflitto che dalla Palestina rischia di estendersi a tutti i Paesi arabi. Il commercio equo dovrebbe investire di più in questa direzione, organizzare più missioni, più approfondimenti delle realtà locali, più iniziative politiche in Italia ed in Europa.

Un'altra grande questione riguarda “l'aiuto umanitario” e le organizzazioni non profit coinvolte. È ormai evidente che siamo entrati, fin dalla guerra nel Kosovo, in una nuova fase in cui “bombe e doni”, distruzione e ricostruzione, viaggiano insieme e si autosostengono. Addirittura, siamo arrivati alla situazione aberrante in cui i “pacchi dono” e le “cluster bomb” vengono confezionati allo stesso modo e lanciati sull' Afghanistan perché i bambini possano imparare a sopravvivere pericolosamente, in un mondo che si diverte ad insegnargli una sorta di nuovo gioco che assomiglia tanto alla famosa “roulette russa” dove una pistola con una cartuccia nel caricatore viene puntata alla tempia sperando che il destino sia favorevole.
Tonino Perna!!pagebreak!!

La finanza in trincea
hi ci guadagna e chi perde nell'economia di guerra? Forse è presto per tracciare un identikit definitivo ma le novità di cui tener conto nell'economia-mondo non mancano. Come ha dimostrato anche il rilancio dei negoziati dell'Organizzazione mondiale del commercio a Doha, la permeabilità delle frontiere ai capitali e ai commerci non è in discussione.

Però parlare di regolamentazione e di controllo del sistema finanziario internazionale non è più un tabù. L'hanno fatto, per esempio, i ministri finanziari e i governatori delle banche centrali del G20 (Arabia Saudita compresa) che si sono impegnati a recepire negli ordinamenti nazionali la risoluzione delle Nazioni Unite contro la criminalità transnazionale organizzata.

Così la guerra finanziaria al terrorismo è partita ben prima di quella sul terreno militare. Si scambiano più velocemente le informazioni, si invitano anche altri Paesi a far parte del gioco, si costituiscono gruppi nazionali di lavoro ad hoc. Dal 15 ottobre anche in Italia è in vigore il decreto legge sulle “misure urgenti per reprimere e contrastare il finanziamento del terrorismo internazionale” che istituisce tra l'altro il “Comitato di sicurezza finanziaria”: oltre a poter richiedere accertamenti all'Ufficio italiano cambi e alla Guardia di Finanza potrà anche ordinare vere e proprie indagini (avrà a disposizione forse 600 uomini).

Sono alcune decine i conti bancari “intestati a soggetti sospettati di connessioni terroristiche, inclusi nelle liste internazionali” congelati in Italia alla fine di novembre (e su altri 49 si sta indagando). Misure analoghe sono state prese in Francia e in Germania. Ogni Paese del G20, conformemente alle sue leggi, ha preparato o sta preparando la lista di coloro che sono sospettati di finanziare il terrorismo e ne congela i relativi beni. Ma l'aggiornamento della lista principale (la prima che è stata resa nota) è fatta da una task force Usa che comprende i dipartimenti del Tesoro, di Stato e della Giustizia, ma anche l'Fbi e la Cia. Già all'inizio di novembre erano oltre 43 milioni di dollari (circa 90 miliardi di lire) i fondi bloccati in tutto il mondo perché sospettati di finanziare attività terroristiche.

110 i Paesi che si sono impegnati a sostenere gli Usa in questa battaglia e in più di 60 sono già stati congelati dei fondi: lotta globale contro il finanziamento ai terroristi.

Non male per un mondo che ha sempre dichiarato impossibile, o quasi, la lotta planetaria al riciclaggio di denaro sporco e al controllo dei flussi finanziari. Bisogna vedere quanto queste misure si mostreranno efficaci (e legittime): già nel 1998 l'allora presidente americano Bill Clinton aveva firmato un decreto per il blocco sul territorio americano dei beni legati a Bin Laden e alla rete al Qaeda, ma le autorità federali non erano stati in grado di localizzarli. Che cosa è cambiato da allora? Il fatto è che ora la finanza è uno dei fronti della guerra totale al terrorismo.

