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Economia / Approfondimento

Meno tasse per tutti. Il regalo di Trump alle multinazionali Usa

Il presidente Usa Donald Trump fotografato all’interno di uno stabilimento Apple. Sullo sfondo il segretario del Dipartimento del Tesoro Steven Mnuchin - © The White House

Nel 2017 è diventato operativo il Tax Cuts and Jobs Act, la riforma fiscale voluta dal presidente. Un rapporto ha analizzato i bilanci 2018 delle prime 500 imprese per fatturato, scoprendo che in media hanno versato appena l’11,3% degli utili

Tratto da Altreconomia 223 — Febbraio 2020

“Plaudo all’House Ways and Means Committee per l’introduzione del Tax Cuts and Jobs Act (TCJA), che è un altro passo importante verso un imponente sgravio fiscale per il popolo americano”. Il 2 novembre 2017, in occasione del via libera all’introduzione della “sua” riforma fiscale, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump era decisamente compiaciuto. La nuova legge avrebbe dovuto comportare “tagli fiscali per gli americani a medio reddito e che lavorano duramente”, cancellare le “scappatoie e le detrazioni sleali” e tagliare le tasse alle imprese “in modo che i datori di lavoro possano creare posti nuovi, aumentare i salari e rafforzare la loro competitività in tutto il mondo”. La bandiera della riforma fu l’abbassamento delle tasse federali sui profitti delle aziende dal 35 al 21% (-40%). “Gli interessi particolari distorceranno i fatti -dichiarò Trump-, i lobbisti cercheranno di salvare i loro accordi, e alcuni media daranno conto in maniera scorretta dei nostri sforzi. Ma la mia amministrazione lavorerà instancabilmente”.

Le nuove regole, come detto, sono state approvate a fine 2017, dunque il primo confronto utile tra le promesse del presidente Usa e gli effetti reali del TCJA è stato possibile sul 2018. L’Institute on Taxation and Economic Policy (ITEP, itep.org), organizzazione non-profit di Washington, ha atteso il tempo necessario e poi si è concentrato su ricavi, utili e imposte delle prime 500 multinazionali per fatturato della classifica Fortune e in particolare su quelle 379 che avevano chiuso il bilancio in utile (la tassa interessa le marginalità). Complessivamente 765 miliardi di dollari, ante imposte. Il risultato dell’analisi contenuta nel report “Corporate Tax Avoidance in the First Year of the Trump Tax Law” -curato da Matthew Gardner, Lorena Roque e Steve Wamhoff e pubblicato a metà dicembre 2019- è dirompente.

La maggioranza delle 379 mega-aziende sotto esame avrebbe versato imposte a un’aliquota di gran lunga inferiore al 21% previsto per legge: quella media è dell’11,3%, ovvero 87 miliardi di dollari. È il livello più basso dal 1984, da quando cioè l’ITEP effettua questo tipo di elaborazione. Il titolo del loro primo studio di metà anni Ottanta in materia è significativo per comprendere la portata di questo “record”: “Corporate Income Taxes in the Reagan Years”. Altri tempi, o quasi. “All’epoca dei tagli fiscali del presidente Ronald Reagan del 1981 -si legge nel report- la prima analisi di ITEP aveva messo in luce come le società in utile versassero in media appena il 14,1% dei loro profitti in imposte”. Poi, nel 1986 -con il Tax Reform Act di Reagan- cambia lo scenario, tanto che, due anni più tardi, l’aliquota fiscale dell’imposta sulle società effettivamente rilevata sale al 26,5%.

Le 379 imprese della lista Fortune 500 che hanno chiuso il bilancio 2018 in positivo cumulano utili prima delle imposte per 765 miliardi di dollari

Oggi siamo ben lontani da quella soglia. E i beneficiari dei miliardari sconti fiscali del 2018 sono nomi che ricorrono: Bank of America, J.P. Morgan Chase, Wells Fargo, Amazon e Verizon, da soli, hanno raccolto complessivamente 16 miliardi di dollari sotto forma di agevolazioni fiscali, “tax breaks”. Le prime 25 aziende delle 379 oggetto dello studio ne hanno assorbiti 37,1 miliardi sui 73,9 complessivi. Un proficuo affare per pochissimi. La performance fiscale sotto l’amministrazione Trump, tutta a favore delle grandi multinazionali -e in particolare del settore delle utility, gas, automotive e idrocarburi-, “non è una legge di natura”, annotano gli studiosi di ITEP, ma è frutto di precisi meccanismi contenuti nel “Tax Act” per volere del legislatore. “Nel 2018, 91 aziende tra cui Amazon, Chevron, Halliburton e IBM -spiegano i curatori dello studio- o non hanno letteralmente pagato tasse, cioè tasso pari a zero, oppure hanno indicato a bilancio un tasso addirittura negativo, beneficiando ad esempio di sgravi o crediti d’imposta rimborsati dal Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti”.

Ricostruire nel dettaglio le specificità di ciascuna impresa non è semplice, ma l’ITEP ha provato comunque a riassumere le principali cause dell’elusione fiscale di Stato. Dall’“ammortamento accelerato” degli investimenti delle aziende che rinvia di fatto a tempi indefiniti l’incontro con il fisco, ai 10,9 miliardi di dollari di agevolazioni derivanti dalle “stock option” -i piani che assegnano ai manager, ai membri dei consigli di amministrazione oppure ai dipendenti di un’azienda la facoltà di acquistare (o di assegnare) titoli del capitale della società-, fino agli incentivi previsti ad hoc a seconda dei settori in cui operano le società.

Aumentare l’aliquota dal 21% -che come visto è un’asticella del tutto astratta- al 35% potrebbe però non essere sufficiente, chiariscono i ricercatori dell’ITEP nel capitolo sulle proposte di riforma. C’è infatti un tema di allargamento della base imponibile, di trasparenza nelle informazioni fiscali da parte delle aziende e di limitazione concreta degli enormi “omaggi fiscali” che il TCJA dell’amministrazione Trump non solo non ha contrastato ma nei fatti ha addirittura agevolato.

Bank of America, J.P. Morgan Chase, Wells Fargo, Amazon e Verizon, da soli, hanno raccolto 16 miliardi di dollari sotto forma di agevolazioni fiscali

Lo scoglio più grande rimane quello della conoscibilità e dell’accessibilità dei dati. “Non dovrebbe essere difficile per legislatori, i media e l’opinione pubblica, determinare e conoscere le aliquote d’imposta pagate dalle più importanti e danarose aziende della nazione -lamenta l’ITEP-. In realtà è un’impresa incredibilmente difficile. Solo il fatto che un rapporto come questo richieda diversi mesi per essere completato (pubblicato a fine 2019 è relativo ai bilanci 2018, ndr) evidenzia la necessità di un’informazione pubblica più chiara e dettagliata sulle imposte federali sui redditi delle imprese”. Il modo migliore per sanare questo buco informativo sull’effettivo regime fiscale “sarebbe quello di richiedere alle aziende di divulgare pubblicamente i dati finanziari Paese per Paese. I ricavi totali, gli utili, le imposte pagate, le spese, il capitale, il numero di dipendenti a tempo pieno”. Permetterebbe di sapere come, quanto (e perché) le imprese, anche quelle al di fuori della classifica Fortune, abbiano pagato tasse sugli utili così distanti dall’aliquota legale del 21%. “Queste informazioni sarebbero di grande aiuto, non solo per gli analisti -concludono gli esperti di ITEP- ma anche per i decisori politici”.

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