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Teatro civile e tasche vuote – Ae 78

Portano in scena storie di immigrazione, di diritti negati, di pace e guerra e, addirittura, di consumo critico: viaggio nel mondo delle produzioni teatrali indipendenti, ricche di passione, ma a corto di denari. I grandi nomi se la passano meglio,…

Tratto da Altreconomia 78 — Dicembre 2006

Portano in scena storie di immigrazione, di diritti negati, di pace e guerra e, addirittura, di consumo critico: viaggio nel mondo delle produzioni teatrali indipendenti, ricche di passione, ma a corto di denari. I grandi nomi se la passano meglio, ma solo grazie alle sovvenzioni pubbliche. Che negli ultimi vent’anni sono crollate


Dice Roberta che da bambina sognava di fare la giornalista,  e invece è finita su un palcoscenico. Ma la voglia di raccontare storie -anche scomode, difficili- è rimasta. Roberta Biagiarelli fa teatro da vent’anni, e da circa cinque ha scelto la strada dell’autonomia e del teatro “civile”. Un mondo sempre più affollato -nelle sue varie declinazioni: teatro sociale, teatro politico e così via- che spesso si regge più sulla passione che sulle risorse economiche. Perché a parte pochi nomi famosi (da Marco Paolini ad Ascanio Celestini) le realtà che portano in scena storie di migranti, di lavoro in fabbrica, di inquinamento, di guerra o, addirittura, di consumo critico, sono molto spesso piccole o piccolissime compagnie che lottano per stare in piedi.

Roberta Biagiarelli, marchigiana, ha fondato la sua Babelia quando è rimasta “orfana” di Laboratorio Teatro Settimo, la compagnia torinese dove si era formata, dove aveva lavorato per tredici anni e che nel 2001 si è sciolta: “Avevo bisogno di una casa per A come Srebrenica -racconta-, uno spettacolo sulla guerra in Bosnia che avevo scritto qualche anno prima e che stavo portando in giro. Serviva una struttura per gestirlo. A oggi ha già avuto più di 400 repliche”.  La compagnia è nata così, ed ha sempre avuto una forma essenziale: oltre a Roberta, attrice ma anche amministratrice e organizzatrice, lavorano la regista Simona Gonella, il tecnico Giovanni Garbo, Giulia Guerra che si occupa della promozione. E stop.

“È un bene -dice Roberta- perché siamo molto autonomi e perché posso fare le cose in cui credo. Ma è anche un male, perché a 40 anni mi carico ancora da sola il furgone, passo a prendere il tecnico a Bologna… facciamo tutto noi”. Troppo piccola per i finanziamenti pubblici, Babelia è una compagnia che vive grazie agli spettacoli che riesce a vendere a un circuito alternativo fatto di enti locali, associazioni, gruppi vari: 1.500 euro a replica, con una stagione teatrale che (“se va bene”) va da maggio a ottobre: “Tolte le spese, andiamo in pari”.

E questo influisce, ovviamente, sulle produzioni, che in scena non hanno mai più di uno o due attori. Così è possibile contenere i costi “al debutto” (quindi repliche escluse) entro i 20-30 mila euro. In alcuni casi qualche contributo arriva anche: Resistenti. Leva militare ‘926 è un racconto sulla Resistenza realizzato grazie al contributo del Comune di Fiorenzuola: “Ma ci ho dovuto mettere anche 10 mila euro di tasca mia, ancora da ammortizzare”.

Il problema vero è che negli ultimi anni i bilanci degli enti locali sono stati sforbiciati dal governo e, come conseguenza, “quest’anno stanno arrivando le telefonate di disdetta da alcuni Comuni che avevano già prenotato lo spettacolo”. Roberta però non si ferma e ha già iniziato a lavorare a un progetto su Falluja in collaborazione con l’associazione “Un ponte per…”, che la porterà in Giordania per raccogliere le testimonianze dei profughi iracheni (info: www.babelia.org).

Se i piccoli arrancano per questioni di denari, e a volte rischiano di soccombere, in realtà tutto il sistema-teatro italiano guarda con preoccupazione all’aspetto monetario: “Lo spettacolo dal vivo nel nostro Paese sta in piedi soltanto grazie ai finanziamenti pubblici e privati”, conferma Alberto Bentoglio, docente di Organizzazione ed economia dello spettacolo all’Università di Milano. Dove per finanziamenti si intendono i contributi pubblici (erogati dal Fus, il Fondo unico dello spettacolo del ministero dei Beni culturali, o da Regioni, Provincie, Comuni), ma anche di sponsor privati.