Meno pubblicità, ma Limes fa il botto
Una contrazione degli investimenti pubblicitari di almeno il 10%. È la perdita (per gli investimenti su giornali e periodici) dopo l'11 settembre. Eppure l'attacco alle due torri e quel che ne è seguito hanno fatto fare buoni affari in edicola. La rivista Limes ha venduto 80 mila copie del primo quaderno speciale, “La guerra del terrore”, subito dopo l'attentato, quattro volte rispetto alle 20 mila copie abituali, mentre il secondo, “Nel mondo di Bin Laden”, ha venduto 50 mila copie.

Panorama, tra metà settembre e i primi di dicembre, ha dedicato 9 copertine alla crisi. Ha pubblicato due speciali e un dossier d'approfondimento; più 2 instant book pubblicati a parte, “La vera storia di bin Laden” e Il Corano.

La gente, dopo lo shock iniziale, ha finito con l'abituarsi alla guerra in corso e ha ripreso a pensare ad altro. E nelle ultime settimane i botteghini dei cinema italiani hanno venduto il 36% in più rispetto all'anno precedente (più 7-8% anche negli Usa).

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Borse in crisi. A metà

orse non sapremo mai se l'attacco alle Torri gemelle è stato preceduto da speculazioni di Borsa ad hoc da parte di Bin Laden o di qualcuno dei suoi (indagini sono in corso). Quel che è certo è che gli attacchi terroristici hanno avuto come effetto quello di mettere a repentaglio l'economia così come oggi la conosciamo. Le Borse erano già in difficoltà prima dell'11 settembre: rispetto ai massimi raggiunti nei primi mesi del 2000 le perdite oscillavano tra il 30 e il 50% un po' su tutti i mercati, soprattutto per quel che riguarda i titoli tecnologici. Milano, Parigi e Francoforte avevano perso circa il 30%. In ogni caso era finito il lungo ciclo economico di crescita. La discesa è incominciata nella seconda metà del 2000 ed è proseguita, con alti e bassi, per tutto il 2001 con perdite a fine agosto intorno al 10% per New York e al 20% per Milano. Dopo l'11 settembre c'è stato un crollo: 20% circa per entrambi. Ma già col 20 settembre è tornato un po' di ottimismo sui mercati e alla fine dell'anno le Borse avevano recuperato la situazione precedente l'11 settembre. Tutto come prima dunque? No, affatto. Perché alcuni titoli hanno perso molto e altri hanno guadagnato. Male gli assicurativi, i titoli relativi alle compagnie aeree (e ai produttori), i titoli ciclici e tutto il settore del turismo. Bene invece i telefonici e i farmaceutici (la Bayer, produttrice del Cipro, l'antibiotico elettivo contro l'antrace, ha visto il titolo segnare addirittura una punta di più 44%). Bene anche tutti i tecnologici legati all'industria della Difesa e della sicurezza.

Secondo la commissione Bilancio del Congresso Usa, il rafforzamento dei sistemi di sicurezza antiterrorismo potrebbe valere 1.500 miliardi di dollari. Una cifra enorme sulla quale si fa conto, tra l'altro, per uscire dalla recessione.

Pesante l'intervento pubblico americano a sostegno dell'economia (e per un liberista convinto come l'attuale presidente americano non c'è male). Bush ha lanciato una manovra tra i 65 e i 75 miliardi di dollari ai quali vanno aggiunti i 40 miliardi già stanziati per la sola New York e i 15 miliardi a sostegno delle compagnie aeree. Ed è pronto un maxi taglio alle tasse da 60 miliardi di dollari.

Conflitti e affari: il posto della cooperazione
Le guerre, già grande affare dei Paesi produttori di armi, sono anche un business per le organizzazioni non governative e le agenzie umanitarie? Secondo gli esperti no, e anche i numeri sembrerebbero confermarlo. Ma non del tutto.

Vediamo il fronte italiano. “Il ministero Affari esteri ha una difficoltà procedurale nel rispondere rapidamente a situazioni di emergenza -spiega Sergio Marelli, presidente dell'Associazione ong italiane- per questo utilizza sempre più il canale multilaterale, ovvero affida fondi alle grandi agenzie delle Nazioni Unite, che poi fanno intervenire le ong per realizzare gli interventi”. Una strategia che è una scorciatoia per le proprie responsabilità, ma anche un modo di fare cooperazione a un livello diverso, quella di avere più peso nelle grandi agenzie. In questo modo, però, diventa difficile per gli organismi italiani accedere ai fondi e, soprattutto, impossibile partecipare alla concezione dei progetti. Così sono stati “triangolati” i 70,4 miliardi di lire straordinari stanziati dal governo italiano per l'Afghanistan (briciole comunque, se paragonati ai 10 miliardi al giorno preventivati per la partecipazione militare italiana a Enduring freedom), e affidati ad Acnur (Alto commissariato dell'Onu per i rifugiati), Programma alimentare mondiale (Pam), Unicef e altre istituzioni.

