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Cultura e scienza / Intervista

Teatro sotto shock: i Sotterraneo trasformano la fine del mondo in uno show

Sara Bonaventura e Claudio Cirri dei Sotterraneo sul palco insieme a Lorenza Guerrini, Daniele Pennati e Giulio Santolini © Giulia Di Vitantonio

Il collettivo teatrale fiorentino, nato nel 2005, quest’anno compie vent’anni. Per l’occasione dal 7 al 19 ottobre 2025 al Piccolo teatro di Milano si è tenuta una personale di quattro appuntamenti che li ha celebrati. Altreconomia ne ha approfittato per fare due chiacchiere con i suoi componenti riguardo al loro teatro, capace di divertire e inquietare allo stesso tempo. Un’intervista a tutto campo su tempo, tecnologia e apocalisse

Capita di rado che a teatro ti invitino a non spegnere il cellulare. Anzi: che ti chiedano di usarlo, di impostare un timer da 45 minuti e di assistere allo spettacolo con quel conto alla rovescia in tasca, quasi un countdown verso la fine del mondo.

È il brillante espediente dei Sotterraneo in “L’angelo della storia”, lo spettacolo cult tornato in scena al Piccolo teatro di Milano per celebrare un compleanno, i vent’anni della compagnia fiorentina. Un’idea ironica e al tempo stesso inquietante. Perché l’angelo della storia è quello di Walter Benjamin -figura cardine del pensiero novecentesco- ma anche quello evocato dallo storico Yuval Noah Harari: un essere trascinato da una tempesta di progresso, costretto a guardare il passato con orrore mentre viene spinto, inesorabilmente, verso il futuro. Lo spettacolo è una sorta di parabola contemporanea, un viaggio tra diecimila anni di storia umana raccontata come una lunga serie di “scandali”: miti che sembrano inventati e invece sono veri, cronache che si rivelano credibilissime fake news, vicende che ci inchiodano alla nostra stessa ferocia.

I Sotterraneo sono un collettivo di teatro di ricerca e di teatro danza tra i più originali della scena italiana. Tre fenomenali quarantenni fiorentini -Sara Bonaventura, Claudio Cirri e Daniele Villa- che negli anni hanno costruito un linguaggio inconfondibile, ironico, colto e pop al tempo stesso. Premiati più volte (tra gli altri con l’Ubu 2022 per “L’angelo della storia” e il premio Hystrio alla drammaturgia del 2025), hanno all’attivo oltre venti spettacoli e una serie di progetti con molti collaboratori del panorama teatrale. Li abbiamo incontrati in un bar di Milano, alla vigilia della replica al Piccolo -dove dal 7 al 19 ottobre 2025 si è tenuta una loro personale di quattro appuntamenti-, per una chiacchierata a tutto campo su tempo, tecnologia e fine del mondo.

Vent’anni di Sotterraneo. Ve lo sareste mai immaginati di arrivare fin qui?
ST Onestamente no. Non ci abbiamo mai neanche pensato. Abbiamo sempre preferito stare nel presente, lavorare di volta in volta. Non ci siamo mai detti “chissà dove saremo tra cinque, dieci o venti anni”. Ci poniamo obiettivi pratici, legati alle scadenze o all’organizzazione del lavoro, ma non piani a lungo termine. È sempre stata “una partita dopo l’altra”.

Eppure vi siete dati un appuntamento con il futuro, no?
ST Sì, quando abbiamo festeggiato i dieci anni abbiamo fatto una sorta di “capsula del tempo”. Gli spettatori hanno lasciato dei messaggi murati nella parete di un teatro fiorentino. A dicembre la riapriremo e rileggeremo tutto. È bello ritrovare quella memoria condivisa.

Come siete nati invece? Come nasce Sotterraneo?
ST Eravamo un gruppo di amici universitari. Era il 2005, avevamo poco più di vent’anni e volevamo fare teatro ma senza un regista o un’impostazione accademica. Lavoravamo in modo orizzontale, collettivo. Ci siamo iscritti quasi per caso al Premio Scenario, senza sapere bene cosa fosse, e siamo arrivati tra i vincitori. Da lì abbiamo deciso: “Ok, proviamo a fare di questo un lavoro”, anche se all’inizio non ci pagava nessuno. Abbiamo passato anni a provare dieci, dodici ore al giorno, fino a costruire una ricerca che è diventata anche la nostra scelta di vita.

Cristiana Tramparulo, Davide Fasano, Flavia Comi, Radu Murarasu, Fabio Mascagni in “Il fuoco era la cura” © Masiar Pasquali

Siete uno dei gruppi più divertenti del teatro italiano. Avete questo linguaggio che molti definiscono “avant-pop”, o piuttosto “postmoderno ironico”. Come riuscite a tenere insieme la leggerezza pop e una ricerca così profonda e complessa?
ST Partiamo dal fatto che rifuggiamo ogni “messaggio unico”. Non vogliamo fare teatro a tesi. Ci riconosciamo molto nella frase di Eugène Ionesco che ripetiamo sempre: “Non porto messaggi, non sono un postino”. Il nostro obiettivo è creare opere aperte che lascino ampio margine d’interpretazione. L’ironia è il nostro strumento per entrare in quella complessità: serve a rendere accessibile un pensiero profondo, a più livelli di lettura. Uno può divertirsi anche senza cogliere i riferimenti filosofici o letterari ma chi li riconosce trova altri strati. È un modo per stare nel mondo -con ansia, disagio, contraddizione- ma anche con uno sguardo ironico che permette di sopravvivere e riflettere.