Il cosiddetto “sbigliettamento”, cioè la spesa diretta del pubblico al botteghino, non basta. Il Fus finanzia diversi settori, dal balletto al circo, come racconta nel dettaglio la tabella a pagina 28, ma ad assicurarsi quasi metà della torta, cioè oltre 200 milioni di euro l’anno, sono le Fondazioni liriche: “La cosa è giustificata dall’elevato numero di dipendenti che hanno queste strutture -spiega Bentoglio-.

La Scala di Milano, per esempio, tra coro, attori, orchestra, amministrativi e così via, ha oltre 800 dipendenti”.

Al teatro di prosa resta ben poco: 77,5 milioni di euro nel 2005 che vanno spartiti tra teatri stabili pubblici e privati, stabili d’innovazione, imprese di produzione teatrale, teatro di figura…

E non tutti quelli che hanno i requisiti per accedere ai finanziamenti riescono poi a ottenerli, perché i fondi del Fus sono in calo da anni, con un taglio del 12,5% tra il 2001 e il 2005 e addirittura del 40.1% rispetto al 1985 (ma il governo attuale ha promesso che riporterà i fondi al livello del 2001).

Una situazione con cui si scontrano in primis gli stabili, che sono in genere le realtà più grosse e strutturate nel settore: 34 in Italia, divisi a metà tra privati e pubblici.

Come il Teatro Eliseo di Roma, per esempio, con 220 mila presenze l’anno nelle sue due sale, 17 dipendenti fissi (ma con gli stagionali per gli allestimenti si arriva anche a un centinaio) e ricavi per 6 milioni di euro. L’Eliseo è un dei principali stabili privati italiani, e nell’ultimo anno ha perso il 15% dei finanziamenti Fus, passando da 1,7 milioni di euro a poco più di 1,5 milioni. Una fetta sostanziosa delle entrate, dovute per il 60% ad abbonamenti e biglietti, pochi contributi dagli enti locali (tra i 100 e i 150 mila euro) e qualcosa in più dagli sponsor (400-450 mila euro l’anno).

“Senza contributi potremmo anche stare in piedi, ma ci vorrebbero maggiori agevolazioni fiscali”, precisa Massimo Monaci, che dell’Eliseo è direttore generale. Invece, a causa dei tagli, “dobbiamo diminuire il numero di produzioni”, che restano comunque almeno cinque all’anno, con un costo al debutto che varia tra i 35 mila euro e i 180 mila, a seconda della tipologia. E poi, per i grandi come per i piccoli, c’è la questione dei tempi di pagamento: i contributi pubblici possono arrivare anche un anno e mezzo dopo l’effettiva assegnazione, che viene sempre comunicata ad anno ormai inoltrato: “Noi -sottolinea Monaci- abbiamo saputo a quanto ammontava il nostro contributo Fus per il 2006 soltanto a settembre, con l’inizio della stagione alle porte”.

La soluzione? “Si chiedono prestiti alle banche”.

I teatri stabili pubblici, per la loro stessa natura, possono contare su sovvenzioni più generose. Per citare un esempio soltanto, la Fondazione Teatro Stabile di Torino nel 2005 ha avuto ricavi per quasi 23 milioni di euro (con 50 dipendenti a tempo indeterminato e 170 mila spettatori nella stagione 2005/2006), coperti per il 45,9% dai contributi ministeriali e da quelli dei soci (Città di Torino, Regione Piemonte, Provincia di Torino, Compagnia di San Paolo, Fondazione Crt).

Cifre che una compagnia indipendente non si sogna neppure. Anche se su una cosa sono tutti d’accordo: “Non si campa d’incassi”, come conferma Paolo Cantù, responsabile organizzativo del Teatro della Cooperativa, nato nel 2001 a Milano come una bella scommessa. Una piccola sala alla periferia nord della città e una predilezione per un teatro che “destabilizzi”, come racconta Renato Sarti, anima e direttore artistico del progetto. Ecco perché le produzioni (una o due all’anno) raccontano storie di donne partigiane, di carrette del mare cariche di immigrati clandestini, o dei nuovi fascismi che serpeggiano nella nostra società.

Il problema principale sono e restano i soldi. Che non ci sono: “L’unica produzione nuova di quest’anno, una satira sulla religione -dice Sarti- non sappiamo ancora come la pagheremo. E quindi se riusciremo davvero ad allestirla”.

Soltanto una piccola parte dei ricavi (pari a 450 mila euro) arriva da fondi pubblici: Regione, Comune, Provincia concedono in tutto 26 mila euro, ma niente Fus: “Abbiamo i requisiti da due anni, eppure non riusciamo a ottenere i finanziamenti”. Per 90 mila euro si ricorre ai privati e la quota rimanente arriva dallo sbigliettamento o dalla vendita dei propri spettacoli ad altri teatri.