Unica eccezione il finanziamento diretto a una ong italiana, Intersos di Roma, che ha ricevuto sull'unghia un miliardo di lire per un programma di miglioramento delle condizioni di vita delle donne nei campi profughi pachistani, oltre ad avere in gestione insieme a Coopi di Milano i soldi raccolti dall'appello di urgenza dell'Acnur: 4 miliardi di lire tra ottobre e novembre.

Sono pronti a far le valigie per l'Afghanistan anche al Cesvi di Bergamo (20 miliardi di budget, 30 sedi estere), presente in Tagikistan da alcuni mesi. In previsione un grosso programma finanziato dalla Ue per la riabilitazione delle scuole nel Nord-Est afgano, per ora però in corso solo un piccolo progetto (50 milioni dalla Regione Lombardia) di prima emergenza; distribuzione di coperte, viveri, tende.

Altri poi hanno fatto scelte diverse, come Emergency e Medici senza Frontiere, ancora due colossi dell'emergenza, che hanno deciso di rifiutare i fondi pubblici di un governo che ha votato per la guerra, puntando tutto sulla raccolta popolare. Che non va poi male, almeno per Emergency (16 miliardi di fatturato annuo, di cui 6,5 destinati proprio all'Afghanistan) che ha fatto nascere oltre 60 gruppi di appoggio in tutta Italia.

I numeri dell'Unione

E in Europa? A leggere il più importante rapporto al Parlamento europeo sulle politiche di sviluppo comunitario, la posizione sembra chiara. Ma le ong europee denunciano che mentre il bilancio totale è cresciuto del 3,4%, le voci della cooperazione esterna sono scese del 2,1%, accontentandosi di 4,8 miliardi di euro (il 4,8% del budget totale). Criticano anche la riduzione dei fondi per l'emergenza (sicurezza e aiuti alimentari) che occupano circa il 25% della torta totale degli aiuti.

Spiccioli di prodotto interno lordo

Sulla divisione emergenza-sviluppo anche per l'Italia resta preponderante il secondo, con circa 3.200 miliardi stanziati (di cui 80 per i progetti promossi dalle ong) contro 162 per l'emergenza (dati 2000). Sui fondi 2001, invece, non ci sono ancora dati ufficiali, ma la politica è stata quella della concentrazione geografica, per non disperdere gli esigui contributi: 80% a Balcani, Medio Oriente, Africa Settentrionale, Corno d'Africa, Cina e India. Il restante 20% in Africa Occidentale, America Latina e Asia.

Previsioni future? “Sulla bozza di finanziaria 2002 del governo italiano -spiega Marelli- c'è una chiara mancanza di coerenza. Il ministro Ruggiero, all'indomani dell'11 settembre aveva promesso di incrementare le risorse per la lotta al terrorismo e la prevenzione dei conflitti. L'attuale bozza di finanziaria, invece, propone di mantenere i finanziamenti al livello del 2001 (0,14% del Prodotto interno lordo, quando la media dei Paesi dell'Ue è di 0,24%), più l'aggravante di un taglio di 35 miliardi ai progetti di sviluppo promossi dalle ong”. Con una nota di ulteriore preoccupazione per il 2003, dove si parla di un fondo di 100 milioni di euro, ma ci sono forti dubbi che siano gli stessi fondi già promessi a Kofi Annan per il fondo sull'Aids. E su questo dal ministero degli Esteri riceviamo solo un “no comment”.