Però nei vostri spettacoli emerge sempre anche la violenza del mondo. C’è questa convivenza tra il gioco e la ferocia, tra riso e shock.
ST Sì, per noi riso e dolore convivono. L’ironia è un distacco critico, una lama che seziona il presente. Il riso, in fondo, è anche un digrignare i denti. Il nostro teatro intreccia sempre l’entertainment e la ferocia perché è un modo di prendere i codici conosciuti, i linguaggi, e rovesciarli. Non facciamo teatro “sull’attualità” -non citiamo Gaza o l’Ucraina- ma cerchiamo di parlare del divenire storico, di quei meccanismi profondi che attraversano le epoche e quindi il nostro tempo. Quando qualcuno ci dice “il vostro è un teatro politico senza esserlo in modo esplicito”, per noi è un gran complimento.

A proposito del vostro metodo: siete molto “letterari”, ma poi il risultato è sempre esplosivo, divertente, anche un po’ “cazzone”. Vi vedo un po’ come Rick e Morty: comicità e filosofia insieme.
ST Ci piace molto come paragone! In effetti dietro ogni spettacolo c’è un lavoro di studio enorme, quasi un piccolo dottorato di ricerca. Siamo dei secchioni. Gli autori che usiamo -Bradbury, Benjamin, Harari, Wallace- non sono mai temi “su cui” lavoriamo ma mappe per orientarci. Ogni progetto ha la sua bibliografia infinita. Poi però il risultato deve avere diversi livelli di accesso.

In questa personale fate anche dei “talk show”. Che formato è?
ST È un talk show performativo. Intervistiamo dal vivo pensatori, scienziati, filosofi -persone che stimiamo- ma dentro ci sono anche momenti teatrali, scene, linguaggi performativi. È un modo per studiare insieme al pubblico, per aprire il nostro processo.

Siete stati tra i primi a lavorare su temi come la fake news, la post-verità, la percezione distorta del reale. Oggi se ne parla molto ma voi ci siete arrivati presto.
ST È un’ossessione che abbiamo da sempre. Noi umani siamo più bravi a raccontarsi storie che a leggere la realtà: e questa spesso aderisce a quelle narrazioni, anche se sono false. Abbiamo sempre lavorato su questo confine tra verità e finzione, anche formalmente, sul gioco tra presentazione e rappresentazione. Quando poi abbiamo letto Fisher, Harari, Kahneman, ci siamo resi conto di appartenere a una comunità di pensiero più ampia, preoccupata per la perdita di realtà nella civiltà occidentale. Il teatro, essendo arte dal vivo, ci permette di indagare proprio questo: la sospensione di incredulità, l’ambiguità del “vero” e del “finto”.

© Antonio Ficai

Avete definito il vostro “teatro politico ma non militante”. Che cosa significa?
ST Forse la formula più precisa è “teatro politico ma non ideologico”. Il palco per noi è un luogo di ambiguità e contraddizione. Preferiamo dire qualcosa che non pensiamo, con ironia, per costringere il pubblico a riposizionarsi. Non ci interessa un teatro che predica o che conferma le certezze della sua platea. La politica, per noi, è nel mettere in crisi. Nel far pensare a come si sta al mondo, come si affronta il conflitto e la trasformazione.

Ma il pubblico, alla fine, vi segue in questa messa in crisi?
ST Il teatro si fa sempre con la complicità critica del pubblico. Noi lo consideriamo alla pari, anzi: spesso gli spettatori sanno più di noi. Non portiamo messaggi ma costruiamo un dialogo. Quando qualcuno dice “Mi è venuto il freddo al collo ma mi sono divertito”, per noi è il massimo. Significa che abbiamo tenuto insieme la contraddizione.

Quindi il vostro è da sempre un teatro dell’apocalisse?
ST Forse sì. Negli anni zero l’apocalisse era qualcosa che “stava per arrivare”. Ora ci viviamo dentro. Ma non la chiamiamo più così: è semplicemente il periodo storico in cui siamo.

Su che cosa state lavorando adesso?
ST Siamo in una fase di studio e di repertorio, stiamo rallentando un po’ i ritmi produttivi per capire dove andare. Viviamo in un tempo di apocalisse permanente -climatica, bellica, politica- e il rischio è essere sempre superati dalla cronaca. Noi vogliamo provare a fermarci, a leggere il presente senza inseguirlo.

Oggi all’arte si chiede di “riempire”, di essere sempre produttiva. È una forma di bulimia culturale?
ST Esatto. È come suonare sul ponte del Titanic. Ci si misura sui numeri -biglietti, presenze- e non sulla qualità. La vera domanda è: perché tutta questa offerta culturale non riduce la barbarie? O stiamo sbagliando bersaglio o il legame tra cultura e civiltà si è spezzato. E questa sì, è una catastrofe.

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