Come al solito il magro bilancio, che manco a dirlo chiude in pareggio, condiziona il tipo di produzioni (“Renato non scriverà mai uno spettacolo con dieci attori -dice Paolo Cantù- perché sa che tanto non ci sarebbero i soldi per metterlo in scena”) e i salari: 8 dipendenti con stipendi tra i 1.000 e i 1.200 euro, con contratti stagionali da 11 mensilità: ad agosto non si lavora e si resta a casa col sussidio di disoccupazione (info: www.teatrodellacooperativa.it).

E c’è anche chi, pur di seguire quello in cui crede, è costretto a trovarsi un’attività parallela per campare. Chiara Casarico è attrice professionista, regista, autrice, e nel 1996 ha fondato la compagnia romana Il Naufragarmedolce, che oggi è composta da cinque donne, tratta sistematicamente temi legati al consumo critico e aderisce al Tavolo dell’Altra Economia: “Questa cosa dell’impegno civile è arrivata un po’ per caso -racconta Chiara-, da miei interessi personali”. Così nasce Equo, buono e giusto (uno “spettacolo comico per adulti bio-diversi” sui temi della sicurezza alimentare, dell’animalismo, delle biotecnologie, dei diritti sindacali) a cui seguono gli altri, come Pesci fuor d’acqua, sull’acqua come diritto inalienabile dell’uomo, e La scuola o la scarpa, sui bambini lavoratori. Poche le entrate: “Quando portiamo in giro gli spettacoli di solito andiamo in pari. Per questo cerchiamo di procacciarci il cibo in altri modi”. Chiara, per esempio, organizza laboratori teatrali per adulti o nelle scuole, e lavora come clown con i bambini negli ospedali. Senza i nostri lettori questo servizio non sarebbe stato lo stesso. Rispondendo a un appello lanciato in mailing list, ci hanno segnalato decine di esperienze di teatro civile. Grazie a tutti, quindi. Le compagnie che per motivi di spazio non trovate in queste pagine saranno segnalate a breve su www.altreconomia.it





Storie di partigiani e periferie

“Faccio il teatro che faccio perché mi piace rompere un po’ le balle”. Renato Sarti te la riassume così, con un battuta, una carriera artistica (come attore, regista e autore) iniziata a Trieste nel 1971, che lo ha portato a lavorare con i maggiori nomi del teatro italiano, a cominciare da Giorgio Strehler, poi all’Elfo con Elio De Capitani e Ferdinando Bruni e con una serie di altre realtà che vanno dalla Filarmonica Clown, a Zelig, al cinema (ha recitato tra l’altro in film di Gabriele Salvatores e Marco Tullio Giordana).

“Per anni sono stato uno zingaro del palcoscenico”, dice.

Ma a un certo punto ha sentito il bisogno di fermarsi: “Mi serviva una casa per quello che facevo. Scrivevo spesso testi, ma poi molti restavano nel cassetto”. L’occasione arriva nel 2001: la Società edificatrice Niguarda offre a Sarti una sala da circa 200 posti in via Hermada, a nord di Milano, perché la gestisca con un progetto autonomo. La Società è una cooperativa costituita nel 1894, che nel tempo ha costruito e gestito una serie di alloggi nel quartiere, dati in affitto a prezzi accessibili.

La sala, intitolata alla partigiana Gina Galeotti Bianchi (nome di battaglia Lia), era sottoutilizzata, mentre Sarti sognava di farla diventare un punto di riferimento per la zona. Metteteci poi che Sarti rivendica “un’origine assolutamente proletaria”, che “Niguarda è l’ultimo quartiere rosso di Milano”, che la sua idea è quella di fare spettacoli chiaramente “di sinistra” che “destabilizzino gli spettatori”, e la ricetta del Teatro della Cooperativa, che ha iniziato la sua attività nel 2002, è servita.

Nascono così produzioni come Nome di battaglia Lia e, con Bebo Storti, Mai morti, una riflessione su razzismo, nazionalismo e xenofobia oggi in Italia, e La nave fantasma che affronta il tema dell’immigrazione a partire dalla tragedia del Natale 1996, quando al largo delle coste siciliane affondò un’imbarcazione carica di migranti (283 le vittime).

Ma l’impegno continua: la stagione in corso ha già messo in scena Esistenza, soffio che ha fame, “una cerimonia tra teatro e spiritualità per riflettere insieme sulla dimensione sacra dell’esistenza” che ha portato sul palco il prete genovese don Adrea Gallo, Il libro della vita di Mimoun El Barouni (attore della Compagnia della fortezza, nata nel carcere di Volterra), Extracom di Giacomo Gamba, che parla di intercultura.