E a proposito della guerra in Afghanistan, e ai suoi stanziamenti straordinari, c'è chi dice che è ancora presto parlare di interventi umanitari. Obiezioni di fondo vengono poi avanzate da molte ong sul modo di intervenire: esempio classico, quello dell'aiuto alimentare che, se non opportunamente studiato, dà il colpo mortale alle deboli economie locali (157 milioni di dollari, circa 340 miliardi di lire, lo stanziamento Usa di ottobre per i fatidici “pacchetti gialli” paracadutati insieme alle bombe). “È necessario che le azioni di emergenza non compromettano lo sviluppo futuro” chiarisce Emanuele Pinardi del Cosv di Milano, da anni attivo in Somalia e in altri Paesi in guerra. E che in questi giorni guarda con grande preoccupazione al rischio dell'estendersi della guerra. “La crisi in Somalia dura da 11 anni, si poteva fare molto di più e prima, per dare un governo al Paese. Creare un tavolo di negoziati, azioni diplomatiche. Soprattutto da parte dell'Italia, che ha un rapporto storico privilegiato con questa terra”. La storia è sempre la stessa. Situazioni di crisi si creano e si incancreniscono perché i problemi non si affrontano all'inizio. E non si tratta solo di Somalia. Pinardi ricorda: “Il Sudan di oggi può essere l'Afghanistan di domani”.

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Armi: chi vende a chi

Tra il gennaio e l'agosto del 2001 dall'Italia sono partite 36 tonnellate di armi e munizioni con destinazione Emirati Arabi Uniti per un valore di 20 milioni di euro (oltre 38 miliardi di lire), qualcosa come 291 tonnellate di materiale bellico destinato al Libano (1 milione e mezzo di euro) e quasi due tonnellate di armi all'Algeria per un ammontare di poco inferiore a 900 mila euro. Sono i dati doganali forniti dall'Istat e riferiti in prevalenza ad armi leggere, anche se nella classificazione del munizionamento sono compresi missili e bombe di dimensioni maggiori.

Il principale cliente dell'industria italiana delle piccole armi restano gli Stati Uniti, che nei primi otto mesi dell'anno scorso hanno acquistato materiale per 98 milioni e mezzo di euro (190 miliardi di lire). Ma prima della guerra in Asia centrale, i grandi affari dell'industria bellica occidentale con Paesi che proteggevano il radicalismo islamista negli anni '90 sono stati fatti con il Pakistan e con l'Arabia Saudita e, attraverso di essi, in qualche momento anche con il regime dei Talebani in Afghanistan. Scrive la rivista “Raids”, legata al mondo dei mercanti d'armi e dei mercenari, nel settembre 1995: “I Talebani hanno ricevuto armi leggere, mezzi blindati e velivoli dal Pakistan, con il sostegno finanziario dell'Arabia Saudita e l'approvazione di Washington”.

Sempre gli Stati Uniti nel '97, quando gli uomini del mullah Omar erano ormai al potere, mandarono a Kabul non solo 45 milioni di dollari di aiuti umanitari ma anche 275 mila dollari di “security assistance”, termine con cui si indicano il sostegno economico a Paesi strategici e i programmi antidroga e antiterrorismo.

Il Pakistan, intanto, riceveva veicoli blindati M-113A2 dagli Stati Uniti, elicotteri antisommergibili Lynx dalla Gran Bretagna, cacciabombardieri Mirage III dalla Francia. Massicce forniture di aerei e carri armati arrivavano dalla Cina e qualcosa in campo elicotteristico perfino dalla Russia. L'Italia fa il pieno nel '94 e nel '97 con due grosse commesse di radar Grifo della Fiar (Finmeccanica) installati sia sui caccia di costruzione cinese F-7 che sui Mirage, per un valore totale di oltre 100 milioni di dollari.

È l'Arabia Saudita, uno dei principali clienti dell'industria militare occidentale. Le vendite da governo a governo degli Usa a Ryad tra il 1991 e il 2000 sono ammontate a 33 miliardi e mezzo di dollari. La connection saudita nell'establishment Usa va anche oltre, date le ampie relazioni finanziarie in corso in campo petrolifero e non, di cui è simbolo la partecipazione di capitali sauditi al Carlyle Group, la società di investimento guidata da esponenti dell'amministrazione Reagan di cui è socia anche la famiglia Bush.

Anche i Paesi dell'Europa Occidentale hanno venduto negli anni '90 a Ryad armamenti per decine di miliardi di dollari. E dall'Arabia Saudita dipendono molto più degli Usa per le forniture di petrolio. Tra gli affari più grandi, le esportazioni dei cacciabombardieri anglo-italo-tedeschi Tornado, che portarono le autorizzazioni all'export italiane ai sauditi nel 1994 al record di 395 milioni di euro (765 miliardi di lire), e la fornitura delle fregate francesi F3000S, armate anche con sistemi di altri Paesi tra cui l'Italia.

Francesco Terreri

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