Nei prossimi mesi il cartellone prevede, tra l’altro, una riproposta di Mai morti (23 gennaio-4 febbraio 2007), poi Fiato sul collo. I 21 giorni di lotta degli operai della Fiat di Melfi di Ulderico Pesce (6-11 febbraio) e Io santo, tu beato (risate), nuova produzione del Teatro della cooperativa, con Bebo Storti e scritto dallo stesso Renato Sarti, (27 febbraio-31 marzo 2007). Un testo che, avendo come riferimento anche la Teologia della Liberazione, “cerca di far riscoprire la parola del Vangelo come difensore dei poveri, degli oppressi, delle prostitute, di tutti coloro che sono considerati gli ultimi della Terra”. E poi, come ogni anno, gli eventi Per non dimenticare, in memoria della strage di Piazza Fontana (12 dicembre, Spazio Oberdan) e La bicicletta di Lia. Voci, suoni e pedalate di donne resistenti, una biciclettata per i luoghi partigiani di Milano (22 aprile).

Insomma, la casa di Renato Sarti sembra aver trovato l’indirizzo giusto: in via Hermada, oltre al Teatro della Cooperativa, sullo stesso marciapiede hanno sede il circolo di Rifondazione comunista “24 aprile 1945”, l’unità di base dei Ds dedicata a “Francesco Rigoldi”, l’associazione partigiani-Anpi locale, il sindacato Uil.

E però sta proprio qui il rammarico di Renato Sarti:

“Quattro anni di attività del teatro e gli abitanti del quartiere partecipano ancora poco -dice-. Chi viene agli spettacoli arriva da fuori”.  Del resto viviamo immersi in una società che si basa sulla “teledeportazione di massa comodamente seduti in casa propria”, e qui “vanno colmati trent’anni di vuoto nei quali questo è stato soltanto quartiere dormitorio”.



La politica da un palco

Teatri in rete: è questa l’idea da cui è nato “TeatrinMovimento”, un network di compagnie impegnate su tematiche civili e politiche. “Dopo il G8 di Genova -dice Chiara Casarico di Il Naufragarmedolce- con quello che era successo, si voleva fare qualcosa per tenere viva l’attenzione su questi temi”. La difficoltà, dopo un primo censimento delle realtà italiane, è organizzare qualcosa di comune: “Ce la facciamo a Roma, anche grazie alla rassegna ‘Teatri in cortile’, che organizziamo dal 2002 per portare gli spettacoli nei cortili delle case popolari di periferia, lavorando in rete con artisti e compagnie romani e non solo”. Tra le esperienze interessanti all’interno di TeatrinMovimento c’è anche quella di Narramondo, 17 membri e gestione collettiva. Spettacoli “politici”: dalla resistenza in Palestina, agli anni di piombo. www.narramondo.it



Contributi ma non per tutti

Ecco le caratteristiche necessarie per accedere al Fondo unico dello spettacolo.

– Teatri stabili pubblici

Regione, Provincia e Comune devono garantire una o più sale ed erogare un contributo pari almeno a quello del Fus. Nucleo artistico stabile per almeno il 40%, amministrativi e tecnici per il 60%. Servono 5 mila giornate lavorative l’anno e 130 recitative in spettacoli direttamente prodotti.

– Teatri stabili privati

Per accedere ai contributi Fus devono avere la disponibilità esclusiva di una sala di almeno 500 posti, stabilità del nucleo artistico, degli amministrativi e dei tecnici, ed effettuare almeno 4.500 giornate lavorative e 120 recitative su proprie produzioni. Devono disporre di entrate “adeguate” provenienti da soggetti diversi dallo Stato.

– Teatri stabili d’innovazione

Lavorano nel campo della sperimentazione. Servono almeno una sala da 200 posti,

4 mila giornate lavorative e 100 recitative, entrate finanziarie diverse da quelle statali.

– Imprese di produzione teatrale

Le cosiddette “compagnie”. Mille giornate lavorative l’anno e 90 recitative. Direzione artistica di comprovata qualificazione professionale e nucleo artistico stabile.

– Teatro di figura

Ovvero teatro dei burattini. Servono almeno 80 giornate recitative e 700 giornate lavorative.



Va in scena l’eco-villaggio  

Tempo di festival. Tra le rassegne dedicate al teatro civile, vale la pena segnalare il Granara Teatro Festival (foto). Granara (Pr) era un villaggio contadino abbandonato da 20 anni che un gruppo di persone ha acquistato e trasformato in villaggio ecologico. Oggi il Progetto Granara comprende: produzione agricola biologica, attività di ricerca e sperimentazione nel campo delle tecnologie a basso impatto ambientale e attività di educazione ambientale e alla salute. In estate si tiene anche il festival teatrale. Nel 2006 ha raggiunto la sua quinta edizione ed era incentrato sul tema “La poesia e la lotta”. Info: http://granara.alekos.org. Altro appuntamento da non perdere è quello con “Bella Ciao”, il festival romano ideato nel 2005 da Ascanio Celestini. Quest’anno (a settembre) il filo rosso univa lavoro precario e diritto alla casa. www.bella-ciao.it



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